Dipartimento di Studi e Ricerche sulla Storia di Vasto

venerdì 24 aprile 2020

PER UN’ANTROPOLOGIA STORICA DI UN CULTO LOCALE


Antropologia storica di un culto locale

PER UN’ANTROPOLOGIA STORICA DI UN CULTO LOCALE


di Luigi Murolo

Ciò che intendo affrontare in questa sede è il modo in cui nasce, agli inizi del XVIII secolo, un culto come quello su pellegrinaggio e festa di S. Nicola di Bari. Che poi costituisce un uscir-fuori collettivo dalle mura urbane estraneo alla traditio locale, che viene pubblicamente riconosciuto dalla massima auctoritas civile della città in ragione dell’adempimento di un voto per grazia ricevuta. La cinta muraria non costituisce più un limite verso l’esterno. Tutti possono varcare la soglia in exitu: ma alla sola condizione che sia itinerarium fidei. L’approccio verso l’aperto non è più solo autorizzazione per un singolo: ma diventa transito di una communitas. È questa prospettiva religiosa del viaggio che ne garantisce la possibilità terrena. Viaggiare da soli è periculosum maxime. In comitiva il singolo è protetto. Questa marcia accidentata sulla terra (boschi, fiumi, rilievi ecc.) discopre il sovrasenso che ne è il motore. Nella pratica antropologica del viaggio collettivo, l’abitatore della città sperimenta l’oggetto che lo determina. Quest’orizzonte culturale non fonda se stesso su una traditio. È la sua ripetibilità a determinarne il funzionamento. Da questo punto di vista si assiste a un mutamento di outillage religioso. Che non è solo dottrina con ragioni in se stesa, ma prima di ogni altra cosa, prassi antropologica.
Inizio dal luogo di culto, per il fatto che, seppur esistita all’interno del centro antico di Vasto una chiesa intitolata a S. Nicola dei Guarlasi (poi a S. Maria del monte Carmelo), essa non ha mai avuto relazione con gli abitatori autoctoni. Fin dall’istituzione del consolato raguseo in città nel 1523, è stata sede religiosa della ricca comunità mercantile transadriatica qui allocata. Ora, se la festività del santo era patrimonio cultuale dei semplici domiciliati – vale a dire degli stranieri dell’altra sponda–, non lo stesso si può dire per i residenti (la figurazione bizantineggiante del Nicola di Cona di mare [fig. 1] è in posizione laterale e sussidiaria rispetto alla tipologia odeigitria della Theotokós vastese). In effetti, l’elenco delle festività da celebrare riportato dagli Statuti comunali di Vasto di metà Cinquecento (I, 2; il secondo capitolo del primo libro dal titolo De festiuitatibus celebrandis), non restituisce alcun riferimento al vescovo di Mira (in effetti, oltre alle domeniche e alle feste in onore del Cristo e della Madonna, risulta documentata la venerazione civile e religiosa solo per «Sancto Laurentio, Santo Augustino (…) Santo Matheo,  Sancto Joannj, Sancto Marcho, Santo Angelo de Septenbro [S. Michele], Sancto Stefano, Santo Honofrio, Sancto Rocho, Santo Sebastiano, Sancto Leonardo, Santo Thomasi de Aquino, Santo Nicola da Tollentino»). Tra le ottantasei festività religiose attestate nel documento, l’unica menzione per un Nicola è quella relativa al santo agostiniano Nicola da Tolentino canonizzato nel 1446 e venerato nella chiesa di S. Agostino (oggi S. Giuseppe) di cui esisteva una cappella fino al 1890. Da ciò si evince che risulta posteriore alla metà del XVI secolo il culto per il Nicola baresano se è vero che, stando alla testimonianza dello storico Nicola Alfonso Viti (1600-1649), due cappelle rurali intitolate al suo nome risultavano attive nel Vasto del 1644: S. Nicola della Meta, S. Nicola di Torricella.

