Dipartimento di Studi e Ricerche sulla Storia di Vasto

lunedì 17 agosto 2020

DA «SCOLACINŻӘ!» A «SENŻECCÒLLӘ!»

 DA «SCOLACINŻӘ!» A «SENŻECCÒLLӘ!»

di Luigi Murolo

 Alcuni conoscenti mi hanno chiesto il significato di due locuzioni dell’antico dialetto vastese. Mi auguro di poter soddisfare la loro domanda.

«Scolaćinżә!» era la misteriosa parola con cui i ragazzi della mia età interrompevano momentaneamente le regole del gioco in attesa di un chiarimento, di una spiegazione, di una richiesta. La si pronunciava ogni qualvolta se ne presentasse l’esigenza. Nel momento in cui ciò accadeva, iniziava d’emblée quella singolare sospensione del tempo che ripristinava la regolarità violata.

Davvero straordinario il potere di quella dichiarazione. Una dichiarazione che trova riscontro in una voce del dialetto barese: «filecènżә». E cioè entrambe le varianti derivanti da uno stipite comune: la locuzione latina sit cum licentia. Vale a dire: «sia fatto con licenza». Da questo punto di vista, il valore imperativo della concessione aveva un solo scopo: garantire l’interruzione nel contesto della conformità alla normativa del gioco.

E chi poteva immaginare da ragazzi che, dietro la maschera di quello sgangherato Scolaćinżә!, si potesse nascondere il richiamo al particolare ordine dato da Giosuè al sole e alla luna nella battaglia contro gli Amorrei: «Sole, fermati su Gabaon! / e tu, luna, sulla valle di Aialon! / Il sole si fermò, / la luna restò immobile, […]» (Gs, 10, 12-14). Immaginiamo l’ordine preceduto dalla formula sit cum licentia Dei! “Sia fatto con il permesso di Dio!”. Ma, soprattutto, immaginiamolo con la locuzione in dialetto vastese che recita: «Scolaćinżә! Sole, fermati su Gabaon! / e tu, luna, sulla valle di Aialon! / Il sole si fermò, / la luna restò immobile, […]». Possiamo capire quale e quanta potenza contenesse in sé l’evocazione di quella parola!

Giocare con la sospensione del tempo e non accorgersene: questo lo splendore dell’infanzia! Spezzare il continuum della storia e chiedere: ma di che cosa stai parlando? Da questo punto di vista, è ancora più dolce la memoria dell’antica fanciullezza. L’ontologia del gioco ha consentito di percorrere una strada su cui è posto un cartello con un divieto – che solo i ragazzi degli anni Cinquanta possono capire – e che in dialetto imperativamente recita: «Sənżəccòllə!». Il che vuol dire: «non rimuovere l’ostacolo!».

Vi immaginate sottolineare agli amministratori della città o alle torme sciamanti di cavallette che invadono le aree di riserva come Punta d’Erce la sonorità del divieto che recita: «Sənżəccòllə!» – cioè, «non rimuovere l’ostacolo» –. Si riceverebbe una sonora risata! Figuriamoci con la delicata locuzione che recita: «Scolaćinżә!».  

Chi, oggi, di quei vecchi ragazzi come me, si divertirebbe a giocare con la morte e dirle: Scolaćinżә? Dovremmo essere come l’Antonius Block del Settimo sigillo che afferma: «Questa è la mia mano, posso muoverla, e in essa pulsa il mio sangue. Il sole compie ancora il suo alto arco nel cielo. E io… io, Antonius Block, gioco a scacchi con la Morte». Ma noi non avevamo questa opportunità. Avevamo di fronte la sola locuzione che recita: Sənżəccòllə! Per i contemporanei devastatori degli ambienti e che ignorano il significato delle parole potrebbe valere l’altra frase idiomatica locale che recita: «Fàttə sàjjə da lu quänə di Ćillàcchiə». Intelligenti pauca.

Sənżəccòllə? D’accordo. Ma possibilmente con un refrain. Quale? Quello di una remota canzone d’autore che ricorda: «E cade la pioggia e cambia ogni cosa, / la morte e la vita non cambiano mai / l’estate è passata l’inverno è alle porte / la morte e la vita rimangono uguali».



Pubblicato da

Mercurio Saraceni

lunedì 8 giugno 2020

UN INCONTRO PER LA NOTTE DEGLI ARCHIVI



 Un incontro per la notte degli archivi

UN INCONTRO PER LA NOTTE DEGLI ARCHIVI


di Luigi Murolo

LIstituto per la Storia di Vasto e la Pro Loco "Città del Vasto" hanno inteso partecipare all’iniziativa nazionale La notte degli Archivi (5-8 giugno 2020) con un piccolo incontro tra studiosi che hanno nell’archivio il proprio punto di riferimento di indagine. Nell’impossibilità di discutere su documenti presenti nella struttura cittadina deputata a ciò (essendo temporaneamente chiusa al pubblico), l’Istituto e la Pro Loco hanno proposto un dibattito (di fronte a una comunissima videocamera ed il tutto organizzato in maniera estemporanea) nel quale i partecipanti hanno raccontato i propri interessi di ricerca. Sono intervenuti Paolo Calvano, Luigi Di Tullio, Antonio Menna, Gianni Oliva e Luigi Murolo.
L’incontro, con distanziamento, disinfettante e senza pubblico per ragioni di sicurezza, si è tenuto in Vasto alle h. 17,00 del 5 giugno 2020 presso la chiesa di S. Filomena. 

