Dipartimento di Studi e Ricerche sulla Storia di Vasto

lunedì 8 giugno 2020

UN INCONTRO PER LA NOTTE DEGLI ARCHIVI



 Un incontro per la notte degli archivi

UN INCONTRO PER LA NOTTE DEGLI ARCHIVI


di Luigi Murolo

LIstituto per la Storia di Vasto e la Pro Loco "Città del Vasto" hanno inteso partecipare all’iniziativa nazionale La notte degli Archivi (5-8 giugno 2020) con un piccolo incontro tra studiosi che hanno nell’archivio il proprio punto di riferimento di indagine. Nell’impossibilità di discutere su documenti presenti nella struttura cittadina deputata a ciò (essendo temporaneamente chiusa al pubblico), l’Istituto e la Pro Loco hanno proposto un dibattito (di fronte a una comunissima videocamera ed il tutto organizzato in maniera estemporanea) nel quale i partecipanti hanno raccontato i propri interessi di ricerca. Sono intervenuti Paolo Calvano, Luigi Di Tullio, Antonio Menna, Gianni Oliva e Luigi Murolo.
L’incontro, con distanziamento, disinfettante e senza pubblico per ragioni di sicurezza, si è tenuto in Vasto alle h. 17,00 del 5 giugno 2020 presso la chiesa di S. Filomena. 

A mo’ di introduzione


La foto in copertina è uno scatto da me fatto con il cellulare in un palazzo abbandonato di Vasto. È l’immagine plastica di ciò che comunemente si è inteso per «archivio» e della considerazione che esso ha goduto nella mentalità collettiva (polvere, polvere, polvere … e inutilità). Ma il mutamento di paradigma culturale intervenuto nel Contemporaneo – anche se in larga parte caratterizzato da una visione «liquida» del mondo – ha comunque slargato l’attenzione su storia e memoria, dilatando le pratiche di ricerca e di conoscenza. Una straordinaria definizione en philosophe di contemporaneo la troviamo in minuscolo scritto di Giorgio Agamben che recita testualmente: «Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo» (G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Roma, Nottetempo, 2008, p. 15). Una tra le risposte possibili a quel «fascio di tenebra» sta nell’uso dell’«archivio» la cui funzione è così enunciata dal Consiglio internazionale degli archivi (International Council on Archives):

«L’archivio è l’insieme di documenti di ogni tipo, prodotti e ricevuti da una persona fisica o morale, da un organismo nell’ambito della sua attività, e conservati»
Che cosa significa tutto questo? Che è l’archivio in quanto tale (fornendo la documentazione necessaria di ogni tipo) a consentire il rischiaramento del buio in cui il contemporaneo vive. Manca però in questa formula un sintagma molto importante. Sintagma – aggiungo – che troviamo in ciò che ebbe a scrivere Elio Lodolini (Archivistica. Principi e problemi, Milano, Angeli, 2002, p. 21):

«L’archivio è un complesso di documenti formatisi presso una persona fisica o giuridica o anche di un'associazione di fatto nel corso della esplicazione della sua attività e pertanto legati da un vincolo necessario, i quali, una volta perduto l’interesse per lo svolgimento dell’attività medesima, sono stati selezionati per la conservazione permanente quali beni culturali».

Beni culturali è la parola chiave. Ed è ciò che dobbiamo tenere sempre a mente. Del resto, l’Archivio storico comunale di Vasto conserva la documentazione sulla grande epidemia di tifo petecchiale del 1817 che sarebbe stato bello poter raccontare dal vivo. Un avvenimento che non è stato dimenticato da questo blog che ha pensato di caratterizzarlo proprio come momento inaugurale della sua attività. (l.m.)

Si ringraziano per la partecipazione: 
Paolo Calvano
Luigi Di Tullio 
Antonio Menna
Gianni Oliva

Rivolgiamo un ringraziamento particolare ad Antonio Ottaviano ed all'Associazione Vigili del Fuoco in congedo del vastese per la collaborazione.