 San Nicola

(Fig. 1: Michele Greco da Valona, Trittico di Cona di Mare (1505). 
Particolare di S. Nicola) 
Dal punto di vista cultuale, la menzione del pellegrinaggio vastese più antico fino a oggi conosciuto al Santo di Bari si deve alla penna di Diego Maciano nel colportage da lui compilato tra il 1700 e il 1729. Qui l’autore spiega le ragioni del viaggio iniziato il 27 aprile 1714: la confraternita del Carmine si reca a Bari per adempiere al voto sulla guarigione della marchesa del Vasto Ippolita d’Avalos in quel periodo ancora impossibilitata perché convalescente (voto definitivamente sciolto l’anno successivo con un sontuoso viaggio calessato, non a piedi). La lista dei partecipanti all’iniziativa di ringraziamento, redatta sempre dallo stesso Maciano il 26 aprile 1714 [fig. 2], veniva annotata sul retro dell’anteporta di un cabreo recentemente scoperto da Paolo Calvano:

 Lista partecipanti al pellegrinaggio del 1714

(Fig. 2: La lista dei partecipanti al pellegrinaggio del 1714)
Come si può osservare, in assenza di una cultualità autoctona, il pellegrinaggio “popolare” nasce come servizio religioso ai signori del luogo. La stessa presenza di ben sei presbiteri (Diego Maciano, Francesco Gatta, Giuseppe Cacciuni, Gio.Carlo Pettine, Giuseppe Impastari, Giacinto Oliuij) avrebbe contributo alla diffusione cittadina della devozione. Al punto che lo stesso nipote di don Giacinto Oliuij, Francesco Oliuij Leone (lo stesso autore dell’Inno alla Sacra Spina in latino) avrebbe composto il testo con una versificazione di facilissima memorizzazione (quartine di settenari piani con settenari tronchi e un solo settenario sdrucciolo) di cui non è pervenuta la partitura musicale. Il brano, rimasto inedito (trascritto a mano dallo storico ottocentesco Luigi Marchesani [figg. 3, 4, 5] insieme con tutta la pia guida dei canti laudatori in italiano del Leone, in due volumetti in-24°, dal titolo Parafrasi, ed Inni sagri). Alle pp. 63-66 della seconda parte è contenuto l’Inno a S. Nicola di Bari che riproduco:

 Inno di san Nicola 1

(Fig. 3)

 Inno di San Nicola 2

(Fig. 4)

 Inno di San nicola 3

(Fig. 5)
  
Il testo manoscritto dell’Inno a S. Nicola di Bari

A San Nicola di Bari
(trascrizione)

Se vide il cieco, il zoppo
Se ‘l passo die’ spedito,
e al sordo se l’udito perduto
Perduto ritornò,

Son questi, o Cristiani,
Le grazie ed i portenti
Che fe sopra i languenti
Il nostro Niccolò.

Ovunque sta’ ‘l pericolo
In terra, in aria, o in mare,
Ognun che ‘l sa pregare
In salvo può condur,

Oh quanti naviganti,
Quante partorienti,
Da grandine cadenti
Quanti salvati fur!

Con giubilo rammento
Quel vago giovanetto,
Ch’era tra lacci stretto
In cruda schiavitù.

Il giovane piangea,
e ‘l Turco lo schernisce;
Ma ratto gli sparisce,
e nol rivede più,

è Niccolò colui,
Che per la chioma il prende,
e in un momento il rende
Al mesto genitor.

Son di memoria degne
Anche le tre donzelle.
Che meste e poverelle
Si pascon di dolor.

Ma il Niccolò che in loro
Qualche periglio vede
Di notte le provvede
Di quanto bisognò.

L’autor del ricco dono
Il padre curïoso
Volle spiarne ascoso,
Lo vide, e ‘l pubblicò.

La Manna poi mirabile
Che scatorisce in Bari
Dall’ossa singolari
Del nostro Protettor.

Non è un portento assiduo
Che per la meraviglia
Ci fa inarcar le ciglia
E ci consola il cuor?

Oh Bari avventurato,
Che ‘l gran tesor possiedi
E te i divoti vedi
A folla frequentar.

Chi reca gemme ed oro
In grato e pio tributo,
E chi novello ajuto
Concorre ad implorar.

Deh Niccolò, gradisci
D’ogni fedele i voti,
E me fra’ tuoi divoti
Ti piaccia custodir.

