La «Pro Loco Città del Vasto» ha invitato il prof. Luigi Murolo a
riproporre i suoi interventi sulla biodiversità alimentare del nostro
territorio in epoche passate, per “cercare di recuperare importanti specie che
rischiano l’estinzione”. Si inizia con l’articolo, apparso quest’inverno prima sul
blog personale di Murolo e poi ripreso anche dal periodico “Vasto Domani”, che tratta della cosiddetta Uva del Vasto conosciuta anche come Uva
San Francesco. L’articolo, rivisto ed ampliato per questa occasione, riveste
un’importanza fondamentale per lo studio sia della biodiversità alimentare, che
dell’economia del nostro territorio. Infatti, da circa un anno, l’Istituto per
la Storia di Vasto e la Pro Loco “Città del Vasto”, con la collaborazione di
alcuni suoi iscritti, hanno dato inizio ad una ricerca documentaria ed ad uno
studio approfondito sulle produzioni alimentari e sul fiorente commercio che ha
caratterizzato Vasto nei secoli XVIII e XIX. Uno studio che, seppur forzatamente
interrotto dalla pandemia da COVID-19 attualmente in corso, ha finora permesso
di recuperare, tramite la ricerca ed il ritrovamento negli archivi storici di
Vasto, Chieti e altre località, una non trascurabile documentazione che
testimonia un importante spaccato dell’economia e della società della nostra
città in epoche passate. Speriamo di poter riprendere al più presto questa
ricerca e questo studio al fine di poterlo rendere noto. Buona lettura.
Mercurio Saraceni
Per una cultivar autoctona di uva vastese: la « San Francesco»
di Luigi Murolo
0.
Operare
nel contesto dell’Istituto per la Storia di Vasto si tratta, laddove possibile,
di affrontare la storia delle biodiversità alimentari per tentare il recupero
delle specie in estinzione. La cosiddetta Uva del Vasto costituisce
l’argomento del presente intervento. Grazie alle celeberrime illustrazioni di
Giorgio Gallesio per la Pomona Italiana ossia Trattato degli alberi
fruttiferi (Pisa 1817-1839) oppure alla ceroplastica in alabastro di
Francesco Garnier Valletti che ho fotografato nei musei degli Istituti agrari
di Firenze e di Todi è possibile avere memoria iconografica di alcune cultivar
oggi scomparse.
Ma
se è vero che attraverso il modellismo pomologico la produzione artistica ha
salvato in copia (divenuta originale) l’autentico perduto oggi occorre
ricorrere all’Unesco perché il patrimonio culturale immateriale possa trovare
la necessaria conservazione. Per la prima volta, nel 2017, un pezzo d’Abruzzo è
diventato patrimonio culturale dell’umanità: sto parlando dei cinque nuclei di
antiche faggete ricadenti in un’area di 937 ha. comprese tra i comuni di Lecce
nei Marsi (Moricento), Opi (ValFondillo-Valle Iancino),
Pescasseroli (Coppo del Principe, Coppo del Morto),
Villavallelonga (Valle Cervara). Sono diventati patrimonio mondiale nel
contesto delle Faggete primordiali dei faggi dei Carpazi e di altre regioni
d’Europa. E se è vero che non tutto è riconducibile al capitale humanis
generi (che non è il titolo di un’enciclica), a quello di una comunità, sì!
In tal senso, se grazie a Slow Food è stata garantita la tutela dei pomodori
mezzotempo di Vasto, anche la sua uva autoctona – la «san Francesco» –, esige
la medesima forza di presidio. Tra Istituto per la storia di Vasto e Pro
Loco si può certamente svolgere un’azione propositiva. Le note che seguono
vogliono andare in questa direzione.