A mo’ di introduzione


La foto in copertina è uno scatto da me fatto con il cellulare in un palazzo abbandonato di Vasto. È l’immagine plastica di ciò che comunemente si è inteso per «archivio» e della considerazione che esso ha goduto nella mentalità collettiva (polvere, polvere, polvere … e inutilità). Ma il mutamento di paradigma culturale intervenuto nel Contemporaneo – anche se in larga parte caratterizzato da una visione «liquida» del mondo – ha comunque slargato l’attenzione su storia e memoria, dilatando le pratiche di ricerca e di conoscenza. Una straordinaria definizione en philosophe di contemporaneo la troviamo in minuscolo scritto di Giorgio Agamben che recita testualmente: «Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo» (G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Roma, Nottetempo, 2008, p. 15). Una tra le risposte possibili a quel «fascio di tenebra» sta nell’uso dell’«archivio» la cui funzione è così enunciata dal Consiglio internazionale degli archivi (International Council on Archives):

«L’archivio è l’insieme di documenti di ogni tipo, prodotti e ricevuti da una persona fisica o morale, da un organismo nell’ambito della sua attività, e conservati»
Che cosa significa tutto questo? Che è l’archivio in quanto tale (fornendo la documentazione necessaria di ogni tipo) a consentire il rischiaramento del buio in cui il contemporaneo vive. Manca però in questa formula un sintagma molto importante. Sintagma – aggiungo – che troviamo in ciò che ebbe a scrivere Elio Lodolini (Archivistica. Principi e problemi, Milano, Angeli, 2002, p. 21):

«L’archivio è un complesso di documenti formatisi presso una persona fisica o giuridica o anche di un'associazione di fatto nel corso della esplicazione della sua attività e pertanto legati da un vincolo necessario, i quali, una volta perduto l’interesse per lo svolgimento dell’attività medesima, sono stati selezionati per la conservazione permanente quali beni culturali».

Beni culturali è la parola chiave. Ed è ciò che dobbiamo tenere sempre a mente. Del resto, l’Archivio storico comunale di Vasto conserva la documentazione sulla grande epidemia di tifo petecchiale del 1817 che sarebbe stato bello poter raccontare dal vivo. Un avvenimento che non è stato dimenticato da questo blog che ha pensato di caratterizzarlo proprio come momento inaugurale della sua attività. (l.m.)

Si ringraziano per la partecipazione: 
Paolo Calvano
Luigi Di Tullio 
Antonio Menna
Gianni Oliva

Rivolgiamo un ringraziamento particolare ad Antonio Ottaviano ed all'Associazione Vigili del Fuoco in congedo del vastese per la collaborazione.

Introduzione di Luigi Murolo
(Video 1: Introduzione di Luigi Murolo)

Intervento di Paolo Calvano
(Video 2: Intervento di Paolo Calvano)

Intervento di Luigi Di Tullio
(Video 3: Intervento di Luigi Di Tullio)

Intervento di Antonio Menna
(Video 4: Intervento di Antonio Menna)

Intervento di Gianni Oliva
(Video 5: Intervento di Gianni Oliva)



Canale You Tube Pro Loco "Città del Vasto": 


Pubblicato da Mercurio Saraceni



lunedì 1 giugno 2020

«Ab initio»



 Ab initio

«Ab initio»

Storie di dialetto e di gergo per un «Museo della voce»


di Luigi Murolo


Sintetizzo in questo intervento la linea ermeneutica che ho seguito nell’impostazione del corso su "Fonetica e scrittura del dialetto di Vasto". Vale a dire, il rapporto tra testi superstiti del volgare vastese e dialetto con la comunità dei locutori. Sto pensando di raccogliere le dieci lezioni tenute tra aprile e maggio 2018 in un volumetto tutto centrato su di un’ipotesi di lavoro: la dittongazione quale elemento fondante della trasformazione prosodica (cioè, della quantità sillabica) del latino in dialetto. Ma le dispense fornite ai corsisti esigono ancora verifiche da compiere sui dialettofoni per avere una campionatura fonologica più esauriente. Non foss’altro perché possono contribuire alla costituzione di un «Museo della voce» per la conservazione del patrimonio culturale immateriale nel contesto della prospettiva demoetnoantropologica. Ab initio, dunque.