Acciò da te protetto
Sempre m’ajuti Dio,
E alfin clemente e pio
Mi voglia il Cielo aprir

Aggiungo ancora che l’iconografia dell’antico stendardo in seta della Congrega del Carmine (con l’immagine di S. Nicola nel recto e con quella di S. Maria del Carmelo con le anime purganti nel verso) – probabilmente lo stesso innalzato dallo «stannardiere» Paolo Di Roscio nel pellegrinaggio del 1714 e oggi conservato presso la cattedrale di S. Giuseppe – si trova alla base (ma in forma rovesciata) del motivo su tela che il pittore Giulio Cesare de Litiis (1734-1816) realizza per la chiesa del Carmine nell’olio dal titolo la Madonna del Carmine con san Nicola e sant’Andrea.

 Stendardo San Nicola

(Fig. 6: Stendardo)
Non vi sono dubbi. In questo periodo viene strutturandosi l’impianto antropologico-religioso della festa nicolaiana. A chiarire aspetti significativi di questa vicenda giunge la deliberazione n.213/13 ottobre 1879 con cui il consiglio comunale di Vasto provvedeva alla cessione ad uso di culto della chiesa rurale di S. Nicola della Meta di patronato laicale del Municipio a favore del sacerdote sig. Giuseppe Miscione. Nella domanda ad hoc presentata dal presbitero il 5 marzo 1875 si faceva presente che, nel 1874, veniva riattivata per la prima volta la funzione religiosa della cappella dopo 38 anni di totale sospensione della solennità (fig. 6). A partire dal 1836, dunque, con l’istituzione di un camposanto provvisorio soppresso nel febbraio 1844 grazie all’apertura del nuovo cimitero in contrada Catello, la festa di S. Nicola era stata cancellata. I 1750 cadaveri deposti nelle fosse colà scavate impedivano nel luogo ogni ragionevole celebrazione festiva. Unica clausola di rispetto prevista dalla cessione: impedire ai «pastorelli» il pascolo nell’area ex-sepolcrale.

 Chiesa di San Nicola

(Fig. 7: Il restauro della chiesa di S. Nicola. Disegno di A. Celano)

 Deliberazione del 13 ottobre 1879

(Fig. 8: La deliberazione del 13 ottobre 1879)

Un’ultima questione. Dopo il 1893 la festa viene nuovamente sospesa (non si conoscono le ragioni) per essere riattivata nel 1903. Nel n. 14 di quell’anno, il settimanale «Istonio» registra quanto segue: «Domenica 10 [maggio] dopo tanti anni si è celebrata nella nostra città la festa di S. Nicola per voto di tutti i pellegrini che non avevano potuto recarsi a Bari per le infezioni di vaiolo manifestatesi nelle Puglie, con un concorso straordinario e considerevole di popolazione ed anche di forestieri». Già. Una sorta di sollevazione popolare richiedeva soprattutto la pratica processionale dalla cappella in città quale meccanismo sostitutivo dello sbarco del Santo e del pellegrinaggio da Vasto a Bari.
Che cosa dire di più! Penso soprattutto ai pastorelli esclusi dal pascolo. A me torna in mente il Pastorello Abruzzese dipinto da Filippo Palizzi che con la sua zampogna poggiata sulla terra pare raccogliere l’aria degli abitanti ipogei. Una suggestione. Nient’altro che una suggestione. Ma che, a poco di duecento anni dalla nascita dell’artista (16 giugno 1818-16 giugno 2018), riconduce l’attenzione sul misterioso poggio di S. Nicola che, nelle sue profondità, nasconde ancora le tracce dell’ottocentesco campo sepolcrale.

 Filippo Palizzi - Pastorello abruzzese

(Fig. 9: F. Palizzi, Pastorello abruzzese, cm 65 x 51) 
(da Filippo Marino, Vasto Gallery)



Pubblicato da Mercurio Saraceni

mercoledì 22 aprile 2020

Per una cultivar autoctona di uva vastese: la « San Francesco»


