Dipartimento di Studi e Ricerche sulla Storia di Vasto

lunedì 25 maggio 2020

«LENTEZZA»


 Gaetano Celano etichetta

«lentezza»

Cibo, turismo, terroir, stili di vita nella storia di Vasto


di Luigi Murolo


A meno di dieci anni dalla conclusione del secondo conflitto mondiale le province abruzzesi discutevano l’organizzazione del turismo nei propri territori con le istituzioni delle Aziende Autonome di Soggiorno e Turismo (AAST) sciolte successivamente con L. R. 23 aprile 1980 riapprovata il 15 aprile 1981. Il dibattito sulle pagine locali dei quotidiani del tempo chiariva in modo eloquente le condizioni materiali in cui versava la struttura complessiva dell’accoglienza e le strategie perseguite per migliorarla. Tra le soluzioni previste dall’AAST di Vasto, la gastronomia diventava essenziale. Anzi, avrebbe costituito la prima concreta iniziativa programmata dall’ente, sottolineando quanto contasse la civiltà della tavola e della cucina nelle intuizioni progettuali del suo animatore. E non solo per il rapporto tout court cucina/turismo. Ma anche per il modo in cui tale endiadi sarebbe dovuta essere affrontata. Mi piace pensare a quanto recita il primo articolo dello Statuto del Touring Club Italiano laddove si parla di uno «sviluppo del turismo, inteso anche quale mezzo di conoscenza di paesi e culture, e di reciproca comprensione e rispetto fra i popoli. In particolare il TCI intende collaborare alla tutela e alla educazione ad un corretto godimento del patrimonio italiano di storia, d’arte e di natura, che considera nel suo complesso bene insostituibile da trasmettere alle generazioni future». Si può ben capire, allora, quanto la sostituzione di TCI con AAST possa esaurientemente spiegare il senso di quella manifestazione. Ma c’è di più. Il paradigma del viaggio intorno alla gastronomia si sostanzia di quel sapere intriso di sapore maturato tra i frequentatori del Bel Paese. Il senso di tale miscela si può ritrovare nel memorabile apologo sulle ferrovie che Bertarelli, fondatore del turismo italiano, traccia nella prima edizione della Guida Tci (1927) e su cui, oggi, tornerebbe sicuramente utile spendere qualche parola:

Così il visitatore può scegliere tra le due forme, la sintetica e la minuziosa: come accade di certe ferrovie, che son percorse da treni diretti, destinati ad arrestarsi solo nelle grandi stazioni e dai quali il passeggero percepisce solo fugacemente il paesaggio; mentre a pochi minuti di distanza, quei treni sono seguiti da altri, dalla marcia più lenta e dalle molteplici fermate: ottimi per chi, avendo un largo tempo a disposizione, voglia godere più agiatamente il percorso e conoscerne le particolari bellezze. – Insomma il lettore vi trova il molto e il poco, a suo piacere; ma non vi manca niente dell’essenziale.
 La citazione pone l’accento sulla consapevolezza di due stili di vita e di percezione dei luoghi: e ciò nel momento in cui la lentezza comincia a diventare alternativa alla velocità. Con un’aggiunta: la scelta vastese degli anni Cinquanta si misurava con una prospettiva dialettica in un contesto che, di fatto, la rendeva praticabile. Dove, però, le condizioni postbelliche favorivano la prima soluzione rispetto alla seconda. Sicché, tra velocità e lentezza, il cibo si presentava come il grimaldello per aprire la via al turismo. Ma andiamo per ordine.
Milano, 29 luglio 1953, Hotel Diana. Fondazione dell’Accademia Italiana della Cucina grazie ai seguenti personaggi: Luigi Bertett, Dino Buzzati, Cesare Chiodi, Giannino Citterio, Ernesto Donà dalle Rose, Michele Guido Franci, Gianni Mazzocchi Bastoni, Arnoldo Mondadori, Attilio Nava, Arturo Orvieto, Severino Pagani, Aldo Passante, Gian Luigi Ponti, Giò Ponti, Dino Villani, Edoardo Visconti di Modrone, Orio Vergani.
Vasto, 12-13 settembre 1953. L’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Vasto presieduta da Carlo Boselli realizza il I Festival gastronomico interregionale Marche-Abruzzo-Molise con annessa Mostra della Cucina.
Due date – divise da meno di due mesi – che sembrano prospettare all’estate del 1953 la nascita di un’attenzione per la civiltà italiana del cibo e per le biodiversità gastronomiche regionali. Cosa molto importante: nessuna relazione è da stabilire tra le due iniziative. L’una nasce indipendentemente dall’altra. Unico tratto comune: la sensibilità avvertita in due contesti radicalmente differenti nei confronti di una questione fino a allora sottovalutata. La prima, carica di interessi culturali e di ricerca; la seconda, destinata alla scoperta di un insieme di cucine regionali “dimenticate” insieme con tutto il patrimonio di gusto consegnato ai contemporanei dalla traditio dei territori. No. In quest’ ultimo caso non era ancora possibile parlare di valorizzazione – del resto, come sarebbe stato possibile in un periodo di gran lunga anteriore al boom economico, in assenza di strade (vale la pena rammentare che l’Anas veniva istituita nel 1946), con una statale 16 tortuosissima e dominata dai camion, con il tratto autostradale Pescara-Vasto inaugurato nel 1969, con l’accessibilità alle aree garantita dalla sola linea ferroviaria (le locomotive erano ancora a carbone) –. Semmai, l’AAST di Vasto tendeva a fornire una vetrina di prodotti gastronomici disponibili ai residenti o, al più, al raro viaggiatore (sempre che ci fosse stato) che si spingeva in questi remoti angoli del levante italiano non ancora lambiti dalla mobilità di massa e dagli effetti dell’industrializzazione (il porto di Punta Penna aprirà al traffico mercantile solo alla fine del 1958, con la prima industria attivata nel 1959) e con un Adriatico bloccato, allora frontiera insormontabile tra occidente e oriente. Da questo punto di vista, un riferimento al generale non guasta. Così, tanto per ricordare, Trieste sarebbe tornata a far parte dell’amministrazione civile italiana solo a partire dal 26 ottobre 1954.
1953, dunque. La città non disponeva ancora di alberghi destinati a un turismo centrato sulla mobilità stradale (per quel che po’ che serviva, svolgeva egregiamente il suo lavoro il solo piccolo hotel Nuova Italia). Magari, era stato proprio lì, il luogo in cui Guido Piovene aveva soggiornato durante il suo lungo Viaggio in Italia e che, in ragione della sua sosta vastese, aveva avuto occasione di scrivere: «In quella graziosa città marinara che è Vasto […] il brodetto di pesce è il piatto giornaliero d’obbligo […]; nelle stradine e nelle piazze si spande l’odore del fritto» (G. Piovene, Viaggio in Italia, Milano, Baldini&Castoldi, 1999, p. 547).
Già. Agli albori del turismo in Abruzzo (e siamo sempre nel 1953) la discussione riguardava la scarsa ricettività alberghiera della regione. In un articolo dell’edizione abruzzese di «Momento sera» del 5 gennaio 1953 (a firma di Antonio Jacondini) il titolo recitava: «La deficienza alberghiera e la rinascita. Secondo le statistiche, la nostra regione è al quindicesimo posto nel campo dell’attrezzatura turistica». E le cose non finivano qui. In effetti, l’edizione abruzzese del «Giornale d’Italia» in un pezzo anonimo del 4 gennaio 1953 sottolineava: «Il turismo regionale. Solo 4000 letti disponibili negli alberghi». A riconferma di ciò, la pagina abruzzese de «Il Messaggero» del 14 gennaio 1953 in un intervento di Giuseppe Marini precisava che «Per favorire il turismo abruzzese è necessario costruire nuovi alberghi». Quasi non bastasse, un servizio anonimo del «Mattino d’Abruzzo» di Pescara del 30 gennaio 1953 aggiungeva: «Come in Alta Italia. Necessaria l’iniziativa privata per lo sviluppo del nostro turismo». Così, proprio per quest’ultima ragione, si spiegano le ragioni che avrebbero indotto la Casmez a spingere per l’apertura a Vasto dell’Autostello-Aci nel 1955 e all’avvio, sempre nello stesso anno, della costruzione del Jolly hotel.
Certo, la lettura di questa documentazione ordinata dal Servizio ritagli stampa dell’EPT e conservata oggi presso l’Archivio di Stato di Chieti, costituisce un osservatorio di straordinaria sinteticità e rilevanza per comprendere quanto accadeva nel turismo abruzzese durante gli anni Cinquanta (a tal proposito vale la pena ricordare come, in quel periodo, fossero le Province gli organismi territoriali di governo, non le Regioni a statuto ordinario [come tutti sanno, istituite nel 1970]). Malgrado la limitazione di area di competenza, il ricco dossier informativo spazia ben oltre l’orizzonte di riferimento, consentendo di seguire con attenzione le attività svolte nelle quattro province abruzzesi. Si scopre, ad esempio, che veniva posta l’esigenza di affrontare il problema turistico in una prospettiva più ampia, di tipo interregionale. Lo si apprende dal «Mattino d’Abruzzo» di Pescara del 25 maggio 1952 che, in un articolo a firma Dino Tiboni, titolava: «Per l’incremento del turismo. È necessaria unità d’azione tra città balneari marco-abruzzesi». Sicché, l’idea di coordinare le città rivierasche del medio Adriatico (malgrado i soli 4000 letti d’Abruzzo), sembrava poter essere una proposta credibile per ampliare l’offerta di accoglienza per i viaggiatori interessati (vale a dire, consapevoli e informati) – gli unici presenti in quegli anni in zone per così dire “marginali” e di certo ragguagliati da quel celebrato Baedeker che era (e che è) la Guida Rossa del Touring) –.
Da questo punto di vista, il I Festival gastronomico interregionale Marche-Abruzzo-Molise di Vasto (rimasto senza seguito) rientrava coerentemente nel paradigma del viaggio d’élite – come si è visto, l’unico allora pensabile e, soprattutto, possibile –. In quei due giorni di tarda estate del Cinquantatré (12-13 settembre), tra i visitatori residenti poteva di certo essere intravisto qualche volto sconosciuto. Stava nei fatti. Ma l’importante non era questo. Quel che interessava era la realizzazione di una “vetrina” del gusto – ricorrendo alla magica parola “festival” resa popolare da un Sanremo ancora radiofonico – per segnalarne la natura turistico-culturale tra le stesse popolazioni produttrici. A partire dalla “scoperta” di questa dimensione interregionale della rassegna, la conoscenza della tradizione gastronomica locale e dei suoi cultori comincerà a travalicare i fines locali. Tre anni più tardi, infatti – gennaio 1956 –, il ristoratore Francesco Izzi avrebbe ricevuto «Il Pesce d’Argento”, premio per la migliore cucina ittica della riviera adriatica.
Un decennio più tardi – nel 1966 –, lo stesso chef vastese torna sulla scena nazionale in un celebre articolo di Vincenzo Buonassisi pubblicato su «Le vie d’Italia» - rivista del Touring Club Italiano – [fig. 1], nel n. 12 del dicembre 1966, pp. 1459-1469 (paginazione del periodico in progressione annuale). Tal che, durante il suo viaggio in Abruzzo nell’ottobre di quell’anno (e in incontri documentati fotograficamente [figg. 2-3]) – dopo aver resocontata la presentazione della cucina abruzzese al Circolo della Stampa di Milano («Corriere della Sera», 6 marzo 1966) –, il giornalista-gastronomo, misurandosi direttamente con le pietanze d’autore, può scrivere:

