DA «SCOLACINŻӘ!» A «SENŻECCÒLLӘ!»
di Luigi Murolo
«Scolaćinżә!» era la misteriosa parola con cui i ragazzi della mia età interrompevano momentaneamente le regole del gioco in attesa di un chiarimento, di una spiegazione, di una richiesta. La si pronunciava ogni qualvolta se ne presentasse l’esigenza. Nel momento in cui ciò accadeva, iniziava d’emblée quella singolare sospensione del tempo che ripristinava la regolarità violata.
Davvero
straordinario il potere di quella dichiarazione. Una dichiarazione che trova
riscontro in una voce del dialetto barese: «filecènżә». E cioè entrambe le
varianti derivanti da uno stipite comune: la locuzione latina sit cum
licentia. Vale a dire: «sia fatto con licenza». Da questo punto di vista,
il valore imperativo della concessione aveva un solo scopo: garantire
l’interruzione nel contesto della conformità alla normativa del gioco.
E chi poteva
immaginare da ragazzi che, dietro la maschera di quello sgangherato Scolaćinżә!,
si potesse nascondere il richiamo al particolare ordine dato da Giosuè al sole
e alla luna nella battaglia contro gli Amorrei: «Sole, fermati su Gabaon! / e
tu, luna, sulla valle di Aialon! / Il sole si fermò, / la luna restò immobile,
[…]» (Gs, 10, 12-14). Immaginiamo l’ordine preceduto dalla formula sit cum
licentia Dei! “Sia fatto con il permesso di Dio!”. Ma, soprattutto,
immaginiamolo con la locuzione in dialetto vastese che recita: «Scolaćinżә! Sole, fermati su Gabaon! / e tu, luna, sulla valle di Aialon! / Il sole si
fermò, / la luna restò immobile, […]». Possiamo capire quale e quanta potenza
contenesse in sé l’evocazione di quella parola!
Giocare con la sospensione
del tempo e non accorgersene: questo lo splendore dell’infanzia! Spezzare il continuum
della storia e chiedere: ma di che cosa stai parlando? Da questo punto di
vista, è ancora più dolce la memoria dell’antica fanciullezza. L’ontologia del
gioco ha consentito di percorrere una strada su cui è posto un cartello con un
divieto – che solo i ragazzi degli anni Cinquanta possono capire – e che in
dialetto imperativamente recita: «Sənżəccòllə!». Il che vuol dire: «non
rimuovere l’ostacolo!».
Vi immaginate sottolineare
agli amministratori della città o alle torme sciamanti di cavallette che
invadono le aree di riserva come Punta d’Erce la sonorità del divieto che recita:
«Sənżəccòllə!» – cioè, «non rimuovere l’ostacolo» –. Si riceverebbe una
sonora risata! Figuriamoci con la delicata locuzione che recita: «Scolaćinżә!».
Chi, oggi, di quei
vecchi ragazzi come me, si divertirebbe a giocare con la morte e dirle: Scolaćinżә?
Dovremmo essere come l’Antonius Block del Settimo sigillo che afferma:
«Questa è la mia mano, posso muoverla, e in essa pulsa il mio sangue. Il sole
compie ancora il suo alto arco nel cielo. E io… io, Antonius Block, gioco a
scacchi con la Morte». Ma noi non avevamo questa opportunità. Avevamo di fronte
la sola locuzione che recita: Sənżəccòllə! Per i contemporanei devastatori
degli ambienti e che ignorano il significato delle parole potrebbe valere l’altra
frase idiomatica locale che recita: «Fàttə sàjjə da lu quänə di Ćillàcchiə».
Intelligenti pauca.
Sənżəccòllə? D’accordo. Ma
possibilmente con un refrain. Quale? Quello di una remota canzone d’autore che
ricorda: «E cade la pioggia e cambia ogni cosa, / la morte e la vita non
cambiano mai / l’estate è passata l’inverno è alle porte / la morte e la vita
rimangono uguali».
Pubblicato da
Mercurio Saraceni