Uva San Francesco - Foto di copertina
La «Pro Loco Città del Vasto» ha invitato il prof. Luigi Murolo a riproporre i suoi interventi sulla biodiversità alimentare del nostro territorio in epoche passate, per “cercare di recuperare importanti specie che rischiano l’estinzione”. Si inizia con l’articolo, apparso quest’inverno prima sul blog personale di Murolo e poi ripreso anche dal periodico “Vasto Domani”, che tratta della cosiddetta Uva del Vasto conosciuta anche come Uva San Francesco. L’articolo, rivisto ed ampliato per questa occasione, riveste un’importanza fondamentale per lo studio sia della biodiversità alimentare, che dell’economia del nostro territorio. Infatti, da circa un anno, l’Istituto per la Storia di Vasto e la Pro Loco “Città del Vasto”, con la collaborazione di alcuni suoi iscritti, hanno dato inizio ad una ricerca documentaria ed ad uno studio approfondito sulle produzioni alimentari e sul fiorente commercio che ha caratterizzato Vasto nei secoli XVIII e XIX. Uno studio che, seppur forzatamente interrotto dalla pandemia da COVID-19 attualmente in corso, ha finora permesso di recuperare, tramite la ricerca ed il ritrovamento negli archivi storici di Vasto, Chieti e altre località, una non trascurabile documentazione che testimonia un importante spaccato dell’economia e della società della nostra città in epoche passate. Speriamo di poter riprendere al più presto questa ricerca e questo studio al fine di poterlo rendere noto. Buona lettura.

Mercurio Saraceni

Per una cultivar autoctona di uva vastese: la « San Francesco»

di Luigi Murolo
0. Operare nel contesto dell’Istituto per la Storia di Vasto si tratta, laddove possibile, di affrontare la storia delle biodiversità alimentari per tentare il recupero delle specie in estinzione. La cosiddetta Uva del Vasto costituisce l’argomento del presente intervento. Grazie alle celeberrime illustrazioni di Giorgio Gallesio per la Pomona Italiana ossia Trattato degli alberi fruttiferi (Pisa 1817-1839) oppure alla ceroplastica in alabastro di Francesco Garnier Valletti che ho fotografato nei musei degli Istituti agrari di Firenze e di Todi è possibile avere memoria iconografica di alcune cultivar oggi scomparse.
Ma se è vero che attraverso il modellismo pomologico la produzione artistica ha salvato in copia (divenuta originale) l’autentico perduto oggi occorre ricorrere all’Unesco perché il patrimonio culturale immateriale possa trovare la necessaria conservazione. Per la prima volta, nel 2017, un pezzo d’Abruzzo è diventato patrimonio culturale dell’umanità: sto parlando dei cinque nuclei di antiche faggete ricadenti in un’area di 937 ha. comprese tra i comuni di Lecce nei Marsi (Moricento), Opi (ValFondillo-Valle Iancino), Pescasseroli (Coppo del Principe, Coppo del Morto), Villavallelonga (Valle Cervara). Sono diventati patrimonio mondiale nel contesto delle Faggete primordiali dei faggi dei Carpazi e di altre regioni d’Europa. E se è vero che non tutto è riconducibile al capitale humanis generi (che non è il titolo di un’enciclica), a quello di una comunità, sì! In tal senso, se grazie a Slow Food è stata garantita la tutela dei pomodori mezzotempo di Vasto, anche la sua uva autoctona – la «san Francesco» –, esige la medesima forza di presidio. Tra Istituto per la storia di Vasto e Pro Loco si può certamente svolgere un’azione propositiva. Le note che seguono vogliono andare in questa direzione.