 «[…]  a Vasto (dove la soglia è d’obbligo «da Francesco») incomincia il regno degli spaghetti aglio e olio, del brodetto (che ha il pregio, rispetto a quelli di altre regioni, di appoggiarsi generosamente al diavolillo), dello «scapece». Questa, in particolare, è la specialità di Vasto: sono fette pesce di spina, di seppie, e via dicendo, fritte nell’olio, conservate in aceto e zafferano. Lo «scapece» è l’unico esempio di impiego dello zafferano nella cucina abruzzese, perché tutto quello che si produce nella regione, sui piani verdi di Navelli, se ne va altrove, non ha mai fatto presa localmente. Un’altra delizia di Vasto sono le «carpeselle», cioè il pesce fritto poi marinato con aceto, a cui si aggiunge mosto cotto. Classici i polpi in purgatorio, ossia in umido, con olio, pomodoro, prezzemolo, aglio e gli immancabili peperoni». [pp. 1467-1468]

Il brano è di alta istruzione gastronomica. La lectio fornita dal grande scalco vastese consente allo scrittore di annotare con precisione il necessario. Soprattutto sottolineare un unicum nella tradizione culinaria regionale: l’uso dello zafferano di Navelli. Nel suo intervento, Buonassisi individua il topos di due prodotti (“diavolilli” e zafferano di Navelli). A indicare la specificità di alimenti che connotano le pietanze. Con una conclusione: che importante non è tanto la ricetta (di per sé infinitamente replicabile, ma i prodotti che si utilizzano per connotarla. In altre parole, ciò che potremmo definire topicità.




 Fig. 2
 Fig. 3


 Degustazione scapece


 Degustazione di pesce
Un esempio analogo lo possiamo rintracciare un secolo prima: con precisione nel 1867, allorché capita qualcosa di assolutamente singolare nella Parigi del II impero. La Ville-lumière registra la presenza di un espositore vastese nel settore alimentare – Matteo Bottari – che partecipa all’Esposizione Universale di quell’anno. Nessuno avrebbe potuto immaginare che un trentaduenne maccaronaro del remotissimo Abruzzo Citra (essendo nato a Vasto nel 1835) riuscisse a vincere la medaglia d’argento nella sua classe. Sì. Matteo Bottari aveva ottenuto l’alto riconoscimento nella produzione di pasta alimentare (cfr. L’indicatore generale del commercio e dell’industria italiana, Napoli 1876, pp. 113-114). Del resto, lo stesso risultato che gli sarebbe occorso nell’Esposizione Universale di Vienna del 1873 – sette anni più tardi – allorché avrebbe bissato il successo nel medesimo segmento produttivo (un’osservazione: quando Bottari otteneva questi risultati la De Cecco di Fara S. Martino doveva essere ancora fondata). Quasi non bastasse (e l’epoca non cambia), il pasticciere Gaetano Celano avviava la produzione artigianale di rosolio, vale a dire quella soluzione liquorosa ottenuta dai petali di rosa che oggi possiamo tranquillamente definire come prodotto agroalimentare tradizionale italiano [fig. 4]. Sulla specificazione degli elementi topici si tornerà più avanti. Non senza però ricordare i nomi degli altri «industrianti» maccaronari locali: Filippo Di Ciocco, Cesare Ruggieri, Annibale Sacchetta.

(Fig. 4: L’etichetta della distilleria di rosolio Gaetano Celano (1866). Vasto, Archivio Storico Comunale)
A questo punto diventa utile connettere tali aspetti sul versante di una possibile storia cittadina dell’ospitalità e della convivialità. Insomma, non solo la tematica relativa all’industria della pasta alimentare di qualità, ma anche all’uso locale di una bevanda «comunitaria» come il caffè nel contesto degli esercizi commerciali di intrattenimento. Il caffè, dunque? Sì, proprio il caffè. Rispondendo all’interrogativo del quando venga sorbito per la prima volta in città. E, soprattutto, per capire quale sia stato il primo mirabolante «manovratore» di prodotti orientali in chicchi e poi tostati a diffondere in città l’aroma di questa strana bevanda di color nero in un tempo che, per noi contemporanei, rimane ancora oggi sospeso e indefinito.
I dati finora disponibili consentono di delineare il seguente profilo.
In una Nota degli esercenti i diversi mestieri conservata nell’Archivio Storico Comunale di Vasto, datata 3 maggio 1827 incontriamo il minuzioso elenco (che qui riordino alfabeticamente) di bettolai, caffettieri, bottegai, cantinieri, locandieri, tavernari, venditori di dolci e liquori, venditori di vini – tutti muniti di apposita patente o in attesa di ottenerla – con una nutrita presenza di caffettieri (6 su 18.). In ordine decrescente incontriamo cantinieri (5 su 18), tavernari (2 su 18), bettolai (1 su 18), bottegari (1 su 18), locandieri (1 su 18), venditori di dolci (1 su 18), venditori di vino (1 su 18). All’interno di questo numero, va registrato un caffè-bigliardo.  In buona sostanza, almeno sulla carta, le botteghe del caffè risultano essere 1/3 di tutti gli esercizi esistenti in città. Va notata la presenza di due gestioni femminili delle attività commerciali (2/18).