 Un corso sulla scrittura del dialetto della città non può escludere la ricognizione – seppur a volo d’uccello – delle forme in volgare che precedono la sistematizzazione della lingua locale. La possibilità, cioè, di cogliere i limiti storici in cui – a differenza del volgare – la dittongazione comincia a trasformare la base latina su cui lo stesso dialetto si innesta (vale la pena ribadire il concetto: il dialetto va analizzato rispetto al latino e non al volgare affermatosi nelle aree linguistiche italiane). Sicché – tanto per fare qualche esempio –  individuare il periodo in cui verosimilmente il latino - ē - passa a dialettale - ai - (ex.: cēra[m] > čiàirə) oppure - ō - > - au - (sōle[m] > sáulə) o - ŏ- > - eu - (jŏcu [m] > jéuchə) e ancora - ū - > - îu - (lūce[m] > lîučə)  significa, di fatto, cogliere il momento in cui, dal punto di vista fonologico, l’istanza locale comincia a conquistare il proprio idioma, iniziandosi a differenziare dal volgare – che era la lingua in uso nelle cancellerie pubbliche –. Significa, cioè, avvicinare alla comprensione della storicità (vale a dire, a una forma di comunicazione temporalmente definita) di ciò che ha caratterizzato la genesi di quella specifica lingua di communitas. Da questa angolazione, la documentazione storica sul volgare di Vasto anteriore alla comparsa di arcaismi dialettali risulta affidata a un eterogeneo manipolo di testi il più antico dei quali data il 14651. In ragione della loro relativa quantità, la disomogenea natura delle fonti (amministrative, epigrafiche, notarili, cronachistiche), quasi tutte comprese tra i secc. XV e XVI, non consente di seguire in dettaglio l’evoluzione fonetica di quella che, nel primo torno dell’Ottocento, Gabriele Rossetti, in un incontro a Londra con il pittore Gabriele Smargiassi, aveva definito significativamente «la lénga huaśtaréulə». Le stesse testimonianze, inoltre, non sempre ci pervengono nella stesura iniziale (gli Statuti municipali, ad esempio, ci sono noti attraverso una copia privata redatta per uso personale da notar Giovan Battista Robio a metà sec. XVI). Sicché, l’obiettiva difficoltà di raccordare globalmente il registro linguistico all’uso originario delle sue diverse modalità paleografiche, non permette di stabilire con chiarezza il contesto culturale che governa la produzione sociale dell’antico documento vastese in volgare rispetto al dialetto. Ma di là da questo limite generale va quanto meno riconosciuta la possibilità di rintracciare una testimonianza epigrafica del 1501 (ancora oggi visibile su di un muro esterno di vico S. Agostino, dietro la cattedrale di S. Giuseppe) in cui si profila l’esemplare raccordo tra forme della scrittura e forme della lingua. La breve iscrizione – già segnalata dal Marchesani2 e qui emendata sulla base di una nuova autopsia paleografica – recita testualmente:

Questo e lu casale / de Santo Agus[t]ino // A. D. 1501 priore F. Bartholomeo et Ni/colao Sottile et Ag/de Conioso procu/ratore S. Agustini [fig. 1]
Il lapicida, per la verità, ricorre a due caratteri. Così, se per un verso utilizza la capitale epigrafica per la forma strettamente in volgare – Questo e lu casale / de Santo Agus[t]ino –, per la parte restante trasceglie la gotica. Certo, la struttura in volgare del primo blocco è chiaramente espresso da quell’esplicito lu aferetico di illum. Ma nel confermare questa natura linguistica, testimonia, con l’uso congiunto del lemma casale, l’arcaico funzionamento di un fenomeno fonetico anteriore alla metafonesi3, nel quale - u finale non modifica la vocale successiva e dove, al contrario, in fase dialettale, avrebbe richiesto la dittongazione della sillaba protonica con - u - semiconsonantico, dando corpo al nesso labiovelare - ua - e alla palatalizzazione di /a/ tonica: lu casale > lu quasálə. Nello stesso documento, inoltre, si registra l’assenza della dittongazione di – ō – in sillaba aperta (– il passaggio – ō –› – àu –) nella parola «procuratore» (in dialetto, prucuratàurə).
Nel nome del santo, inoltre, registriamo l’avvenuta trasformazione di au- > a- della sillaba protonica su cui, in fase dialettale, si svilupperà, in seguito all’aferesi di a-, la spirantizzazione di - g – in posizione intervocalica: – g – > – h –. Da assumere in sede locale come la più antica attestazione conosciuta di questo processo, il vecchio Agustino dell’iscrizione (che continuerà a sopravvivere in forma latinizzata nei coevi capp. I, 2 e IV, 65 dei citati Statuti) restituisce, sul piano diacronico, l’esemplificazione di un mutamento linguistico in atto, comunque anteriore al passaggio, in sillaba aperta, di – ī – latino (Augustīnu[m]) in – ëi –: – ī – > - ëi -. Vale a dire, anteriore a ciò che in seguito sarebbe divenuto Augustīnu[m] > ‘Huštuëinə.
Proprio a partire dalla spirantizzazione di – g – > – h – va considerata la pronunzia dialettale di Vasto (preciso meglio: lu Huàśtə non deriva da il Vasto, ma da lo Guasto, per cui va indicata la spirantizzazione di – g – intervocalica in situazione metafonetica). È noto che da sempre è attestato il nome accompagnato dall’articolo. L’esempio più interessante proviene da Buccio di Ranallo (1294 ca. - 1363) che, nella sua Cronaca aquilana rimata, recita testualmente (stanza MXXV):

Et po gero allo Guasto; per forza lo pilliaro,
Occisero multi homini et tucto lo robaro4.