Introduzione di Luigi Murolo
(Video 1: Introduzione di Luigi Murolo)

Intervento di Paolo Calvano
(Video 2: Intervento di Paolo Calvano)

Intervento di Luigi Di Tullio
(Video 3: Intervento di Luigi Di Tullio)

Intervento di Antonio Menna
(Video 4: Intervento di Antonio Menna)

Intervento di Gianni Oliva
(Video 5: Intervento di Gianni Oliva)



Canale You Tube Pro Loco "Città del Vasto": 


Pubblicato da Mercurio Saraceni



lunedì 1 giugno 2020

«Ab initio»



 Ab initio

«Ab initio»

Storie di dialetto e di gergo per un «Museo della voce»


di Luigi Murolo


Sintetizzo in questo intervento la linea ermeneutica che ho seguito nell’impostazione del corso su "Fonetica e scrittura del dialetto di Vasto". Vale a dire, il rapporto tra testi superstiti del volgare vastese e dialetto con la comunità dei locutori. Sto pensando di raccogliere le dieci lezioni tenute tra aprile e maggio 2018 in un volumetto tutto centrato su di un’ipotesi di lavoro: la dittongazione quale elemento fondante della trasformazione prosodica (cioè, della quantità sillabica) del latino in dialetto. Ma le dispense fornite ai corsisti esigono ancora verifiche da compiere sui dialettofoni per avere una campionatura fonologica più esauriente. Non foss’altro perché possono contribuire alla costituzione di un «Museo della voce» per la conservazione del patrimonio culturale immateriale nel contesto della prospettiva demoetnoantropologica. Ab initio, dunque.

 Un corso sulla scrittura del dialetto della città non può escludere la ricognizione – seppur a volo d’uccello – delle forme in volgare che precedono la sistematizzazione della lingua locale. La possibilità, cioè, di cogliere i limiti storici in cui – a differenza del volgare – la dittongazione comincia a trasformare la base latina su cui lo stesso dialetto si innesta (vale la pena ribadire il concetto: il dialetto va analizzato rispetto al latino e non al volgare affermatosi nelle aree linguistiche italiane). Sicché – tanto per fare qualche esempio –  individuare il periodo in cui verosimilmente il latino - ē - passa a dialettale - ai - (ex.: cēra[m] > čiàirə) oppure - ō - > - au - (sōle[m] > sáulə) o - ŏ- > - eu - (jŏcu [m] > jéuchə) e ancora - ū - > - îu - (lūce[m] > lîučə)  significa, di fatto, cogliere il momento in cui, dal punto di vista fonologico, l’istanza locale comincia a conquistare il proprio idioma, iniziandosi a differenziare dal volgare – che era la lingua in uso nelle cancellerie pubbliche –. Significa, cioè, avvicinare alla comprensione della storicità (vale a dire, a una forma di comunicazione temporalmente definita) di ciò che ha caratterizzato la genesi di quella specifica lingua di communitas. Da questa angolazione, la documentazione storica sul volgare di Vasto anteriore alla comparsa di arcaismi dialettali risulta affidata a un eterogeneo manipolo di testi il più antico dei quali data il 14651. In ragione della loro relativa quantità, la disomogenea natura delle fonti (amministrative, epigrafiche, notarili, cronachistiche), quasi tutte comprese tra i secc. XV e XVI, non consente di seguire in dettaglio l’evoluzione fonetica di quella che, nel primo torno dell’Ottocento, Gabriele Rossetti, in un incontro a Londra con il pittore Gabriele Smargiassi, aveva definito significativamente «la lénga huaśtaréulə». Le stesse testimonianze, inoltre, non sempre ci pervengono nella stesura iniziale (gli Statuti municipali, ad esempio, ci sono noti attraverso una copia privata redatta per uso personale da notar Giovan Battista Robio a metà sec. XVI). Sicché, l’obiettiva difficoltà di raccordare globalmente il registro linguistico all’uso originario delle sue diverse modalità paleografiche, non permette di stabilire con chiarezza il contesto culturale che governa la produzione sociale dell’antico documento vastese in volgare rispetto al dialetto. Ma di là da questo limite generale va quanto meno riconosciuta la possibilità di rintracciare una testimonianza epigrafica del 1501 (ancora oggi visibile su di un muro esterno di vico S. Agostino, dietro la cattedrale di S. Giuseppe) in cui si profila l’esemplare raccordo tra forme della scrittura e forme della lingua. La breve iscrizione – già segnalata dal Marchesani2 e qui emendata sulla base di una nuova autopsia paleografica – recita testualmente:

Questo e lu casale / de Santo Agus[t]ino // A. D. 1501 priore F. Bartholomeo et Ni/colao Sottile et Ag/de Conioso procu/ratore S. Agustini [fig. 1]
Il lapicida, per la verità, ricorre a due caratteri. Così, se per un verso utilizza la capitale epigrafica per la forma strettamente in volgare – Questo e lu casale / de Santo Agus[t]ino –, per la parte restante trasceglie la gotica. Certo, la struttura in volgare del primo blocco è chiaramente espresso da quell’esplicito lu aferetico di illum. Ma nel confermare questa natura linguistica, testimonia, con l’uso congiunto del lemma casale, l’arcaico funzionamento di un fenomeno fonetico anteriore alla metafonesi3, nel quale - u finale non modifica la vocale successiva e dove, al contrario, in fase dialettale, avrebbe richiesto la dittongazione della sillaba protonica con - u - semiconsonantico, dando corpo al nesso labiovelare - ua - e alla palatalizzazione di /a/ tonica: lu casale > lu quasálə. Nello stesso documento, inoltre, si registra l’assenza della dittongazione di – ō – in sillaba aperta (– il passaggio – ō –› – àu –) nella parola «procuratore» (in dialetto, prucuratàurə).
Nel nome del santo, inoltre, registriamo l’avvenuta trasformazione di au- > a- della sillaba protonica su cui, in fase dialettale, si svilupperà, in seguito all’aferesi di a-, la spirantizzazione di - g – in posizione intervocalica: – g – > – h –. Da assumere in sede locale come la più antica attestazione conosciuta di questo processo, il vecchio Agustino dell’iscrizione (che continuerà a sopravvivere in forma latinizzata nei coevi capp. I, 2 e IV, 65 dei citati Statuti) restituisce, sul piano diacronico, l’esemplificazione di un mutamento linguistico in atto, comunque anteriore al passaggio, in sillaba aperta, di – ī – latino (Augustīnu[m]) in – ëi –: – ī – > - ëi -. Vale a dire, anteriore a ciò che in seguito sarebbe divenuto Augustīnu[m] > ‘Huštuëinə.
Proprio a partire dalla spirantizzazione di – g – > – h – va considerata la pronunzia dialettale di Vasto (preciso meglio: lu Huàśtə non deriva da il Vasto, ma da lo Guasto, per cui va indicata la spirantizzazione di – g – intervocalica in situazione metafonetica). È noto che da sempre è attestato il nome accompagnato dall’articolo. L’esempio più interessante proviene da Buccio di Ranallo (1294 ca. - 1363) che, nella sua Cronaca aquilana rimata, recita testualmente (stanza MXXV):

Et po gero allo Guasto; per forza lo pilliaro,
Occisero multi homini et tucto lo robaro4.