1. L’anno è il
1839. In una memoria per gli «Atti dell’Accademia Gioenia di Scienze Naturali
di Catania» (tip. Di Riggio, 1839), l’abate Giovacchino Geremia pubblica una
memoria dal lungo titolo: Continuazione del Vertunno etneo ovvero
staifulegrafia storia della varietà delle varietà delle uve che trovansi nel d’intorno
dell’Etna. A essa fa seguire un’Appendice al Vertunno etneo. Confronto
tra le uve etnee e quelle di Napoli con talune dal Gallesio descritte in
cui afferma: «Uva del Vasto di eccellente qualità, somiglia alla
Imperiale bianca» (p. 66). Si tratta (per quanto ne sappia) della prima
attestazione di questa cultivar con tale nome. Quasi non bastasse, per lo
stesso prelato, il vitigno in questione diventa riferimento di un altro: «[Uva]
Marocca quasi somigliante a quella del Vasto, ma più rotonda e
con acino pingue, a differenza della prima che ha bacche assai grosse» (p. 68)
Cinque
anni più tardi – nel 1844 –, il botanico napoletano Guglielmo Gasparrini
propone la seguente descrizione ampelografica per l’Uva del Vasto da tavola
(coltivata, ovviamente, a Napoli): «grappoli grandi, acini grossi, duracini,
carnosi, bianchi. Comincia a maturare nella fine di Agosto e si mantiene per
l’inverno. Si coltiva in parecchi giardini» (in Su le viti e le vigne del
Distretto di Napoli, in «Annali Civili del Regno», fasc. LXIX,
maggio/giugno 1844, p. 2). Considera, tra l’altro, questa cultivar con altre
facenti parte di un contesto di qualità: «Uva del Vasto, Sanginella nera e
bianca, Inzolia, Catalanesca, Uva rosa, Uva pruna, Falanchina, Marrocca,
Zuccherina, Cannamele, Persana, Salamanna, Moscadella, Barletta» (in Ibid.,
p. 4). Quasi non bastasse, Guglielmo Gasparrini, l’anno successivo, torna sullo
stesso tema in un altro scritto con queste parole: «Le migliori uve mangerecce
per la loro qualità sono la moscadella, una varietà della Salamanna domandata
volgarmente moscadellona, la sanginella che ci pare non si trovi in altre parti
d’Italia, la pignola detta glianica dai Napoletani; seguitano la
corniola, la catalanesca, la groia, quella detta del Vasto, ed altre» (in Breve
ragguaglio dell’agricoltura e pastorizia del Regno di Napoli di qua dal Faro,
Napoli, Tip. Del Filialtre Sebezia, 1845, pp. 29-30).
Ora,
come già detto, per rendere più sicura l’identificazione della cultivar in
Sicilia (forse perché rara nell’Isola), l’abate Giovacchino Geremia parla di
una somiglianza dell’Uva del Vasto con l’Imperiale bianca. Ma per sapere che
cosa fosse quest’ultima, dobbiamo ricorrere a un trattato agronomico siciliano
del Seicento che scioglie definitivamente il problema. Sto parlando dell’ Hortus
catholicus di Francesco Cuppari pubblicato a Napoli (Neapoli, ap.
Franciscum Benzi, 1696. La copia consultata proviene dalla Biblioteca di Monaco
di Baviera). L’autore ordina alfabeticamente la materia. E solo quando discute
dei singoli vitigni precisa con stile ampelografico: «Vitis mediocribus
vinaceis, durulis, oblongis, candido fulvis, sapidis. Vulgo Inzolia
vranca. Eadem racemo et granis majoribus, flavescentibus, sapidioribus.
Vulgo Inzolia Impiriali ò di Napuli. Eadem maiori, nigro
fructu, suaui in ore, ac liquabili. Vulgo Inzolia nigra» (in Ibid.
p. 232). Il che vuol dire: «Vite con mediocri vinacce, piuttosto dure, rosso
bianche, sapide. Dal volgo chiamata Inzolia vranca [bianca]. Dallo
stesso racemo [si trova] ma con acini più grandi, biondo rossastri e più
sapidi [ciò che è chiamata] dal volgo Inzolia Imperiale o di Napoli.
E da un racemo più grande, con acini neri, soave e liquabile in bocca [ciò
che è chiamata] dal volgo Inzolia nera». Grazie alla mediazione
ampelografica degli antichi botanici siciliani, sappiamo che l’Uva del Vasto
risulta simile alla cultivar dell’Inzolia. Essendo, pertanto, una varietà
dell’Inzolia, l’Uva del Vasto dovrebbe essere classificata come Ansonica
(nome ufficiale delle Inzolie) nel Catalogo nazionale delle varietà ad uve
da vino [fig. 1].
(Fig.