Lo Guasto, dunque. La – g – intervocalica diventa – v – > con l’articolo – il – (a. 1465: «homini del vasto aymone»5) e si spirantizza in fricativa in posizione intervocalica (la fricativa – ĵ – nell’alfabetico fonetico che grosso modo può essere resa con – h – in una scrittura semplificata). Scrive Gerhard Rohlfs: «Nell’Italia meridionale, particolarmente in posizione intervocalica, – g – viene pronunciata con una occlusione molto tenue, e anzi, in talune località, l’occlusione è talmente debole che si perde completamente, dando in tal caso come risultato la fricativa – ĵ –. Questo grado fonetico può essere considerato caratteristico […] dell’Abruzzo»6. Stando così le cose, la trasformazione fonetica di lo Guasto si presenta nel seguente modo: lu ĵuåśtə o il che è lo stesso lu huàśtə. Ma che cosa significa tutto questo? Che, malgrado l’analisi fonologica, si continuerà a scrivere allo stesso modo: lu Uaśtə, e non lu Huàśtə. Pazienza!
Certo, la conquista nelle scritture pubbliche e private del volgare (il dialetto comincerà a comparire letterariamente solo nell’Ottocento), con la possibilità di cogliere la facies intermedia del rapporto latino volgare/dialetto si disegna come il risultato della profonda modificazione dell’outillage mentale che investe la città in periodo aragonese (a partire dalla formulazione in volgare dei capitula cittadini7 sancita dalla cancelleria regia). E qui vale la pena sottolineare l’originario træ (tre) in volgare che sarebbe diventato tra’ in dialetto8 (e metafonizzato lu trua’). Gli Statuti registrano ancora il volgare mogelle (cefali) [fig. 2], derivato da un lt. mūgĭle(m), anteriormente alla conversione di – ge –› – – (mogellemijèllə)9. Così come annotano la presenza del volgare pelusi (favolli) e non del dialettale pilîusə10 (assenza, cioè, del cambiamento – ū –› – îu –). Lo stesso documento esibisce il lemma mondecza (capp. IV, 6 e 14 [figg. 3, 4]). Originato da un lt. immunditĭa(m) passa per aferesi al volgare mondecza e per assimilazione nd – > – nn – e – cz – > – zz diventa in dialetto mənnàttsə (mənnàzzə). La voce plurale puzzi (cap. IV, 10 [fig. 5]) appare già quasi dialettalizzata, salvo la metafonizzazione di – i – sulla – u – successiva. Derivata da un lt. *putĕu(m) >, si trasforma nel volgare li puzzi per giungere al dialettale li pįttsə (vale a dire, li pîzzə).

(Fig. 2Statuti municipali di Vasto, c. 34 a. Cap. 3, VI: «Del peso del 
pescio et del vendere de ip[s]o». È sottolineato il lemma mogelle
Vasto, Archivio Storico Comunale)
(Fig. 3Statuti municipali di Vasto, c. 46 a. Cap. 4,
VI: «De no[n] buctar[e] le mondecze et brectitudine in le strade et fossi de 

la t[er]ra». È sottolineato il lemma mondecze
Vasto, Archivio Storico Comunale)
(Fig. 4Statuti municipali di Vasto, c. 50 a. Cap. 4, XIIII: «De non 
uctare la mondecza al pale». È sottolineato il lemma mondecza due volte. Vasto, Archivio Storico Comunale)
(Fig. 5Statuti municipali di Vasto, c. 48 a. Cap. 4, XIIII: «De no[n] far[e] 
bructur[e] in le funtane et puczi». 
È sottolineato il lemma puczi
Vasto, Archivio Storico Comunale)
Quasi non bastasse, non può essere sottaciuto come lo stesso Gustav Rolin, in Die Mundart von Vasto in den Abruzzen, ricordi un cippuni nel volgare degli Statuti anteriore all’avvento della dittongazione11. Ma lo studioso non legge l’originale; cita dal dizionario di Luigi Anelli.
Quest’ultimo, va detto, si muove in modo del tutto opposto a Gennaro Finamore, autore nel 1880 del Vocabolario dell’uso abruzzese (II ed. 1893). Il ricercatore vastese, infatti, raccoglie i termini sulla base delle testimonianze letterarie disponibili, sulla gergalità della parola o sulla sua specificità (e qui non può essere sottaciuta la sua scelta, significativamente prossima a quanto recita il titolo di quel Vocabolario delle parole del dialetto napoletano che più si scostano dal dialetto toscano compilato dalla napoletana Accademia dei Filopatridi [Napoli, Porcelli, 1789]. Un repertorio lessicale poco conosciuto, ma di grande importanza per cogliere l’attestazione dei lemmi locali nel dialetto napoletano con la traslazione degli stessi dalla Capitale in periferia). Come si può ben intendere, una straordinaria operazione selettiva quella di Anelli (qualitativa, dunque, non quantitativa giocata sulla diversità dal fiorentino) tendente a sottolineare i caratteri particolari e originali del thesaurus linguistico. Fin dalla sua genesi, l’opera è concepita in una prospettiva “autoriale” (o, se si vuole, di «dialetto illustre») e non d’uso (com’è, appunto, congegnato il dizionario di Finamore). Da qui, la constatazione che quello di Anelli è un unicum programmatico di lemmi che, proprio nell’immediatezza del suo costituirsi, mira, con la scelta dello stesso lessico, alla costruzione di uno spazio letterario della lénga huaśtaréulə.
E del sermo parlato dai locutori della città nella fase del volgare? Sarebbe stato sicuramente accresciuta dalle relazioni commerciali interadriatiche, ma soprattutto favorito dalla predicazione dei frati zoccolanti di S. Onofrio che insiste sul ricorso alla lingua della quotidianità nella pietas ecclesiastica12. A dirla in breve, l’acquisizione del volgare nelle scripturae ufficiali suggerisce la possibilità di rileggere, in una prospettiva certamente più articolata, la stessa storia delle sensibilità che, di per sé, già configura un modo innovativo di fare storia e, perché no, didattica della scrittura fonetica dialettale.
A questo punto vale la pena introdurre un nuovo elemento linguistico su cui torna utile spendere qualche parola. Si tratta di un registro lessicale speciale, i cui lemmi inseguo da molti anni ritrovandone, però, un minuscolo gruzzolo. Tra questi ne ho selezionati alcuni per costruire un ipotetico dialogo tra A e B su cui avviare quanto meno una riflessione.