Lo Guasto, dunque. La – g – intervocalica diventa – v – > con l’articolo – il – (a. 1465: «homini del vasto aymone»5) e si spirantizza in fricativa in posizione intervocalica (la fricativa – ĵ – nell’alfabetico fonetico che grosso modo può essere resa con – h – in una scrittura semplificata). Scrive Gerhard Rohlfs: «Nell’Italia meridionale, particolarmente in posizione intervocalica, – g – viene pronunciata con una occlusione molto tenue, e anzi, in talune località, l’occlusione è talmente debole che si perde completamente, dando in tal caso come risultato la fricativa – ĵ –. Questo grado fonetico può essere considerato caratteristico […] dell’Abruzzo»6. Stando così le cose, la trasformazione fonetica di lo Guasto si presenta nel seguente modo: lu ĵuåśtə o il che è lo stesso lu huàśtə. Ma che cosa significa tutto questo? Che, malgrado l’analisi fonologica, si continuerà a scrivere allo stesso modo: lu Uaśtə, e non lu Huàśtə. Pazienza!
Certo, la conquista nelle scritture pubbliche e private del volgare (il dialetto comincerà a comparire letterariamente solo nell’Ottocento), con la possibilità di cogliere la facies intermedia del rapporto latino volgare/dialetto si disegna come il risultato della profonda modificazione dell’outillage mentale che investe la città in periodo aragonese (a partire dalla formulazione in volgare dei capitula cittadini7 sancita dalla cancelleria regia). E qui vale la pena sottolineare l’originario træ (tre) in volgare che sarebbe diventato tra’ in dialetto8 (e metafonizzato lu trua’). Gli Statuti registrano ancora il volgare mogelle (cefali) [fig. 2], derivato da un lt. mūgĭle(m), anteriormente alla conversione di – ge –› – – (mogellemijèllə)9. Così come annotano la presenza del volgare pelusi (favolli) e non del dialettale pilîusə10 (assenza, cioè, del cambiamento – ū –› – îu –). Lo stesso documento esibisce il lemma mondecza (capp. IV, 6 e 14 [figg. 3, 4]). Originato da un lt. immunditĭa(m) passa per aferesi al volgare mondecza e per assimilazione nd – > – nn – e – cz – > – zz diventa in dialetto mənnàttsə (mənnàzzə). La voce plurale puzzi (cap. IV, 10 [fig. 5]) appare già quasi dialettalizzata, salvo la metafonizzazione di – i – sulla – u – successiva. Derivata da un lt. *putĕu(m) >, si trasforma nel volgare li puzzi per giungere al dialettale li pįttsə (vale a dire, li pîzzə).

(Fig. 2Statuti municipali di Vasto, c. 34 a. Cap. 3, VI: «Del peso del 
pescio et del vendere de ip[s]o». È sottolineato il lemma mogelle
Vasto, Archivio Storico Comunale)
(Fig. 3Statuti municipali di Vasto, c. 46 a. Cap. 4,
VI: «De no[n] buctar[e] le mondecze et brectitudine in le strade et fossi de 