1:
uva Inzolia)
Ma
se fino a questo momento l’interesse è stato centrato sulla cultivar, occorre
adesso parlare della sua topicità, del suo luogo di origine. In effetti,
non credo che gli agronomi ottocenteschi si riferissero a Vasto, la città che,
in quel tempo, il vulgo chiamava Lu Huàštǝ Mammónǝ. In realtà,
per i napoletani e per gli stessi siciliani, Il Vasto era un quartiere
metropolitano della città partenopea (abitato dagli Avalos). Ciò lo si comprende
dal fatto che gli scritti del Gasparrini parlano delle uve coltivate nel
distretto di Napoli, non nel Regno. L’unica testimonianza che connette l’Uva
del Vasto con l’omonima città è dovuta a Luigi Marchesani che identifica
quella cultivar con l’altra in loco chiamata Uva San Francesco. Nei
fatti, è lo stesso medico-umanista a precisare: «[…] è la nostra trapiantata
ne’ dintorni di Napoli, che fornisce alla Capitale la dolcissima grossa e
bianca uva di S. Francesco, venduta quivi col nome di uva del Vasto» (Storia
di Vasto città in Apruzzo Citeriore, Napoli, Torchi dell’Osservatore
medico, 1838/41, p. 161). La topicità del vitigno è basata solo su questo passo
(di per sé rilevante). A ben vedere, lo stesso memorialista vastese Nicola
Alfonso Viti (1600-1649) nulla dice sulla denominazione della cultivar. Va
osservato però che, quando lo storico seicentesco scrive, segnala un vitigno
solo da poco introdotto che produce un’uva particolare (grappoli e acini). Così
facendo, non solo consente di fissare nel corso del Cinquecento un’importante
attestazione della pianta nella città (la più antica si rileva in un protocollo
di notar Robio del 3 dicembre 1547) oltre che di indicare tanto la località di
origine quanto lo stesso nome del produttore: «Tra le sorte d’Uve se ne vede
una, che fa grappoli maravigliosi crescendo l’acino alla forma d’un ovo di
colomba nella Vigna di Stefano del Monte hoggi posseduta dagl’Eredi di Gio:
Battista Ricci nella contrada di Santo Biagio» (Memoria dell’Antichità del
Vasto, in L. Marchesani, Esposizione degli oggetti raccolti nel
Gabinetto archeologico comunale del Vasto, Chieti, Tip. Vella, 1857, fasc.
III, p. 29). Aggiungo. Il riferimento più datato nel tempo su di un del
Monte vastese – Augustino, marito di Vicenzina de Thomaso e padre di
Io.Cola – l’ho rinvenuto sul Liber baptizatorum Ecclesiae Sanctae Mariae
Maioris 1565-1598 al dì 10 maggio 1573 (c. 33a).
Ora,
stando a quanto scrive Giovanni Dalmasso (con Marescalchi) nella sua
monumentale (in tre volumi) Storia della vite e del vino in Italia,
Milano, Unione Italiana Vini, 1931, 1933, 1937), la già citata Inzolia
imperiale ha la sua corrispettiva in Abruzzo con la cosiddetta Ortonese (in
dialetto pruvulónǝ, pergolone). Infatti, l’abate Geremia parlava di somiglianza,
non di identità tra uva del Vasto e Inzolia imperiale. Ciò vuol dire che
per la san Francesco si parla di varietà autoctona rispetto a una
famiglia. Da questo punto di vista non è nemmeno possibile ipotizzare relazioni
tra il prodotto vastese con i vitigni attestati negli Statuti di
Lanciano del 1592*. Il capitolo 87 del documento, pur proponendo la
nomenclatura di ben cinque qualità commerciate nel sec. XVI, non consente di
individuare rapporti con eventuali Inzolie dell’epoca: «Item è posto et
ordinato che non sia persona alcuna tanto cittadina quanto forastiera, tanto di
Feria tanto d’altro tempo, ardisca né presuma vendere altra sorte d’uva che di
Moscatello pergolo uva Pane uva Donnola Precoccio et Malvasia senza licentia
del Sindico, il quale sia tenuta darla gratis et che riconosca la qualità delle
persone, acciò sappia d’onde l’hanno havuta sotto pena, sotto pena di un
carlino per chi contrafara» [fig. 2].
(Fig.
2:
Statuti comunali di Lanciano. Cap. 87: “Dell’uva”)
Dico
subito che non entro nel merito di questi vitigni su cui tornerò in altra
occasione. Ciò che, al contrario, interessa è l’annotazione per cui, tra i
tanti vitigni esistenti, la città di Lanciano ne ammette solo cinque, (Moscatello
Pergolo, Uva Pane, Uva donnola, Precoccio, Malvasia), escludendo gli
altri. Ecco allora l’aspetto rilevante. Lo statuto in questione lega alla sola
commercializzazione del prodotto l’indicazione filogenetica del vitigno.
Sappiamo, inoltre, che, sulla base del Libro degli affitti (1747) della
Camera Baronale di Castiglione alla Pescara (oggi a Casauria) si pagava
l’affitto «per il Moscatello alle Coste di San Felice»; non sappiamo, però, se
si tratta della stessa specie di quella menzionata a Lanciano. In buona
sostanza, nell’un caso o nell’altro, va sempre ricordato che il moscatello,
insieme con le altre cultivar menzionate in questo intervento, aprono a un
tentativo di restituzione storica della biodiversità agricolo-commerciale della
vite in Abruzzo.