1. L’anno è il 1839. In una memoria per gli «Atti dell’Accademia Gioenia di Scienze Naturali di Catania» (tip. Di Riggio, 1839), l’abate Giovacchino Geremia pubblica una memoria dal lungo titolo: Continuazione del Vertunno etneo ovvero staifulegrafia storia della varietà delle varietà delle uve che trovansi nel d’intorno dell’Etna. A essa fa seguire un’Appendice al Vertunno etneo. Confronto tra le uve etnee e quelle di Napoli con talune dal Gallesio descritte in cui afferma: «Uva del Vasto di eccellente qualità, somiglia alla Imperiale bianca» (p. 66). Si tratta (per quanto ne sappia) della prima attestazione di questa cultivar con tale nome. Quasi non bastasse, per lo stesso prelato, il vitigno in questione diventa riferimento di un altro: «[Uva] Marocca quasi somigliante a quella del Vasto, ma più rotonda e con acino pingue, a differenza della prima che ha bacche assai grosse» (p. 68)
Cinque anni più tardi – nel 1844 –, il botanico napoletano Guglielmo Gasparrini propone la seguente descrizione ampelografica per l’Uva del Vasto da tavola (coltivata, ovviamente, a Napoli): «grappoli grandi, acini grossi, duracini, carnosi, bianchi. Comincia a maturare nella fine di Agosto e si mantiene per l’inverno. Si coltiva in parecchi giardini» (in Su le viti e le vigne del Distretto di Napoli, in «Annali Civili del Regno», fasc. LXIX, maggio/giugno 1844, p. 2). Considera, tra l’altro, questa cultivar con altre facenti parte di un contesto di qualità: «Uva del Vasto, Sanginella nera e bianca, Inzolia, Catalanesca, Uva rosa, Uva pruna, Falanchina, Marrocca, Zuccherina, Cannamele, Persana, Salamanna, Moscadella, Barletta» (in Ibid., p. 4). Quasi non bastasse, Guglielmo Gasparrini, l’anno successivo, torna sullo stesso tema in un altro scritto con queste parole: «Le migliori uve mangerecce per la loro qualità sono la moscadella, una varietà della Salamanna domandata volgarmente moscadellona, la sanginella che ci pare non si trovi in altre parti d’Italia, la pignola detta glianica dai Napoletani; seguitano la corniola, la catalanesca, la groia, quella detta del Vasto, ed altre» (in Breve ragguaglio dell’agricoltura e pastorizia del Regno di Napoli di qua dal Faro, Napoli, Tip. Del Filialtre Sebezia, 1845, pp. 29-30).
Ora, come già detto, per rendere più sicura l’identificazione della cultivar in Sicilia (forse perché rara nell’Isola), l’abate Giovacchino Geremia parla di una somiglianza dell’Uva del Vasto con l’Imperiale bianca. Ma per sapere che cosa fosse quest’ultima, dobbiamo ricorrere a un trattato agronomico siciliano del Seicento che scioglie definitivamente il problema. Sto parlando dell’ Hortus catholicus di Francesco Cuppari pubblicato a Napoli (Neapoli, ap. Franciscum Benzi, 1696. La copia consultata proviene dalla Biblioteca di Monaco di Baviera). L’autore ordina alfabeticamente la materia. E solo quando discute dei singoli vitigni precisa con stile ampelografico: «Vitis mediocribus vinaceis, durulis, oblongis, candido fulvis, sapidis. Vulgo Inzolia vranca. Eadem racemo et granis majoribus, flavescentibus, sapidioribus. Vulgo Inzolia Impiriali ò di Napuli. Eadem maiori, nigro fructu, suaui in ore, ac liquabili. Vulgo Inzolia nigra» (in Ibid. p. 232). Il che vuol dire: «Vite con mediocri vinacce, piuttosto dure, rosso bianche, sapide. Dal volgo chiamata Inzolia vranca [bianca]. Dallo stesso racemo [si trova] ma con acini più grandi, biondo rossastri e più sapidi [ciò che è chiamata] dal volgo Inzolia Imperiale o di Napoli. E da un racemo più grande, con acini neri, soave e liquabile in bocca [ciò che è chiamata] dal volgo Inzolia nera». Grazie alla mediazione ampelografica degli antichi botanici siciliani, sappiamo che l’Uva del Vasto risulta simile alla cultivar dell’Inzolia. Essendo, pertanto, una varietà dell’Inzolia, l’Uva del Vasto dovrebbe essere classificata come Ansonica (nome ufficiale delle Inzolie) nel Catalogo nazionale delle varietà ad uve da vino [fig. 1].