la t[er]ra». È sottolineato il lemma mondecze
Vasto, Archivio Storico Comunale)
(Fig. 4Statuti municipali di Vasto, c. 50 a. Cap. 4, XIIII: «De non 
uctare la mondecza al pale». È sottolineato il lemma mondecza due volte. Vasto, Archivio Storico Comunale)
(Fig. 5Statuti municipali di Vasto, c. 48 a. Cap. 4, XIIII: «De no[n] far[e] 
bructur[e] in le funtane et puczi». 
È sottolineato il lemma puczi
Vasto, Archivio Storico Comunale)
Quasi non bastasse, non può essere sottaciuto come lo stesso Gustav Rolin, in Die Mundart von Vasto in den Abruzzen, ricordi un cippuni nel volgare degli Statuti anteriore all’avvento della dittongazione11. Ma lo studioso non legge l’originale; cita dal dizionario di Luigi Anelli.
Quest’ultimo, va detto, si muove in modo del tutto opposto a Gennaro Finamore, autore nel 1880 del Vocabolario dell’uso abruzzese (II ed. 1893). Il ricercatore vastese, infatti, raccoglie i termini sulla base delle testimonianze letterarie disponibili, sulla gergalità della parola o sulla sua specificità (e qui non può essere sottaciuta la sua scelta, significativamente prossima a quanto recita il titolo di quel Vocabolario delle parole del dialetto napoletano che più si scostano dal dialetto toscano compilato dalla napoletana Accademia dei Filopatridi [Napoli, Porcelli, 1789]. Un repertorio lessicale poco conosciuto, ma di grande importanza per cogliere l’attestazione dei lemmi locali nel dialetto napoletano con la traslazione degli stessi dalla Capitale in periferia). Come si può ben intendere, una straordinaria operazione selettiva quella di Anelli (qualitativa, dunque, non quantitativa giocata sulla diversità dal fiorentino) tendente a sottolineare i caratteri particolari e originali del thesaurus linguistico. Fin dalla sua genesi, l’opera è concepita in una prospettiva “autoriale” (o, se si vuole, di «dialetto illustre») e non d’uso (com’è, appunto, congegnato il dizionario di Finamore). Da qui, la constatazione che quello di Anelli è un unicum programmatico di lemmi che, proprio nell’immediatezza del suo costituirsi, mira, con la scelta dello stesso lessico, alla costruzione di uno spazio letterario della lénga huaśtaréulə.
E del sermo parlato dai locutori della città nella fase del volgare? Sarebbe stato sicuramente accresciuta dalle relazioni commerciali interadriatiche, ma soprattutto favorito dalla predicazione dei frati zoccolanti di S. Onofrio che insiste sul ricorso alla lingua della quotidianità nella pietas ecclesiastica12. A dirla in breve, l’acquisizione del volgare nelle scripturae ufficiali suggerisce la possibilità di rileggere, in una prospettiva certamente più articolata, la stessa storia delle sensibilità che, di per sé, già configura un modo innovativo di fare storia e, perché no, didattica della scrittura fonetica dialettale.
A questo punto vale la pena introdurre un nuovo elemento linguistico su cui torna utile spendere qualche parola. Si tratta di un registro lessicale speciale, i cui lemmi inseguo da molti anni ritrovandone, però, un minuscolo gruzzolo. Tra questi ne ho selezionati alcuni per costruire un ipotetico dialogo tra A e B su cui avviare quanto meno una riflessione.

A. Bbərżuá’, lu bbuèrrə d’icrə m’attarunnuètə ddu’ tuarëjjə p’ sbruffujé’. T’ mmì’ li sbriffijatîrə.
B. Embé Addë’? E’ ‘nu puachiù’ pi ‘ttà. Miggiuhuàne štá’ aléfəcə cicòria càndə.  Ajjə rušcujuétə a la basécchə schininż’a dóppə lu bbuattucchiuàllə nghə li činìllə arriffaldétə e nghi li čiarabbutta štaccunuétə. È ‘na vocia dicèndə. E ‘n m’ attarunnuètə ‘nu sguójje. Śtingh’a gne’ lu sbuolatró.
A. Cullî è‘nu bbuèrrə də hóffiə, bbərżuá’! Ni’ n’d’addarássé’ cchî a àssə. A ‘ssu quaminapiänə j’ attarunnuèmə nî la canàusə. Nî sémə li ‘mbardëschə.13