Le
cultivar di cui stiamo parlando sono state vinificate in passato. Anzi, sulla
base dei protocolli del notaio vastese del Cinquecento Gio.Battista Robio
stipulati tra contraenti del traffico interadriatico Vasto-costa Dalmata ho
potuto ricostruire una breve classificazione valutativa sul gusto, circa
l’antico vino commercializzato: «3 dicembre 1547, 6a ind. vino
bono chiaro del Vasto alla mesura juxta de dicta terra bruschi e non
dolci bono et merchatantesco; 19 marzo 1548, 6a ind. / vini
boni et clari; 5 aprile 1548, vini boni meri clarique ac boni coloris et
melioris saporis; 21 luglio 1548, vini boni clari boni coloris
meliorisque saporis; 12 Januarij 1551, vini boni clari et boni coloris
ac saporis; 9 martij 1551 vini boni clari bonique coloris et
saporis; Die 9 mensis mai 1551 vini boni clari. Ciò vuol dire che,
rispetto a questi atti, il sommelier contemporaneo si troverà di fronte ai
seguenti indicatori: (dal più complesso al più semplice) 1. vino bono chiaro
del vasto alla mesura juxta de dicta terra bruschi e non dolci bono et
merchatantesco; 2. vini boni meri clarique ac boni coloris et melioris
saporis; 3. vini boni clari bonique coloris et saporis; 4. boni
clari (per brusco – come profilato al punto 1 – si intende acidulo,
aspro di sapore).
Occorre
rilevare, tra l’altro, che la Carta dei Suoli della Regione Abruzzo scala
1:250000 (2006) individua, dal punto di vista pedologico, l’area di
contrada San Biagio (originaria dell’uva del Vasto) come «superfici
terrazzate sommitali ampie, reincise. Substrati costituiti da sedimenti
ghiaioso-sabbiosi». Ciò implica che, sul piano agricolo, quei suoli
costituiscono l’83% del totale, con il 54% destinato all’arborato (uliveti e
vigne). Le stesse aree con le cultivar superstiti della San Francesco
(dagli ultimi ortolani che la conoscono chiamata la francese) segnalatemi
dall’amico produttore vitivinicolo Domenico La Palombara sono localizzate alla Canale
(molto importanti risulterebbero altre identificazioni), i cui terreni
rispondono alla stessa classe pedologica. Le foto inviatemi da Domenico sono
relative alla fase di invaiatura (III decade di luglio), in attesa della
maturazione (I decade di settembre) [figg. 3, 4].
Fig.
3:
Vasto, La Canale: uva San Francesco (invaiatura)
Fig.
4:
Vasto, La Canale. Uva San Francesco (invaiatura)
E
proprio qui, dall’invaiatura, mi auguro che possa iniziare un nuovo percorso
per questo sconosciuto (ai più) «liquore di Dioniso».
Un’ultima
considerazione. Nel 1837 il medico vastese Domenico Raiani pubblica presso una
tipografia napoletana (Tip. dell’Osservatore Medico, la stessa che avrebbe
utilizzato Luigi Marchesani per l’edizione della Storia di Vasto) un
lunghissimo ditirambo dal titolo Dori ne’ vigneti d’Istonio a imitazione
di quel Bacco in Toscana che Francesco Redi aveva dato alle stampe nel
1687. L’autore raffronta i vini locali con quelli italiani e stranieri. E con
una tecnica prossima a quella del sommelier cerca di valutarne le
caratteristiche. Anzi, meglio dei professionisti contemporanei si misura con il
linguaggio poetico (soprattutto sul versante della composizione letteraria) per
descriverli. Il minuscolo ma preziosissimo libriccino merita una particolare
attenzione per l’interesse che oggi può rivestire nel contesto nella storia del
gusto, della sua fisiologia e della cultura del bere. In particolare, per conoscere
il modo in cui le borghesie cittadine del primo Ottocento si rapportavano all’universo
della cantina e della degustazione dei vini. In un passaggio del suo
trattatello ditirambico Domenico Raiani ci informa che quelli considerati
pregevoli sono molto alcolici e frizzanti: «Ah sì d’Istonio son spiritosi /
I vin pregevoli e son gassosi, / E v’ha de foschi, de’ dolci e biondi» (pp.