A. Bbərżuá’, lu bbuèrrə d’icrə m’attarunnuètə ddu’ tuarëjjə p’ sbruffujé’. T’ mmì’ li sbriffijatîrə.
B. Embé Addë’? E’ ‘nu puachiù’ pi ‘ttà. Miggiuhuàne štá’ aléfəcə cicòria càndə.  Ajjə rušcujuétə a la basécchə schininż’a dóppə lu bbuattucchiuàllə nghə li činìllə arriffaldétə e nghi li čiarabbutta štaccunuétə. È ‘na vocia dicèndə. E ‘n m’ attarunnuètə ‘nu sguójje. Śtingh’a gne’ lu sbuolatró.
A. Cullî è‘nu bbuèrrə də hóffiə, bbərżuá’! Ni’ n’d’addarássé’ cchî a àssə. A ‘ssu quaminapiänə j’ attarunnuèmə nî la canàusə. Nî sémə li ‘mbardëschə.13

Che cosa stanno dicendo tra di loro i due locutori? Di quale lingua si avvalgono? Siamo sicuri che sia lénga huaśtaréulə? Per quanto possa apparire bizzarro, sì. È lénga huaśtaréulə. Con una precisazione, però. Che ne costituisce un segmento. In effetti si tratta di un gergo. Di un gergo parlato dai muratori. Non tanto per non farsi capire, quanto perché risultato dell’adattamento locale di una lingua del nord Italia rimasta attiva fino a Novecento inoltrato. In buona sostanza mi riferisco a una comunità di mercanti e di maestranze artigiane dell’area lombardo-ticinese attiva nel corso del sec. XVI e che qui si stanzia definitivamente. La parlata alloglotta di cui è portatrice si innesta sulla fonetica del luogo e dà forma a una neo-lingua che investe una comunità di migranti (si provi a immaginare: migranti padani nell’Abruzzo meridionale nel Cinquecento quando gli Avalos erano governatori di Milano!) che, seppur modificata dal sostrato (in primo luogo dal fenomeno fonologico della dittongazione), mantiene il suo lessico come tratto distintivo del suo essere vastese. Il gergo è originato da questo meccanismo. I ghei milanesi – simili a i schei veneti (la moneta) – diventano isghə o sgujjə nella parlatîurə del luogo. Questa nuova lingua sarà chiamata in dialetto lu ‘mbuardéschə – il lombardesco –. A dimostrazione di un fatto: la lingua è riuscita a permanere anche per quattro secoli nel contesto in cui si sono stanzializzati. Ma cosa importante per tale ambito è la conservazione di un protocollo notarile di metà Cinquecento che testimonia l’attiva presenza del nucleo lombardo-ticinese (appartenente al Ducato di Milano) che opera a Vasto. E’ un atto rogato da notar Gio.Battista Robio (13 giugno 1551) che legalizza la nomina del Viceconsole milanese con competenze dal Trigno al Sangro che sancisce la rappresentanza giuridica di quella comunità nei confronti dell’universitas e delle autorità viceregnali. Nei fatti, una testimonianza che suggella la nomina a tale incarico del magnifico Marco Antonio Peppo di fronte ai delegati di questo gruppo, congregati in assemblea nel chiostro di S. Agostino (chiesa in cui era presente la cosiddetta Cappella dei Milanesi in cui veniva officiata la liturgia secondo il rito ambrosiano). Oltre ai nomi, lo scartafaccio segnala la provenienza dei singoli partecipanti, profilando una sorta di antropologia geografica dei partecipanti. Questo il testo:

Die vero XIII mensis Junij [1551]
«In terra Vasti aimonis et in Claustro vener.lis conventus S.ti augustini ordinis heremitarum dicte terre in eius publica platea» - congregatis in dicto loco infrascripti nationis mediolanensium et subditorum Ill.mi Ducalis Dominij mediolani pro ut dixerunt, in dicta terra vasti commorantibus Cameram facientibus ac facere volentibus conviserfuerunt videlicet magr. Jacobus chiocchinus, Hippolitus antonij schivardi, Hieronimus de rona, Martinus dominici de belinzona, joannes thomas m.i franc. mediolanensis franciscus Schiana, Simon Joannis de belinzona, Antonius bartholomei, Jac. joannis de pedron, Antonius joannis de belinzona, Antonius dominici del possino de belinzona, Laurentius gener Sbardelle, Antonius mag.ri pauli novarensis, Antonius donati de belinzona, joannes alias vulpes de palanzo, Magr. Dominicus gener capitis grossi, Dominicus beltrami de valle lucha magr. berardinus antonij de varese Petrus Joannis de belinzona, mag. Donatus Joannis de belinzona, Dominicus de palanza et Petrus ber.ni del lago de Como, coram quibus sic per preconem et vocem nuncij congregatis et radunatis de voluntate tamen ordine et mandato Mag.ci D.ñi Pauli Malcazati mediolanensis generalis consulis in regno neapolis Ill.mi ducatis Dominij mediolani et subditorum ipsius presenti et assistentis per eundem Mag.cum Dominum Paulum consulem generalem ut supra coram nobis et judice Not. et testibus predictis dictum et positum fuit qual mente havendo se trova esso S.or Consule esponente in dicta terra del vasto il loco del Viceconsule de dicta natione vacare per la morte del quondam ms. Carlo di Jo. batta de Jac. de bapta de dicta terra premortuo volendo sua S.ria in dicta terra di novo viceconsule provedere have electo nominato et ordinato per vice consule de dicta natione in dicta terra et dal fiume trigno fino al fiume del Sangro in loco suo et per suo substituto lo Mag.co ms. Marco ant. peppo de dicta terra licet absente como presente ad beneplacito pero de esso S.or consule generale. Al quale li prefati Subditi de essa natione debbiano dare plena obedientia como la persona sua communicandoli vices et voces suas et le debbiano dare li soliti gagij lucri et emolumenti et cussi have exortato monito et astrecto li predetti congregati ut supra lo prefato ms. Marco ant. electo vice consule ut supra vogliano per lor vice consule acceptare tenere e reputare.14
 I partecipanti ovviamente accettano il nuovo viceconsole così come era stato fatto per il precedente. Pongono con questo atto le basi per diventare cittadini del Vasto e sudditi del viceregno di Napoli. Ci troviamo di fronte all’uso delle Prammatiche di Regno e Viceregno che, nel regolarizzare la vita sociale, legalizzano l’identità commerciale, culturale e linguistica dei migranti nel contesto della comunità accogliente. Lu ‘mbuardéschə, dunque, è stata l’unica traccia superstite di quella remota ridislocazione territoriale degli abitanti degli antichi stati italiani (una traccia che lo stesso storico Luigi Marchesani ha in qualche modo cercato di documentare pur in assenza delle necessarie fonti archivistiche e delle cognizioni linguistiche in quel periodo ancora in fieri)15. Fatta eccezione per qualche termine riscontrabile nella memoria di pochi testimoni ancora in vita, la lingua può definirsi estinta. Una vicenda in qualche modo simile a quella del dalmatico settentrionale (il cosiddetto veglioto) in cui la parlata romanza si sarebbe trovata a scomparire per sempre con la morte nel 1898 di Tuone Udaina, il suo ultimo locutore. Con una differenza: che a Vasto, purtroppo, non conosciamo il nome dell' Ultimo.
E qui per non concludere. Il dialetto corrente come lingua romanza non si insegna: si parla fin quando ci sarà qualcuno a parlarlo dalla nascita. E fino a quel momento sarà lingua della verna. Di conseguenza, non esistono maestri o locutori particolari. Protagonisti e testimoni sono tutti coloro che in quella lingua ragionano e comunicano (diventandone in questo modo testimoni). Il declino della lingua storicamente parlata si comincia a avvertire quando la dittongazione lenisce fino alla sua scomparsa, riconnettendo la sua fonologia a quella ufficiale. In tal caso, quella locutio non avrà più la sua funzione di struttura fondante la comunicazione verbale della comunità. Nella migliore delle ipotesi, può diventare locutio secundaria – non funzionale a un uso sociale – ma connotativa di gruppi che, per scelta, intendono utilizzarla.  Ma si tratta di un esercizio culturale, letterario – di per sé importante sul versante della ricerca espressiva (diatopica e diastratica, sul piano sociolinguistico) – di certo, però, non coincidente con la socialità di una lingua come il dialetto, che prima di essere colta è soprattutto d’uso. Una cosa è certa. Nella prospettiva diacronica, la lénga huaśtaréulə è tale in ragione della dittongazione – con le procedure metafonetiche di – i – e – u – protoniche sulla vocale tonica successiva – che ne ha costituito il suo tratto fonologico distintivo. Una locutio senza tale caratteristica la si può chiamare come si vuole. Non si sbaglia. Da non confondere però con ciò che chiamo lénga huaśtaréulə sulla base di quanto definito in precedenza. In buona sostanza è proprio la lingua che va considerata come patrimonio culturale immateriale da documentare e conservare in tutte le sue manifestazioni (non solo foniche, ma anche nelle esperienze fonico/rappresentative). Dove? In un possibile «Museo della voce» da caratterizzare sul versante dei beni culturali demoetno-antropologici (che non mi dispiacerebbe realizzare nell’ambito dell’Istituto per la Storia di Vasto).
Una cosa voglio ricordare a me stesso. Il dialetto, essendo anche lingua della verna, non si insegna, si apprende, con tutte le sue nuances, nella casa in cui si nasce. Possono essere spiegate le forme storiche o quelle letterarie. Al più, del dialetto si può insegnare la scrittura – o meglio, la trascrizione fonetica e fonematica dei suoni (questa sì, una tecnica trasmissibile come tante altre) –. Che cosa significa tutto questo? Che il dialetto, in buona sostanza, si studia (in modo esclusivo come purtroppo capita oggi per lu ‘mbuardéschə). Qualche volta si ama anche se non lo si è appreso nell’infanzia o in gioventù. Quando i due piani coincidono vuol dire che ciò che un tempo era definito sermo humilis può ancora trovare in se stesso la forza necessaria per continuare a raccontare la storia della comunità che lo ha reso possibile.  