Bettolaj
Saverio Bottari

Bigliardieri
Francesco Paolo de Blasiis

Bottegari
Leonardo Spatocco

Caffettieri
Cesario Castelli, Luigi Castelli, Antonio Cavallone, Raffaele Consalvo, Francesco Paolo de Blasiis, Filippo Gizzi,

Cantinieri
Michele Cinquina, Maria Di Spalatro, Luigi Giosa, Nicola Paolino, Giovanna Recchione

Locandieri
Stefano Mattioli

Tavernari
Luigi Altea, Cesare Muzii,

Venditori dolci e liquori
Pasquale Negri

Venditori vino
Sante Fenice
In un successivo elenco datata 28 gennaio 1852, risistemato con gli stessi criteri del precedente, troviamo una diversa distribuzione – sicuramente più essenziale – degli esercenti con patente (fig. 5). Il risultato è il seguente: una maggiore presenza di caffettieri (10 su 20. Uno in più rispetto a quelli numerati nel documento). In ordine decrescente incontriamo bettolieri (6/20), locandieri (3/20), gli armieri (1/20). Ciò vuol dire che, almeno sulla carta, le botteghe del caffè costituiscono la metà di tutti gli esercizi esistenti in città. Cresce, tra l’altro, la stessa presenza di gestione femminile delle attività commerciali (7/20).

Caffettieri
Cesario Castelli, Maddalena Castelli, Errico Celano, Michele Cieri, Francesco Paolo de Blasiis, Tito d’Ippolito, Rosaria Fulvio, Domenico Giovine, Errica Lattanzio, Giuseppe Moscariello

Locandieri
Filippo Marino, Giovanni Trivelli, Gaetano Vallone

Bettolieri
Maria Giuseppe Bottari, Maria Nicola Marchesani, Maria Giacinta Miscione, Lorenzo Orlandi, Saverio Reale, Maria Scodavolpe

Armieri e ferrai
Angelantonio Muzii

Il confronto tra i due registri lascia emergere un duplice aspetto delineatosi nel torno di un quarto di secolo: da un lato, la crescita delle caffetterie; dall’altro, l’aumento della gestione femminile di locali con clientela connessa con cetualità di diverso status (braccianti, contadini, manovali, pescatori, vastasi [facchini] ecc.). Dal che si può ben intendere come, a metà Ottocento, risulti ben documentata la croissance del caffè quale pratica di omologazione sociale del gusto. L’osservazione – va detto – è riferita all’esercizio pubblico perché, lo smercio della bevanda, in quello stesso periodo, era praticata anche con l’ambulantato (Fig. 6). La ragione sta nel fatto che era piuttosto farraginosa la sua preparazione in ambiente domestico. Non conosco documenti vastesi relativi a questa pratica. Difficile, a maggior ragione, quantificarla. Da questo punto di vista, la produzione in casa di caffè doveva risultare molto limitata – anzi, limitatissima –. La complessa lavorazione della tostatura scura (o “a manto di monaco”) invitava comunque all’acquisto dei chicchi presso il caffettiere. La stessa cuccumella (in rame fino al 1886) doveva essere posta non su fuoco a gas – ovviamente – ma su carboni. Con un tempo di bollitura profondamente slow. Stando così le cose, quale sarebbe potuta essere, allora, la procedura più seguita tanto in ambiente domestico quanto in ambito pubblico? Sicuramente il metodo di infusione alla turca in un samovar, dove un sacchetto di tela contenente caffè legato con un cordoncino veniva immerso in acqua fino a ebollizione. Poi, al momento della consumazione, veniva filtrato in un colino per evitare il fastidio della posa in bocca. Possibile, allora, realizzare una consumazione di caffè in casa?

(Fig. 6Il piccolo caffettiere ambulante. Stampa ottocentesca) 

Gli anni tra il 1827 e il 1852 segnano in modo inequivocabile l’incremento all’uso di questo particolare liquido che, prima di ogni altra cosa, risulta essere un meccanismo di organizzazione sociale. Ma c’è da chiedersi: qual è la testimonianza più antica di un caffettiere in città? Il presumibile numero uno? Lo si può individuare? A tal proposito, le fonti più autorevoli restano i catasti. Dopo aver compulsato l’Onciario (1742) e il Napoleonico (1813), ci accorgiamo che quest’ultimo è l’unico in grado di fornirci una traccia sicura. Alla sez. G, n.54, p. 325 troviamo la seguente indicazione: Salvatore Provicoli caffettiere [fig. 7] abitante in via (rione) Genova (una traversa di via S. Pietro franata nel 1956) in una casa con tre vani superiori e uno terraneo con cisterna (elemento fondamentale per la preparazione della bevanda).

 Lo stato di famiglia del figlio di Salvatore, Giuseppe, segnala come suo padre provenisse da Napoli e aveva sposato a Vasto Rosa Monteferrante. Per il fatto che Giuseppe fosse nato il 4 marzo 1798, diventa lecito ipotizzare il trasferimento di Salvatore a Vasto almeno un paio d’anni prima [fig. 8]. Va da sé che, con questi elementi, l’introduzione del caffè in città possa essere fissata quanto meno nell’ultimo decennio del Settecento. Provicoli muore il 25 settembre 1817 nel corso dell’epidemia di tifo petecchiale senza aver potuto conoscere l’invenzione della cuccumella a Parigi (1819) a opera di Morize che sarebbe stata successivamente rielaborata a Napoli. Dunque, il caffè che per la prima volta viene prodotto a Vasto è quello alla turca fatto con il samovar. Una notizia sicuramente importante per cogliere il rapporto che lega alla città la bevanda scura. Dovrà trascorrere ancora un buon mezzo secolo prima che il delizioso liquido aromatico – oltre a essere tale – sarebbe diventato snodo dell’incontro sociale interclassista. Ma quando ciò diventerà insopportabile per il gruppo ristretto dei «signori», ecco che si leverà il lamento dell’onorevole Francesco Ciccarone e di chi si sente minacciato nel proprio rango:

«La rivoluzione liberale del 1860 modificò profondamente nelle nostre province le relazioni fra classe e classe sociale. Se i contadini, per molti anni ancora, continuarono a vivere nel sacro timore dei signori, nell’animo dell’artigiano, del mestierante, dell’operaio, cominciarono a fermentare le vanità, le ambizioncelle. Il desiderio di mutare stato e, se non ragguagliarsi, almeno di accostarsi a chi stava più in alto nella scala sociale. Questa tendenza, dalla quale più tardi si svilupparono l’arrivismo e l’impiego, mania che fecero tanti spostati, rese assai molesto e imbarazzante per la classe dei signori quel caffè dove l’artiere non aveva osato mettere piede ed ora entrava liberamente e si permetteva di criticare questa o quella mossa al giuoco di carte, questo o quel tiro al gioco del biliardo ed anche più irrispettosa familiarità».
(F. Ciccarone, Ricordi, Vasto, Cannarsa, 1998, p. 30)

Inaccettabile, dunque, agli occhi e alle orecchie della ricca borghesia cittadina. Di fronte a tanta insolenza di classe, il solito Ciccarone si lascia andare alla seguente precisazione:

«Fu allora che venne in mente a parecchi della classe agiata di abbandonare il caffè a questi nuovi e indiscreti frequentatori il caffè e di fondare un circolo dove potessero passare il tempo senza essere costretti a spiacevoli contatti». (Ivi)
(Fig. 8Stato di famiglia di Giuseppe Provicoli con l’indicazione del padre Salvatore. Stato d’anime, Archivio Concattedrale di S. Giuseppe, Vasto)
Insomma, nessun contatto con la plebe. Contatto con la plebe che il caffè aveva consentito. Come si sarebbe risolto il tutto? Molto semplicemente: interrompendo la circolarità interclassista del caffè.
E qui torniamo di nuovo allo stile di vita. Non solo ai rapporti sociali, ma alla stessa dieta e all’ambiente in cui è inscritta. I prodotti sono espressione di ciò che viene definito terroir: vale a dire, un’area ben delimitata in cui convergono condizioni naturali, fisiche e chimiche, clima che consentono la realizzazione di prodotti ad hoc. Ad esempio, l’acqua del maccaronaro Matteo Bottari era quella di un’antica sorgente ora in disuso: le Luci. Lo stesso grano di quella pasta non era stato più utilizzato perché sostituito dal grano Cappelli: parlo del cosiddetto grano saragolla (stando alla testimonianza del Marchesani) che, nel 1801, nell’opera dal titolo I principi della vegetazione ovvero come coltivar la terra per trarre da essa il maggior possibile frutto, l’abate teramano Bernardo Quartapelle descriveva in questi termini:

[...] I nostri agricoltori distinguono diverse specie di grani, chiamandone altri duri altri bianchi. Fra i primi occupa il principal luogo la Saragolla, i cui acini sono lunghetti sodi, e di color biondo […]. Le migliori saragolle del nostro Regno ottime per fare paste, si seminano in Novembre e Dicembre […]. È un grano lungo, gialliccio, e di gran durata […].