Uva Inzolia

(Fig. 1: uva Inzolia)
Ma se fino a questo momento l’interesse è stato centrato sulla cultivar, occorre adesso parlare della sua topicità, del suo luogo di origine. In effetti, non credo che gli agronomi ottocenteschi si riferissero a Vasto, la città che, in quel tempo, il vulgo chiamava Lu Huàštǝ Mammónǝ. In realtà, per i napoletani e per gli stessi siciliani, Il Vasto era un quartiere metropolitano della città partenopea (abitato dagli Avalos). Ciò lo si comprende dal fatto che gli scritti del Gasparrini parlano delle uve coltivate nel distretto di Napoli, non nel Regno. L’unica testimonianza che connette l’Uva del Vasto con l’omonima città è dovuta a Luigi Marchesani che identifica quella cultivar con l’altra in loco chiamata Uva San Francesco. Nei fatti, è lo stesso medico-umanista a precisare: «[…] è la nostra trapiantata ne’ dintorni di Napoli, che fornisce alla Capitale la dolcissima grossa e bianca uva di S. Francesco, venduta quivi col nome di uva del Vasto» (Storia di Vasto città in Apruzzo Citeriore, Napoli, Torchi dell’Osservatore medico, 1838/41, p. 161). La topicità del vitigno è basata solo su questo passo (di per sé rilevante). A ben vedere, lo stesso memorialista vastese Nicola Alfonso Viti (1600-1649) nulla dice sulla denominazione della cultivar. Va osservato però che, quando lo storico seicentesco scrive, segnala un vitigno solo da poco introdotto che produce un’uva particolare (grappoli e acini). Così facendo, non solo consente di fissare nel corso del Cinquecento un’importante attestazione della pianta nella città (la più antica si rileva in un protocollo di notar Robio del 3 dicembre 1547) oltre che di indicare tanto la località di origine quanto lo stesso nome del produttore: «Tra le sorte d’Uve se ne vede una, che fa grappoli maravigliosi crescendo l’acino alla forma d’un ovo di colomba nella Vigna di Stefano del Monte hoggi posseduta dagl’Eredi di Gio: Battista Ricci nella contrada di Santo Biagio» (Memoria dell’Antichità del Vasto, in L. Marchesani, Esposizione degli oggetti raccolti nel Gabinetto archeologico comunale del Vasto, Chieti, Tip. Vella, 1857, fasc. III, p. 29). Aggiungo. Il riferimento più datato nel tempo su di un del Monte vastese – Augustino, marito di Vicenzina de Thomaso e padre di Io.Cola – l’ho rinvenuto sul Liber baptizatorum Ecclesiae Sanctae Mariae Maioris 1565-1598 al dì 10 maggio 1573 (c. 33a).
Ora, stando a quanto scrive Giovanni Dalmasso (con Marescalchi) nella sua monumentale (in tre volumi) Storia della vite e del vino in Italia, Milano, Unione Italiana Vini, 1931, 1933, 1937), la già citata Inzolia imperiale ha la sua corrispettiva in Abruzzo con la cosiddetta Ortonese (in dialetto pruvulónǝ, pergolone). Infatti, l’abate Geremia parlava di somiglianza, non di identità tra uva del Vasto e Inzolia imperiale. Ciò vuol dire che per la san Francesco si parla di varietà autoctona rispetto a una famiglia. Da questo punto di vista non è nemmeno possibile ipotizzare relazioni tra il prodotto vastese con i vitigni attestati negli Statuti di Lanciano del 1592*. Il capitolo 87 del documento, pur proponendo la nomenclatura di ben cinque qualità commerciate nel sec. XVI, non consente di individuare rapporti con eventuali Inzolie dell’epoca: «Item è posto et ordinato che non sia persona alcuna tanto cittadina quanto forastiera, tanto di Feria tanto d’altro tempo, ardisca né presuma vendere altra sorte d’uva che di Moscatello pergolo uva Pane uva Donnola Precoccio et Malvasia senza licentia del Sindico, il quale sia tenuta darla gratis et che riconosca la qualità delle persone, acciò sappia d’onde l’hanno havuta sotto pena, sotto pena di un carlino per chi contrafara» [fig. 2].