Note

1 Cfr. 1465-1550. Capitoli del Vasto Aymone in N. F. Faraglia, Il Comune nell’Italia meridionale, Napoli, Tip. Regia Università, 1883, pp. 292-310.
2 L. Marchesani, Storia di Vasto, Napoli, Torchi dell’Osservatore medico, 1838 [ma 1841], rist. a c. di L. Murolo, Vasto, Amministrazione Comunale, 1982, iscr. 132, p. XIX. Lo storico, in luogo di Sottile, legge Socale.
3 Con metafonesi si intende quel fenomeno prosodico che consiste nella modificazione del suono di una parola per l’influenza della vocale postonica finale sulla vocale tonica
4 Buccio di Ranallo, Cronaca aquilana rimata, a c. di V. Bartholomaeis, Roma, Fonti per la Storia d’Italia, 1907, MXXV, 1-2, p. 236. Il corsivo è mio.
5 F. F. Faraglia, op. cit., p. 293.
6 G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, vol. I, Torino, Einaudi, 1966, p. 299.
7 I capitoli del Vasto Aymone 1465-1499, compresi i rescritti aragonesi, sono stati pubblicati come appendice in C. Del Greco, Origine feudale delle Terre Redditizie al comune di Vasto e le sue conseguenze, Napoli, s.i.t., 1859, pp. 1-36. Gli stessi, esclusi i rescritti, ma con trascrizione più rigorosa (e fino al 1550), si trovano in N. F. Faraglia, op. cit. Sono, tra l’altro, riportati nel lavoro settecentesco (inedito fino al 2005) di G. de Benedictis, Memorie Istoriche del Vasto, a c. di C. Marchesani, Vasto, il Torcoliere, 2005, pp. 187-204. Un regesto dei capitoli, inoltre, è stato curato da L. Marchesani, op. cit., pp. 99-102.
8 Ad esempio, cfr. Archivio Comunale di Vasto, Statuti Municipali, ms., cap. 3, VI.
9 Ivi.
10 Ivi.
11 G. Rolin, Die Mundart von Vasto in den Abruzzen, Prag 1908, p. 6. Scrive l’autore: «Anmerkung. Die Diphthongierung reicht nicht über das seczehnte Jahrhundert zurück; die ältesten vastesischen Denkmäler  weisen nur einfache Vokale auf:  1503 ceppone Sing – cippuni Plur., heute cippâune – cippìune». Il testo è conservato presso l’Università di Bologna, Istituto di Glottologia, Donazione Goidanich.
12 Sull’argomento cfr. L. Murolo, Le muse fra i negozi. Letteratura e cultura in un centro dell’Italia meridionale, Roma, Bulzoni, 1992, pp. 119-128.
13 Traduzione: a. Ehi, amico. Quel ricco signore mi ha una mancia di due tarì per fumare. Guarda i sigari. b. Ebbene Diego? Per te è una pacchia. Sono senza un soldo. Ho lavorato a quella casa cadente fin dopo il Mezzogiorno con gli occhi arrossati e con le scarpe ormai prive di tacco. Lo dicono tutti. Quel tale non mi ha dato nemmeno un denaro. Sto inchiodato come il buon ladrone. a. Amico, quello è un pessimo soggetto. Non ti avvicinare più a lui. Questo pidocchio lo faremo perseguire dalla finanza. Ricordati, noi siamo i lombardeschi!
14 in Regesti Marciani. Fondi del notariato e del decurionato da area frentana (secc. XVI-XIX), vol. 7/III, a c. di C. Marciani, L’Aquila, Japadre, 1989, pp. 252-253.
15 Cfr. L. Marchesani, op. cit., p.18.



Pubblicato da Mercurio Saraceni

lunedì 25 maggio 2020

«LENTEZZA»


 Gaetano Celano etichetta

«lentezza»