Anche se la qualità Triticum turgidum durum comincia a essere commercialmente recuperata non lo stesso si può dire per l’acqua (a meno di voler riattare l’antico acquedotto). A partire da questi dati, i maccaroni di Bottari non hanno alcuna condizione per un’eventuale “riproducibilità”. Ecco allora il punto. Sapere e sapore – entrambi i termini fondati sulla radice sap – hanno l’opportunità di diventare protagonisti di un diverso approccio al modo di vivere l’ambiente e il cibo. Non tanto la ricetta; ma la dieta, vale a dire lo stile di vita su cui, in buona sostanza, si fonda il concetto di bene culturale immateriale. Da questo punto di vista, la rilettura dell’aureo volumetto del botanico Michele Tenore (1780-1860) dal titolo Relazione del viaggio fatto in alcuni luoghi di Abruzzo Citeriore nella State del 1831 (Napoli, Tip. P. Tizzano, 1832) costituisce un prius di straordinario interesse per cogliere il senso della ricerca sulla biodiversità in una delle province più settentrionali del Regno delle Due Sicilie. Si provi a riflettere. L’antica indagine di Michele Tenore ha per oggetto la biodiversità della Provincia di Abruzzo Citeriore – vale a dire, l’attuale Provincia di Chieti –. Un tema, dunque – quello dell’Abruzzo meridionale – che ha sempre destato interesse tra gli studiosi d’antan. In effetti, se si tiene conto delle meticolose ricognizioni svolte dal massimo illuminista del Settecento napoletano, Giuseppe Maria Galanti, non possiamo non considerare le affermazioni del Visitatore regio sull’olivo dell’Abruzzo Citeriore nel viaggio del 1792. Se da un lato, apprendiamo che l’olivo prodotto citra flumen Sangri è la monocultivar gentile, quella piantata citra flumen Piscariae è la qualità cucca (la domanda è: qual era, nella produzione dell’olio, la miscela di monocultivar? E il tipo di molitura risulta centrale nella definizione di un prodotto? La Dop è sicuramente importante nella certificazione di un prodotto alimentare. Ma ciò non significa che ne garantisca la storicità). Non solo. Nel delineare una graduatoria qualitativa della produzione olearia del Regno – che non indugia meditativamente sulla Fisiologia del Gusto alla Brillat-Savarin, ma proprio sulla tecnica dell’assaggio (vista e palato) –, Galanti pone al primo posto l’olio del Gargano; al secondo, quello di Vasto. Noi non sappiamo se alla base di tale graduatoria vi sia la specificità della molitura delle drupe (la testimonianza più antica va ricondotta alla Statistica murattiana del 1811 che parla di trappeto a trabocco [lo stesso meccanismo su cui, in seguito, verrà modellato l’ordigno da pesca tipico della Costa dei Trabocchi]). La descrizione che ne dà il Marchesani (Storia, p. 160) è molto dettagliata: «Estraggonsi gli olii ne’ nostri trappeti mercé rozza macchina, della quale il principal pezzo è un tronco smisuratamente grande e lungo, che con l’enorme peso spreme dalle olive racchiuse in sacchi di stuoia l’olio». Certamente alla base va posta una tecnologia scomparsa (documentata iconograficamente negli anni trenta del Novecento da Paul Scheuermeier in Bauernwerk in Italien [trad. it., Il lavoro dei contadini. Cultura materiale e artigianato rurale in Italia e nella Svizzera italiana e retoromanza, Milano, Longanesi, 1980, che raccoglie disegni e foto di 416 località) e, oggi, «archeologicamente» attestata, ch’io sappia, solo ad Altino]. In questo caso, credo, la ricostruzione digitale di un trappeto a trabocco può rappresentare un documento essenziale di una storia delle biodiversità del gusto e della loro costituzione immateriale nel tempo.
Da quanto mi risulta, nessuno di questi materiali è stato utilizzato per la definizione di una Dop (Colline Teatine non sembra avere un fondamento storico, nella misura in cui risulta sfuggente alle poche testimonianze esistenti). Quasi non bastasse, la stessa biodiversità vinicola – cosa incredibile! –, risulta estranea all’indagine storica in questione. Un esempio valga per tutti.
L’art. 87 degli Statuti di Lanciano (1592) recita quanto segue: «Dell’uva. Item è posto et ordinato che non sia persona alcuna, tanto cittadino como forastero, tanto di Feria quanto d’altro tempo, ardisca né presuma vendere altra sorte d’Uva che di Moscatello Pergolo, Uva Pane, Uva donnola, Precoccio et Malvasia […]» (cito dall’ed. di L. Cirulli, Gli Statuti antichi della Città di Lanciano, Lanciano, Q-Rivista Abruzzese, 2001, p. 280). Ora, non entro nel merito di questi vitigni su cui tornerò in altra occasione. Ciò che, al contrario, interessa è un altro elemento. Vale a dire l’annotazione che, tra i tanti vitigni esistenti, la città ne ammette solo cinque (Moscatello Pergolo, Uva Pane, Uva donnola, Precoccio, Malvasia), escludendo gli altri. Sull’uva S. Francesco di Vasto ho già parlato in un altro intervento.
Ecco allora l’aspetto rilevante. Lo statuto in questione lega alla sola commercializzazione del prodotto l’indicazione filogenetica del vitigno. Ancora una volta, dunque, il gusto – espressione dell’assaggio – decide la fortuna commerciale e, di conseguenza, la menzione ufficiale dei prodotti.
Ora noi sappiamo che, sulla base del Libro degli affitti (1747) della Camera Baronale di Castiglione alla Pescara (oggi a Casauria) si pagava l’affitto «per il Moscatello alle Coste di San Felice»; non sappiamo, però, se si tratta della stessa specie di quella menzionata a Lanciano. In ogni caso, nell’un caso o nell’altro, va sempre ricordato che il moscatello, insieme con gli altri vini menzionati a fine Cinquecento nell’Abruzzo meridionale, costituiscono – fino a oggi – la biodiversità agricolo-commerciale più antica dei tre Abruzzi. Ma un altro aspetto va considerato (argomento, questo, già affrontato e che qui sintetizzo): la scoperta agronomica dell’Uva del Vasto. Gli «Atti dell’Accademia Gioenia di Scienze Naturali di Catania» nel T. XIII del 1839, pubblicano una memoria dell’abate-agronomo Giovacchino Geremia che, nella sua Appendice al Vertunno Etneo. Confronto tra le uve etnee e quelle di Napoli, scrive quanto segue: «[Uva] Marocca quasi somigliante a quella del Vasto, ma più rotonda e con acino pingue, a differenza della prima che ha bacche assai grosse» (p. 68). A essa va aggiunta, di Michele Tenore, il Catalogo delle piante che si coltivano nel R. Orto Botanico di Napoli (Napoli, Tip. Puzziello, 1845). Grazie a queste testimonianze – la prima, catanese della prima metà del sec. XIX; la seconda, napoletana – apprendiamo come, sul versante tassonomico, l’Orto botanico di Napoli (istituito nel 1807) fondato e diretto da Michele Tenore (cui si rivolge il Marchesani per la sua informazione nella Storia) accolgano questo vitigno utilizzato dal Geremia per classificare l’altro siciliano –. In definitiva, la tipicità locale (di là dal suo valore intrinseco) diventa uno strumento per la conoscenza generalizzata della specie vitis vinifera.
Un ultimo dato sui vini. Sulla base dei protocolli del notaio vastese del Cinquecento Gio.Battista Robio stipulati tra contraenti del traffico interadriatico ho potuto ricostruire una breve tassonomia valutativa sul gusto (tipica di un sommelier), circa l’antico vino commercializzato: «3 dicembre 1547, 6a ind. vino bono chiaro del vasto alla mesura juxta de dicta terra bruschi e non dolci bono et merchatantesco; 19 marzo 1548, 6a ind. / vini boni et clari; 5 aprile 1548, vini boni meri clarique ac boni coloris et melioris saporis; 21 luglio 1548, vini boni clari boni coloris meliorisque saporis; 12 Januarij 1551, vini boni clari et boni coloris ac saporis; 9 martij 1551 vini boni clari bonique coloris et saporis; Die 9 mensis mai 1551 vini boni clari. Rispetto a questi documenti, il sommelier contemporaneo si troverà di fronte a tali risultati (dal più complesso al più semplice) 1. vino bono chiaro del vasto alla mesura juxta de dicta terra bruschi e non dolci bono et merchatantesco; 2. vini boni meri clarique ac boni coloris et melioris saporis; 3. vini boni clari bonique coloris et saporis; 4. boni clari (ancora un’annotazione: per brusco – come indicato al punto 1 – si intende acidulo, aspro di sapore).
Dopo il vino dovrei parlare dell’aceto. Ma è un argomento ancora in corso di indagine. In questa sede accenno solo al documento più antico rinvenuto, un rogito di notar Gio. Battista Robio datato 1° giugno 1550, relativo alla transazione tra i mercanti vastesi Marcantonio e Ippolito Peppo (venditori) con gli omologhi di Bergamo Andrea Pachielli e Battista de Rubeis e Antonio di Correggio (acquirenti) di una partita di salme 311 di vino e 9 di aceto. Aceto di vino bianco, ovviamente, derivato dalla cultivar di uva S. Francesco e, come già sottolineato in precedenza, destinato alla lavorazione alimentare: scapece e carpisella (o calpisella). Gli inediti Statuti di Vasto del XVI secolo registrano la forma scapece sotto la voce gelatina di pesce (da non confondere ovviamente con la cosiddetta colla di pesce). L’identificazione tra i due alimenti è data dal Libro di cucina del XIV secolo pubblicato nel 1863 (F. Zambrini, Il libro della cucina, Bologna, Romagnoli, 1863), laddove gelatina ecc. è definita schibezia. In questa variante è escluso l’olio ma è presente lo zafferano. Nell’altra trasmessa dall’Anonimo del Quattrocento (in L’arte della cucina in Italia, a c. di E. Faccioli, Torino, Einaudi, 1987) accade il contrario: presente l’olio, assente lo zafferano.
Qui la gelatina è definita schibezo (sull’argomento cfr. L. Murolo, Il libro del brodetto, Vasto, il Nuovo, 2007). In entrambi, determinante risulta l’aceto. Ne consegue che la peculiarità del prodotto vastese rispetto ai ricettari medievali citati sta nel fatto che la tradizione locale di scapece/schibezia/schibezo si trova a utilizzare tanto l’olio quanto lo zafferano.
Tra le specialità preparate dallo chef  Francesco Izzi nel 1966, Vincenzo Buonassisi segnalava il singolare piatto delle carpiselle (in dialetto, carpəsèllə al singolare) che, come già osservato in precedenza, ne sintetizzava così gli elementi costitutivi: «pesce fritto poi marinato con aceto, a cui si aggiunge mosto cotto». Una traccia sicuramente importante. Ma che cosa realmente fosse e come si approntasse, anche in quel periodo doveva risultare conosciuto da pochi. Si dovrà attendere la testimonianza di uno degli ultimi paroni di barca novecenteschi. Così, grazie al monumentale lavoro di Francesco Feola sulle barche da pesca e sui pescatori, possiamo disporre dell’antica formula con cui il parone Antonio Pollutri, nato nel 1905, (fig. 9) realizzava in famiglia la misteriosa carpəsèllə:

Si sceglieva il pesce migliore, merluzzi, seppie, calamari, testoline e triglie, tutto di taglia piuttosto grossa. Fritto il pesce, lo si poneva a strati in una zuppiera o in un barilotto apposito, il cognotto, e fra l’uno e l’altro strato si mettevano mandorle lesse, acini di melograno, pinoli, ciliegie, peperoni, capperi, erbe di scoglio, fagiolini e quant’altro si usava conservare in aceto. Infine, bolliti a parte aceto e mosto cotto (vino dolce cotto) con erbe odorose (rosmarino, salvia, alloro) si spargeva il tutto nella zuppiera o nel barilotto, badando che il liquido fosse ben bollente e che penetrasse fino in fondo al vaso, in modo che tutto il pesce ne diventasse saturo.
(F. Feola, Paranze, Lanciano, Carabba, 1997, pp. 175-176).

Significativa l’attenzione di parone Antonio sui pesci di taglia grossa. Torna in mente la grande tela (cm 260 x 340) di Giuseppe Recco (1634-1695) conservata prima nella quadreria d’Avalos in quel di Vasto – probabilmente commissionata da Diego d’Avalos (₊1697), padre di Cesare Michelangelo (entrambi vissuti nella città) –, poi nel Palazzo di Napoli e, infine, nel 1862, donata al Museo di Capodimonte e esposta nella sala 97 con il titolo Natura morta di pesci ed altri animali marini (in I tesori d’Avalos, Napoli, Fiorentino, 1994, pp. 170-171). Probabile celebrazione dell’alimentazione nobiliare in situ, sottolinea la gràššə (voce dialettale che designa l’abbondanza) tanto quantitativa quanto qualitativa del pescato da esibire sul desco [figg. 10-11]. Rappresentazione, questa, che fa il paio con l’altra descrittiva che il memorialista seicentesco Nicola Alfonso Viti tratteggia in alcuni versi della centuria di ottave Il pescator dolente di cui esiste la sola trascrizione ottocentesca (praticamente originale) dovuta allo storico Luigi Marchesani [fig. 12]: «Con le spigole il cefalo conversa/con maggior pace, o pur col granchio il rombo/Né fu mai canto a le telline avversa/L’avida orata, ò al fragolin lo scrombo» (in L. Murolo, op. cit., p. 19).
(Fig. 11: Giuseppe Recco, Natura morta di pesci ed altri animali marini, particolare)
(Fig. 12: Nicola Alfonso Viti, Il pescator dolente, copia ottocentesca [unica esistente], Vasto, Archivio Storico Comunale)