11-12). In questa sede mi limito a presentare 97 versi del poemetto enologico
per mostrare l’andamento «narrativo» del testo:
Domenico
Raiani
Ditirambo
[…]
Or
qui in Istonio
Mia
cara Dori
Mirar
ortagi,
Mirar
palagi,
Or
qui ti degna
Di
mezzo ai campi, agli oliveti,
A
de giardini, a dei vigneti,
Ove
grandeggia,
Ove
primeggia
Minerva, e Flora
Che
queste tutte contrade infiora. (p. 8)
Benigna
Cerere,
Dei
doni suoi
Per
messi fertili
Ne
porgi a noi.
Minerva
i nostri ampi oliveti
Regge
e Diana le selve ancor.
Tra
le Amadriadi
Da
te l’amata
Pomona
è credimi
Da
noi pregiata,
E
a Lei di presso
Lo
sposo amato
Vertunno
e spesso -
Con
seco allietasi,
Gelosi
serbano,
Da’
nembi campano,
Da
insetti e turbini
Arbusti
ed alberi,
Radici
e frutici
E
piante e fior.
Ma
pe’ feraci molti vigneti
Tralci
dall’Indie Bacco n’addusse
E
norme dienne per la coltura
Allorché
Arianna seco condusse:
In
quegli vegetano,
Da
quegli sbucciano
(p. 9)
Dell’uve
in grappoli
Sua
sol mercè,
Pendenti
miransi
In
tra de’ pampini
Biondeggianti,
Verdeggianti
E
son pur dessi dagli alati
Zeffiretti
sciorinati;
Tra
lor dibattonsi
Nello
stormire,
Tra
lor s’intrecciano
Nell’aderire
A
de vitigni
Di
quà di là;
E
l’uve sono di color varie;
Varie
al volume ed al sapor,
Dove
verdigne,
Dove
rossigne,
E
fosche, o scure
E
bionde, oppure
Di
violaceo
E
di coccineo
Fosco
color,
E
addentro agli acini
Elettro
e luce
Il
sol dall’alto (p.10)
Muove
e diffonde
E
in modo gl’incita
E
gli matura,
Talché
più tenera
E
meno dura
La
corteccia
Quinci
si fa;
Onde
quel glutine
Per
entro gli acini
A
gradi accendesi,
Fermenta
e bulica,
Più
fluido rendesi
E
l’acre cangiasi
In
aggradevole
Dolce
sapor!
Son
questi i mosti
Tanto
apprezzati,
Che
si fermentano
Tuttor
gassosi
E
che si cangiano
In
que’ pregiati
Vini
che a sensi
Danno
energia,
Vini
che al gusto
Danno
piacer!
Ah
si d’Istonio son spiritosi (p.
11)
I vin pregevoli e son gassosi,
E v’ha de foschi, de’ dolci e biondi,
V’
ha degli austeri, de rubicondi.
Su
per le sponde dell’Adria, a petto
All’orto
molti v’ha de vigneti,
Che
buoni mosti e vin perfetto
Producon
d’ottima qualità.
[…]
Come
si può notare, le metafore mitologiche delineano lo spazio complessivo
dell’agricoltura. Con gli stessi giardini interni delle grandi dimore
notabilari locali. In quest’ultimo caso Pomona e Flora giocano un ruolo
decisivo. L’incontro di piante da frutto con quelle ornamentali in cui centrale
risulta il pergolato di viti definisce l’hortus conclusus della
modernità ottocentesca in cui il ricco borghese vive, nel nascondimento
dell’aperto, le delizie del suo essere sociale. Nel berceau in muratura
può sorbire con i suoi omologhi un bicchierino di rosolio discutendo magari
delle pergole che, sostenendo le viti dell’uva San Francesco, regalano l’ombra
durante la calura estiva. Il giardino del palazzo Genova-Rulli a Portanuova è
l’unica testimonianza superstite in città di quel mondo perduto (per il berceau
cfr. la fig. 5). Ed è sempre in questo luogo che una traccia epigrafica,
quasi sempre coperta dalla vegetazione, restituisce la memoria del gioco di
Flora e Pomona che Domenico Raiani aveva voluto poeticamente raccontare. Le
parole in enjambement non lasciano equivoci (fig. 6). Al buon
lettore, le conclusioni:
Qui tra Flora e Pomona
Un’aura molle
cuori allieta ed i pensieri
estolle
così dettò Giuseppe Antonio
Rulli nel 1854
(Fig.
5:
Vasto. Giardino palazzo Genova-Rulli. Il berceau)
(Fig.
6:
Vasto. Giardino palazzo Genova-Rulli. Epigrafe
per il luogo di delizie)
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