Dipartimento di Studi e Ricerche sulla Storia di Vasto

lunedì 17 agosto 2020

DA «SCOLACINŻӘ!» A «SENŻECCÒLLӘ!»

 DA «SCOLACINŻӘ!» A «SENŻECCÒLLӘ!»

di Luigi Murolo

 Alcuni conoscenti mi hanno chiesto il significato di due locuzioni dell’antico dialetto vastese. Mi auguro di poter soddisfare la loro domanda.

«Scolaćinżә!» era la misteriosa parola con cui i ragazzi della mia età interrompevano momentaneamente le regole del gioco in attesa di un chiarimento, di una spiegazione, di una richiesta. La si pronunciava ogni qualvolta se ne presentasse l’esigenza. Nel momento in cui ciò accadeva, iniziava d’emblée quella singolare sospensione del tempo che ripristinava la regolarità violata.

Davvero straordinario il potere di quella dichiarazione. Una dichiarazione che trova riscontro in una voce del dialetto barese: «filecènżә». E cioè entrambe le varianti derivanti da uno stipite comune: la locuzione latina sit cum licentia. Vale a dire: «sia fatto con licenza». Da questo punto di vista, il valore imperativo della concessione aveva un solo scopo: garantire l’interruzione nel contesto della conformità alla normativa del gioco.

E chi poteva immaginare da ragazzi che, dietro la maschera di quello sgangherato Scolaćinżә!, si potesse nascondere il richiamo al particolare ordine dato da Giosuè al sole e alla luna nella battaglia contro gli Amorrei: «Sole, fermati su Gabaon! / e tu, luna, sulla valle di Aialon! / Il sole si fermò, / la luna restò immobile, […]» (Gs, 10, 12-14). Immaginiamo l’ordine preceduto dalla formula sit cum licentia Dei! “Sia fatto con il permesso di Dio!”. Ma, soprattutto, immaginiamolo con la locuzione in dialetto vastese che recita: «Scolaćinżә! Sole, fermati su Gabaon! / e tu, luna, sulla valle di Aialon! / Il sole si fermò, / la luna restò immobile, […]». Possiamo capire quale e quanta potenza contenesse in sé l’evocazione di quella parola!

Giocare con la sospensione del tempo e non accorgersene: questo lo splendore dell’infanzia! Spezzare il continuum della storia e chiedere: ma di che cosa stai parlando? Da questo punto di vista, è ancora più dolce la memoria dell’antica fanciullezza. L’ontologia del gioco ha consentito di percorrere una strada su cui è posto un cartello con un divieto – che solo i ragazzi degli anni Cinquanta possono capire – e che in dialetto imperativamente recita: «Sənżəccòllə!». Il che vuol dire: «non rimuovere l’ostacolo!».

Vi immaginate sottolineare agli amministratori della città o alle torme sciamanti di cavallette che invadono le aree di riserva come Punta d’Erce la sonorità del divieto che recita: «Sənżəccòllə!» – cioè, «non rimuovere l’ostacolo» –. Si riceverebbe una sonora risata! Figuriamoci con la delicata locuzione che recita: «Scolaćinżә!».  

Chi, oggi, di quei vecchi ragazzi come me, si divertirebbe a giocare con la morte e dirle: Scolaćinżә? Dovremmo essere come l’Antonius Block del Settimo sigillo che afferma: «Questa è la mia mano, posso muoverla, e in essa pulsa il mio sangue. Il sole compie ancora il suo alto arco nel cielo. E io… io, Antonius Block, gioco a scacchi con la Morte». Ma noi non avevamo questa opportunità. Avevamo di fronte la sola locuzione che recita: Sənżəccòllə! Per i contemporanei devastatori degli ambienti e che ignorano il significato delle parole potrebbe valere l’altra frase idiomatica locale che recita: «Fàttə sàjjə da lu quänə di Ćillàcchiə». Intelligenti pauca.

Sənżəccòllə? D’accordo. Ma possibilmente con un refrain. Quale? Quello di una remota canzone d’autore che ricorda: «E cade la pioggia e cambia ogni cosa, / la morte e la vita non cambiano mai / l’estate è passata l’inverno è alle porte / la morte e la vita rimangono uguali».



Pubblicato da

Mercurio Saraceni