Statuti comunali di Lanciano
(Fig. 2: Statuti comunali di Lanciano. Cap. 87: “Dell’uva”)
Dico subito che non entro nel merito di questi vitigni su cui tornerò in altra occasione. Ciò che, al contrario, interessa è l’annotazione per cui, tra i tanti vitigni esistenti, la città di Lanciano ne ammette solo cinque, (Moscatello Pergolo, Uva Pane, Uva donnola, Precoccio, Malvasia), escludendo gli altri. Ecco allora l’aspetto rilevante. Lo statuto in questione lega alla sola commercializzazione del prodotto l’indicazione filogenetica del vitigno. Sappiamo, inoltre, che, sulla base del Libro degli affitti (1747) della Camera Baronale di Castiglione alla Pescara (oggi a Casauria) si pagava l’affitto «per il Moscatello alle Coste di San Felice»; non sappiamo, però, se si tratta della stessa specie di quella menzionata a Lanciano. In buona sostanza, nell’un caso o nell’altro, va sempre ricordato che il moscatello, insieme con le altre cultivar menzionate in questo intervento, aprono a un tentativo di restituzione storica della biodiversità agricolo-commerciale della vite in Abruzzo.
Le cultivar di cui stiamo parlando sono state vinificate in passato. Anzi, sulla base dei protocolli del notaio vastese del Cinquecento Gio.Battista Robio stipulati tra contraenti del traffico interadriatico Vasto-costa Dalmata ho potuto ricostruire una breve classificazione valutativa sul gusto, circa l’antico vino commercializzato: «3 dicembre 1547, 6a ind. vino bono chiaro del Vasto alla mesura juxta de dicta terra bruschi e non dolci bono et merchatantesco; 19 marzo 1548, 6a ind. / vini boni et clari; 5 aprile 1548, vini boni meri clarique ac boni coloris et melioris saporis; 21 luglio 1548, vini boni clari boni coloris meliorisque saporis; 12 Januarij 1551, vini boni clari et boni coloris ac saporis; 9 martij 1551 vini boni clari bonique coloris et saporis; Die 9 mensis mai 1551 vini boni clari. Ciò vuol dire che, rispetto a questi atti, il sommelier contemporaneo si troverà di fronte ai seguenti indicatori: (dal più complesso al più semplice) 1. vino bono chiaro del vasto alla mesura juxta de dicta terra bruschi e non dolci bono et merchatantesco; 2. vini boni meri clarique ac boni coloris et melioris saporis; 3. vini boni clari bonique coloris et saporis; 4. boni clari (per brusco – come profilato al punto 1 – si intende acidulo, aspro di sapore).
Occorre rilevare, tra l’altro, che la Carta dei Suoli della Regione Abruzzo scala 1:250000 (2006) individua, dal punto di vista pedologico, l’area di contrada San Biagio (originaria dell’uva del Vasto) come «superfici terrazzate sommitali ampie, reincise. Substrati costituiti da sedimenti ghiaioso-sabbiosi». Ciò implica che, sul piano agricolo, quei suoli costituiscono l’83% del totale, con il 54% destinato all’arborato (uliveti e vigne). Le stesse aree con le cultivar superstiti della San Francesco (dagli ultimi ortolani che la conoscono chiamata la francese) segnalatemi dall’amico produttore vitivinicolo Domenico La Palombara sono localizzate alla Canale (molto importanti risulterebbero altre identificazioni), i cui terreni rispondono alla stessa classe pedologica. Le foto inviatemi da Domenico sono relative alla fase di invaiatura (III decade di luglio), in attesa della maturazione (I decade di settembre) [figg. 3, 4].

La Canale - Uva San Francesco - Invaiatura foto 3

Fig. 3: Vasto, La Canale: uva San Francesco (invaiatura

La Canale - Uva San Francesco - Invaiatura foto 4
Fig. 4: Vasto, La Canale. Uva San Francesco (invaiatura)

E proprio qui, dall’invaiatura, mi auguro che possa iniziare un nuovo percorso per questo sconosciuto (ai più) «liquore di Dioniso».
Un’ultima considerazione. Nel 1837 il medico vastese Domenico Raiani pubblica presso una tipografia napoletana (Tip. dell’Osservatore Medico, la stessa che avrebbe utilizzato Luigi Marchesani per l’edizione della Storia di Vasto) un lunghissimo ditirambo dal titolo Dori ne’ vigneti d’Istonio a imitazione di quel Bacco in Toscana che Francesco Redi aveva dato alle stampe nel 1687. L’autore raffronta i vini locali con quelli italiani e stranieri. E con una tecnica prossima a quella del sommelier cerca di valutarne le caratteristiche. Anzi, meglio dei professionisti contemporanei si misura con il linguaggio poetico (soprattutto sul versante della composizione letteraria) per descriverli. Il minuscolo ma preziosissimo libriccino merita una particolare attenzione per l’interesse che oggi può rivestire nel contesto nella storia del gusto, della sua fisiologia e della cultura del bere. In particolare, per conoscere il modo in cui le borghesie cittadine del primo Ottocento si rapportavano all’universo della cantina e della degustazione dei vini. In un passaggio del suo trattatello ditirambico Domenico Raiani ci informa che quelli considerati pregevoli sono molto alcolici e frizzanti: «Ah sì d’Istonio son spiritosi / I vin pregevoli e son gassosi, / E v’ha de foschi, de’ dolci e biondi» (pp. 11-12). In questa sede mi limito a presentare 97 versi del poemetto enologico per mostrare l’andamento «narrativo» del testo:

Domenico Raiani

Ditirambo
  
[…]
Or qui in Istonio
Mia cara Dori
Mirar ortagi,
Mirar palagi,
Or qui ti degna
Di mezzo ai campi, agli oliveti,
A de giardini, a dei vigneti,
Ove grandeggia,
Ove primeggia
Minerva, e Flora
Che queste tutte contrade infiora.   (p. 8)
Benigna Cerere,
Dei doni suoi
Per messi fertili
Ne porgi a noi.
Minerva i nostri ampi oliveti
Regge e Diana le selve ancor.
Tra le Amadriadi
Da te l’amata
Pomona è credimi
Da noi pregiata,
E a Lei di presso
Lo sposo amato
Vertunno e spesso -
Con seco allietasi,
Gelosi serbano,
Da’ nembi campano,
Da insetti e turbini
Arbusti ed alberi,
Radici e frutici
E piante e fior.
Ma pe’ feraci molti vigneti
Tralci dall’Indie Bacco n’addusse
E norme dienne per la coltura
Allorché Arianna seco condusse:
In quegli vegetano,
Da quegli sbucciano                         (p. 9)
Dell’uve in grappoli
Sua sol mercè,
Pendenti miransi
In tra de’ pampini
Biondeggianti,
Verdeggianti
E son pur dessi dagli alati
Zeffiretti sciorinati;
Tra lor dibattonsi
Nello stormire,
Tra lor s’intrecciano
Nell’aderire
A de vitigni
Di quà di là;
E l’uve sono di color varie;
Varie al volume ed al sapor,
Dove verdigne,
Dove rossigne,
E fosche, o scure
E bionde, oppure
Di violaceo
E di coccineo
Fosco color,
E addentro agli acini
Elettro e luce
Il sol dall’alto             (p.10)
Muove e diffonde
E in modo gl’incita
E gli matura,
Talché più tenera
E meno dura
La corteccia
Quinci si fa;
Onde quel glutine
Per entro gli acini
A gradi accendesi,
Fermenta e bulica,
Più fluido rendesi
E l’acre cangiasi
In aggradevole
Dolce sapor!
Son questi i mosti
Tanto apprezzati,
Che si fermentano
Tuttor gassosi
E che si cangiano
In que’ pregiati
Vini che a sensi
Danno energia,
Vini che al gusto
Danno piacer!
Ah si d’Istonio son spiritosi         (p. 11)
I vin pregevoli e son gassosi,
E v’ha de foschi, de’ dolci e biondi,
V’ ha degli austeri, de rubicondi.
Su per le sponde dell’Adria, a petto
All’orto molti v’ha de vigneti,
Che buoni mosti e vin perfetto
Producon d’ottima qualità.
[…]

Come si può notare, le metafore mitologiche delineano lo spazio complessivo dell’agricoltura. Con gli stessi giardini interni delle grandi dimore notabilari locali. In quest’ultimo caso Pomona e Flora giocano un ruolo decisivo. L’incontro di piante da frutto con quelle ornamentali in cui centrale risulta il pergolato di viti definisce l’hortus conclusus della modernità ottocentesca in cui il ricco borghese vive, nel nascondimento dell’aperto, le delizie del suo essere sociale. Nel berceau in muratura può sorbire con i suoi omologhi un bicchierino di rosolio discutendo magari delle pergole che, sostenendo le viti dell’uva San Francesco, regalano l’ombra durante la calura estiva. Il giardino del palazzo Genova-Rulli a Portanuova è l’unica testimonianza superstite in città di quel mondo perduto (per il berceau cfr. la fig. 5). Ed è sempre in questo luogo che una traccia epigrafica, quasi sempre coperta dalla vegetazione, restituisce la memoria del gioco di Flora e Pomona che Domenico Raiani aveva voluto poeticamente raccontare. Le parole in enjambement non lasciano equivoci (fig. 6). Al buon lettore, le conclusioni:

Qui tra Flora e Pomona
Un’aura molle
cuori allieta ed i pensieri estolle

così dettò Giuseppe Antonio Rulli nel 1854


Vasto - Giardino Genova-Rulli - Il berceau
(Fig. 5: Vasto. Giardino palazzo Genova-Rulli. Il berceau)

Vasto - Giardino Genova-Rulli - Epigrafe per il luogo di delizie
(Fig. 6: Vasto. Giardino palazzo Genova-Rulli. Epigrafe per il luogo di delizie)