Che cosa stanno dicendo tra di loro i due locutori? Di quale lingua si avvalgono? Siamo sicuri che sia lénga huaśtaréulə? Per quanto possa apparire bizzarro, sì. È lénga huaśtaréulə. Con una precisazione, però. Che ne costituisce un segmento. In effetti si tratta di un gergo. Di un gergo parlato dai muratori. Non tanto per non farsi capire, quanto perché risultato dell’adattamento locale di una lingua del nord Italia rimasta attiva fino a Novecento inoltrato. In buona sostanza mi riferisco a una comunità di mercanti e di maestranze artigiane dell’area lombardo-ticinese attiva nel corso del sec. XVI e che qui si stanzia definitivamente. La parlata alloglotta di cui è portatrice si innesta sulla fonetica del luogo e dà forma a una neo-lingua che investe una comunità di migranti (si provi a immaginare: migranti padani nell’Abruzzo meridionale nel Cinquecento quando gli Avalos erano governatori di Milano!) che, seppur modificata dal sostrato (in primo luogo dal fenomeno fonologico della dittongazione), mantiene il suo lessico come tratto distintivo del suo essere vastese. Il gergo è originato da questo meccanismo. I ghei milanesi – simili a i schei veneti (la moneta) – diventano isghə o sgujjə nella parlatîurə del luogo. Questa nuova lingua sarà chiamata in dialetto lu ‘mbuardéschə – il lombardesco –. A dimostrazione di un fatto: la lingua è riuscita a permanere anche per quattro secoli nel contesto in cui si sono stanzializzati. Ma cosa importante per tale ambito è la conservazione di un protocollo notarile di metà Cinquecento che testimonia l’attiva presenza del nucleo lombardo-ticinese (appartenente al Ducato di Milano) che opera a Vasto. E’ un atto rogato da notar Gio.Battista Robio (13 giugno 1551) che legalizza la nomina del Viceconsole milanese con competenze dal Trigno al Sangro che sancisce la rappresentanza giuridica di quella comunità nei confronti dell’universitas e delle autorità viceregnali. Nei fatti, una testimonianza che suggella la nomina a tale incarico del magnifico Marco Antonio Peppo di fronte ai delegati di questo gruppo, congregati in assemblea nel chiostro di S. Agostino (chiesa in cui era presente la cosiddetta Cappella dei Milanesi in cui veniva officiata la liturgia secondo il rito ambrosiano). Oltre ai nomi, lo scartafaccio segnala la provenienza dei singoli partecipanti, profilando una sorta di antropologia geografica dei partecipanti. Questo il testo:

Die vero XIII mensis Junij [1551]
«In terra Vasti aimonis et in Claustro vener.lis conventus S.ti augustini ordinis heremitarum dicte terre in eius publica platea» - congregatis in dicto loco infrascripti nationis mediolanensium et subditorum Ill.mi Ducalis Dominij mediolani pro ut dixerunt, in dicta terra vasti commorantibus Cameram facientibus ac facere volentibus conviserfuerunt videlicet magr. Jacobus chiocchinus, Hippolitus antonij schivardi, Hieronimus de rona, Martinus dominici de belinzona, joannes thomas m.i franc. mediolanensis franciscus Schiana, Simon Joannis de belinzona, Antonius bartholomei, Jac. joannis de pedron, Antonius joannis de belinzona, Antonius dominici del possino de belinzona, Laurentius gener Sbardelle, Antonius mag.ri pauli novarensis, Antonius donati de belinzona, joannes alias vulpes de palanzo, Magr. Dominicus gener capitis grossi, Dominicus beltrami de valle lucha magr. berardinus antonij de varese Petrus Joannis de belinzona, mag. Donatus Joannis de belinzona, Dominicus de palanza et Petrus ber.ni del lago de Como, coram quibus sic per preconem et vocem nuncij congregatis et radunatis de voluntate tamen ordine et mandato Mag.ci D.ñi Pauli Malcazati mediolanensis generalis consulis in regno neapolis Ill.mi ducatis Dominij mediolani et subditorum ipsius presenti et assistentis per eundem Mag.cum Dominum Paulum consulem generalem ut supra coram nobis et judice Not. et testibus predictis dictum et positum fuit qual mente havendo se trova esso S.or Consule esponente in dicta terra del vasto il loco del Viceconsule de dicta natione vacare per la morte del quondam ms. Carlo di Jo. batta de Jac. de bapta de dicta terra premortuo volendo sua S.ria in dicta terra di novo viceconsule provedere have electo nominato et ordinato per vice consule de dicta natione in dicta terra et dal fiume trigno fino al fiume del Sangro in loco suo et per suo substituto lo Mag.co ms. Marco ant. peppo de dicta terra licet absente como presente ad beneplacito pero de esso S.or consule generale. Al quale li prefati Subditi de essa natione debbiano dare plena obedientia como la persona sua communicandoli vices et voces suas et le debbiano dare li soliti gagij lucri et emolumenti et cussi have exortato monito et astrecto li predetti congregati ut supra lo prefato ms. Marco ant. electo vice consule ut supra vogliano per lor vice consule acceptare tenere e reputare.14
 I partecipanti ovviamente accettano il nuovo viceconsole così come era stato fatto per il precedente. Pongono con questo atto le basi per diventare cittadini del Vasto e sudditi del viceregno di Napoli. Ci troviamo di fronte all’uso delle Prammatiche di Regno e Viceregno che, nel regolarizzare la vita sociale, legalizzano l’identità commerciale, culturale e linguistica dei migranti nel contesto della comunità accogliente. Lu ‘mbuardéschə, dunque, è stata l’unica traccia superstite di quella remota ridislocazione territoriale degli abitanti degli antichi stati italiani (una traccia che lo stesso storico Luigi Marchesani ha in qualche modo cercato di documentare pur in assenza delle necessarie fonti archivistiche e delle cognizioni linguistiche in quel periodo ancora in fieri)15. Fatta eccezione per qualche termine riscontrabile nella memoria di pochi testimoni ancora in vita, la lingua può definirsi estinta. Una vicenda in qualche modo simile a quella del dalmatico settentrionale (il cosiddetto veglioto) in cui la parlata romanza si sarebbe trovata a scomparire per sempre con la morte nel 1898 di Tuone Udaina, il suo ultimo locutore. Con una differenza: che a Vasto, purtroppo, non conosciamo il nome dell' Ultimo.
E qui per non concludere. Il dialetto corrente come lingua romanza non si insegna: si parla fin quando ci sarà qualcuno a parlarlo dalla nascita. E fino a quel momento sarà lingua della verna. Di conseguenza, non esistono maestri o locutori particolari. Protagonisti e testimoni sono tutti coloro che in quella lingua ragionano e comunicano (diventandone in questo modo testimoni). Il declino della lingua storicamente parlata si comincia a avvertire quando la dittongazione lenisce fino alla sua scomparsa, riconnettendo la sua fonologia a quella ufficiale. In tal caso, quella locutio non avrà più la sua funzione di struttura fondante la comunicazione verbale della comunità. Nella migliore delle ipotesi, può diventare locutio secundaria – non funzionale a un uso sociale – ma connotativa di gruppi che, per scelta, intendono utilizzarla.  Ma si tratta di un esercizio culturale, letterario – di per sé importante sul versante della ricerca espressiva (diatopica e diastratica, sul piano sociolinguistico) – di certo, però, non coincidente con la socialità di una lingua come il dialetto, che prima di essere colta è soprattutto d’uso. Una cosa è certa. Nella prospettiva diacronica, la lénga huaśtaréulə è tale in ragione della dittongazione – con le procedure metafonetiche di – i – e – u – protoniche sulla vocale tonica successiva – che ne ha costituito il suo tratto fonologico distintivo. Una locutio senza tale caratteristica la si può chiamare come si vuole. Non si sbaglia. Da non confondere però con ciò che chiamo lénga huaśtaréulə sulla base di quanto definito in precedenza. In buona sostanza è proprio la lingua che va considerata come patrimonio culturale immateriale da documentare e conservare in tutte le sue manifestazioni (non solo foniche, ma anche nelle esperienze fonico/rappresentative). Dove? In un possibile «Museo della voce» da caratterizzare sul versante dei beni culturali demoetno-antropologici (che non mi dispiacerebbe realizzare nell’ambito dell’Istituto per la Storia di Vasto).
Una cosa voglio ricordare a me stesso. Il dialetto, essendo anche lingua della verna, non si insegna, si apprende, con tutte le sue nuances, nella casa in cui si nasce. Possono essere spiegate le forme storiche o quelle letterarie. Al più, del dialetto si può insegnare la scrittura – o meglio, la trascrizione fonetica e fonematica dei suoni (questa sì, una tecnica trasmissibile come tante altre) –. Che cosa significa tutto questo? Che il dialetto, in buona sostanza, si studia (in modo esclusivo come purtroppo capita oggi per lu ‘mbuardéschə). Qualche volta si ama anche se non lo si è appreso nell’infanzia o in gioventù. Quando i due piani coincidono vuol dire che ciò che un tempo era definito sermo humilis può ancora trovare in se stesso la forza necessaria per continuare a raccontare la storia della comunità che lo ha reso possibile.  