Ma torniamo sui nostri passi. Oltre a pomodori e agrumi – di cui ho già discusso altrove – non posso sottacere la mortella, il Myrtus communis che occupa una connotazione nell’economia agroalimentare d’ancien régime. In fasi abbastanza recenti (nel secondo dopoguerra) ne conosciamo l’impiego solo in funzione alieutica per la pratica della piccola pesca nell’ortonese (nei fatti, la resistenza del mirto ai bassi fondali della costa adriatica occidentale lo rende utilizzabile per la cattura di polpi e sepppie [sull’argomento cfr. C. Boromeo, La mortella e la mentuccia. Storie di pesca e pescatori, Ortona, Menabò, 2012]). Ma proprio in ragione di questa prassi tipica di aree economicamente depresse, riusciamo a capire quanto, a partire da metà Ottocento, di questa pianta si fosse perso l’interesse per il suo antico valore d’uso.

In un luogo della sua Storia (p. 133), Luigi Marchesani scrive: «Taglio delle mortelle. Parlasi di questo affitto in documenti del 1618; ma sì recente non può tal natura d’introito; invero Ladislao permise nel 1391 imporsi dazio sulla estrazione delle mortelle: queste rendevano ducati 12 e grana 25 nel 1812». Cerchiamo di riflettere su questa affermazione.
Prima di ogni altra cosa il dottor fisico non parlava di mortella sensu stricto, ma del vantaggio economico che l’universitas prima, e il comune poi, poteva trarre dalla raccolta di questa pianta con l’affitto della gabella. Come tutti sanno, con questo termine si intende l’imposta indiretta sugli scambi e sul consumo (lo apprendiamo da un protocollo del notaio vastese Alessandro Fantini del 16 maggio 1611 – vol. IX, a. 60, c. 67 – conservato nella sezione di archivio di Stato di Lanciano e sconosciuto al Marchesani). Dal che si può intendere quanto questo arbusto di macchia mediterranea trovasse rilevanza nei mercati dei prodotti al minuto (nel 1611, sulla base di specifiche capitolazioni di privativa e di contratti di lavoro ad hoc, sei uomini erano destinati all’industria di trasformazione).
Ma se Marchesani ne indicava l’uso, non precisava tuttavia a che cosa servisse. Del resto, per lui e per i suoi contemporanei l’impiego era noto. Non c’era alcun motivo di precisarlo (sarebbe stato un po’ come spiegare a che cosa servisse il grano). Ma proprio perché di quella pratica abbandonata è stata persa anche la memoria va da sé che non ne conosciamo più nemmeno l’antica utilizzazione. Neanche la modalità di raccolta (che, in linea di massima, doveva consistere nel taglio dello stelo, in un breve periodo di appassimento in loco di foglie e bacche, in un successivo scuotimento delle stesse per ottenerne il rapido approvvigionamento). Va da sé che proprio perché l’uso del mirto è ben documentato, dobbiamo presupporne l’utilizzo per le lavorazioni di concia (nei cosiddetti carnariles) – ne parlava Beniamino Laccetti nel 1904 (Pro Vasto industriale e porto alla Penna, Vasto, tip. Zaccagnini, 1904, pp. 9-10), di aromatharia (com’è noto, gli aromathari costituivano nei secoli d’ancien régime parte rilevante del ceto dirigente della città), per uso alimentare (prima dell’avvento del pepe), per la produzione di soluzioni liquorose. Per un brindisi, allora, oltre ai petali di rosa (da cui rosolio), andava aggiunta anche la mortella. E che cosa dire, inoltre, di quel cremor tartaro che, estratto dai grappoli d’uva, serviva anche per la produzione di lievito per dolci? Il solito Beniamino Laccetti, nel testo appena citato (pp. 11-12), ricordava che erano tre, a Vasto, le fabbriche di tale prodotto (quelle di Giustino Cianci, Pietro Cianci, Giuseppe Vicoli). Il che vuol dire fissare già nel secondo Ottocento la completezza del ciclo della pasticceria e della distilleria avviato da Gaetano Celano e reinventato da Gaetano De Luca (1890-1953) [fig. 13], soprattutto sul versante liquoristico al latte [fig. 14], nella prima metà del Novecento, mio nonno materno (insieme con il fratello Luigi), che, formatosi da Caflish a Napoli, avrebbe prima costituito un laboratorio a Campobasso (dove è nata mia madre) e poi a Vasto (leggo sempre con tenerezza la pubblicità dei miei avi sull’«Istonio» del 1908, dove, a proposito del liquore al latte Milka, scrivevano: «Guardarsi dalle contraffazioni») [fig. 15]. Già. Guardarsi dalle contraffazioni. Soprattutto oggi. Ecco, dunque, il tema di fondo: il cibo come dispositivo che, su stesso, ha raccordato un insieme di pratiche diverse (turismo, terroir, protoindustria alimentare) fondatrici di una croissance econonomico-culturale autoctona rimasta confinata nel mercato locale e, per questo motivo, destinata all’inevitabile declino.  

[Fig. 13: Gaetano De Luca (1890-1953)]
Ho discusso del prima. L’oggi mi sfugge. Figuriamoci del poi. Per quel po’ che mi è dato di capire, Scapece allo zafferano di Vasto e carpəsèllə (magari con aceto di vino bianco da uva S. Francesco) potrebbero costituire un momento fondamentale per la ricostruzione di una topicità. Potrebbero … . Ma, per quanto si voglia, la semplice coniugazione al condizionale non ha mai prodotto effetti.


Pubblicato da Mercurio Saraceni