Note

1 Cfr. 1465-1550. Capitoli del Vasto Aymone in N. F. Faraglia, Il Comune nell’Italia meridionale, Napoli, Tip. Regia Università, 1883, pp. 292-310.
2 L. Marchesani, Storia di Vasto, Napoli, Torchi dell’Osservatore medico, 1838 [ma 1841], rist. a c. di L. Murolo, Vasto, Amministrazione Comunale, 1982, iscr. 132, p. XIX. Lo storico, in luogo di Sottile, legge Socale.
3 Con metafonesi si intende quel fenomeno prosodico che consiste nella modificazione del suono di una parola per l’influenza della vocale postonica finale sulla vocale tonica
4 Buccio di Ranallo, Cronaca aquilana rimata, a c. di V. Bartholomaeis, Roma, Fonti per la Storia d’Italia, 1907, MXXV, 1-2, p. 236. Il corsivo è mio.
5 F. F. Faraglia, op. cit., p. 293.
6 G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, vol. I, Torino, Einaudi, 1966, p. 299.
7 I capitoli del Vasto Aymone 1465-1499, compresi i rescritti aragonesi, sono stati pubblicati come appendice in C. Del Greco, Origine feudale delle Terre Redditizie al comune di Vasto e le sue conseguenze, Napoli, s.i.t., 1859, pp. 1-36. Gli stessi, esclusi i rescritti, ma con trascrizione più rigorosa (e fino al 1550), si trovano in N. F. Faraglia, op. cit. Sono, tra l’altro, riportati nel lavoro settecentesco (inedito fino al 2005) di G. de Benedictis, Memorie Istoriche del Vasto, a c. di C. Marchesani, Vasto, il Torcoliere, 2005, pp. 187-204. Un regesto dei capitoli, inoltre, è stato curato da L. Marchesani, op. cit., pp. 99-102.
8 Ad esempio, cfr. Archivio Comunale di Vasto, Statuti Municipali, ms., cap. 3, VI.
9 Ivi.
10 Ivi.
11 G. Rolin, Die Mundart von Vasto in den Abruzzen, Prag 1908, p. 6. Scrive l’autore: «Anmerkung. Die Diphthongierung reicht nicht über das seczehnte Jahrhundert zurück; die ältesten vastesischen Denkmäler  weisen nur einfache Vokale auf:  1503 ceppone Sing – cippuni Plur., heute cippâune – cippìune». Il testo è conservato presso l’Università di Bologna, Istituto di Glottologia, Donazione Goidanich.
12 Sull’argomento cfr. L. Murolo, Le muse fra i negozi. Letteratura e cultura in un centro dell’Italia meridionale, Roma, Bulzoni, 1992, pp. 119-128.
13 Traduzione: a. Ehi, amico. Quel ricco signore mi ha una mancia di due tarì per fumare. Guarda i sigari. b. Ebbene Diego? Per te è una pacchia. Sono senza un soldo. Ho lavorato a quella casa cadente fin dopo il Mezzogiorno con gli occhi arrossati e con le scarpe ormai prive di tacco. Lo dicono tutti. Quel tale non mi ha dato nemmeno un denaro. Sto inchiodato come il buon ladrone. a. Amico, quello è un pessimo soggetto. Non ti avvicinare più a lui. Questo pidocchio lo faremo perseguire dalla finanza. Ricordati, noi siamo i lombardeschi!
14 in Regesti Marciani. Fondi del notariato e del decurionato da area frentana (secc. XVI-XIX), vol. 7/III, a c. di C. Marciani, L’Aquila, Japadre, 1989, pp. 252-253.
15 Cfr. L. Marchesani, op. cit., p.18.



Pubblicato da Mercurio Saraceni