Cibo, turismo, terroir, stili di vita nella storia di Vasto


di Luigi Murolo


A meno di dieci anni dalla conclusione del secondo conflitto mondiale le province abruzzesi discutevano l’organizzazione del turismo nei propri territori con le istituzioni delle Aziende Autonome di Soggiorno e Turismo (AAST) sciolte successivamente con L. R. 23 aprile 1980 riapprovata il 15 aprile 1981. Il dibattito sulle pagine locali dei quotidiani del tempo chiariva in modo eloquente le condizioni materiali in cui versava la struttura complessiva dell’accoglienza e le strategie perseguite per migliorarla. Tra le soluzioni previste dall’AAST di Vasto, la gastronomia diventava essenziale. Anzi, avrebbe costituito la prima concreta iniziativa programmata dall’ente, sottolineando quanto contasse la civiltà della tavola e della cucina nelle intuizioni progettuali del suo animatore. E non solo per il rapporto tout court cucina/turismo. Ma anche per il modo in cui tale endiadi sarebbe dovuta essere affrontata. Mi piace pensare a quanto recita il primo articolo dello Statuto del Touring Club Italiano laddove si parla di uno «sviluppo del turismo, inteso anche quale mezzo di conoscenza di paesi e culture, e di reciproca comprensione e rispetto fra i popoli. In particolare il TCI intende collaborare alla tutela e alla educazione ad un corretto godimento del patrimonio italiano di storia, d’arte e di natura, che considera nel suo complesso bene insostituibile da trasmettere alle generazioni future». Si può ben capire, allora, quanto la sostituzione di TCI con AAST possa esaurientemente spiegare il senso di quella manifestazione. Ma c’è di più. Il paradigma del viaggio intorno alla gastronomia si sostanzia di quel sapere intriso di sapore maturato tra i frequentatori del Bel Paese. Il senso di tale miscela si può ritrovare nel memorabile apologo sulle ferrovie che Bertarelli, fondatore del turismo italiano, traccia nella prima edizione della Guida Tci (1927) e su cui, oggi, tornerebbe sicuramente utile spendere qualche parola:

Così il visitatore può scegliere tra le due forme, la sintetica e la minuziosa: come accade di certe ferrovie, che son percorse da treni diretti, destinati ad arrestarsi solo nelle grandi stazioni e dai quali il passeggero percepisce solo fugacemente il paesaggio; mentre a pochi minuti di distanza, quei treni sono seguiti da altri, dalla marcia più lenta e dalle molteplici fermate: ottimi per chi, avendo un largo tempo a disposizione, voglia godere più agiatamente il percorso e conoscerne le particolari bellezze. – Insomma il lettore vi trova il molto e il poco, a suo piacere; ma non vi manca niente dell’essenziale.
 La citazione pone l’accento sulla consapevolezza di due stili di vita e di percezione dei luoghi: e ciò nel momento in cui la lentezza comincia a diventare alternativa alla velocità. Con un’aggiunta: la scelta vastese degli anni Cinquanta si misurava con una prospettiva dialettica in un contesto che, di fatto, la rendeva praticabile. Dove, però, le condizioni postbelliche favorivano la prima soluzione rispetto alla seconda. Sicché, tra velocità e lentezza, il cibo si presentava come il grimaldello per aprire la via al turismo. Ma andiamo per ordine.
Milano, 29 luglio 1953, Hotel Diana. Fondazione dell’Accademia Italiana della Cucina grazie ai seguenti personaggi: Luigi Bertett, Dino Buzzati, Cesare Chiodi, Giannino Citterio, Ernesto Donà dalle Rose, Michele Guido Franci, Gianni Mazzocchi Bastoni, Arnoldo Mondadori, Attilio Nava, Arturo Orvieto, Severino Pagani, Aldo Passante, Gian Luigi Ponti, Giò Ponti, Dino Villani, Edoardo Visconti di Modrone, Orio Vergani.
Vasto, 12-13 settembre 1953. L’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Vasto presieduta da Carlo Boselli realizza il I Festival gastronomico interregionale Marche-Abruzzo-Molise con annessa Mostra della Cucina.
Due date – divise da meno di due mesi – che sembrano prospettare all’estate del 1953 la nascita di un’attenzione per la civiltà italiana del cibo e per le biodiversità gastronomiche regionali. Cosa molto importante: nessuna relazione è da stabilire tra le due iniziative. L’una nasce indipendentemente dall’altra. Unico tratto comune: la sensibilità avvertita in due contesti radicalmente differenti nei confronti di una questione fino a allora sottovalutata. La prima, carica di interessi culturali e di ricerca; la seconda, destinata alla scoperta di un insieme di cucine regionali “dimenticate” insieme con tutto il patrimonio di gusto consegnato ai contemporanei dalla traditio dei territori. No. In quest’ ultimo caso non era ancora possibile parlare di valorizzazione – del resto, come sarebbe stato possibile in un periodo di gran lunga anteriore al boom economico, in assenza di strade (vale la pena rammentare che l’Anas veniva istituita nel 1946), con una statale 16 tortuosissima e dominata dai camion, con il tratto autostradale Pescara-Vasto inaugurato nel 1969, con l’accessibilità alle aree garantita dalla sola linea ferroviaria (le locomotive erano ancora a carbone) –. Semmai, l’AAST di Vasto tendeva a fornire una vetrina di prodotti gastronomici disponibili ai residenti o, al più, al raro viaggiatore (sempre che ci fosse stato) che si spingeva in questi remoti angoli del levante italiano non ancora lambiti dalla mobilità di massa e dagli effetti dell’industrializzazione (il porto di Punta Penna aprirà al traffico mercantile solo alla fine del 1958, con la prima industria attivata nel 1959) e con un Adriatico bloccato, allora frontiera insormontabile tra occidente e oriente. Da questo punto di vista, un riferimento al generale non guasta. Così, tanto per ricordare, Trieste sarebbe tornata a far parte dell’amministrazione civile italiana solo a partire dal 26 ottobre 1954.
1953, dunque. La città non disponeva ancora di alberghi destinati a un turismo centrato sulla mobilità stradale (per quel che po’ che serviva, svolgeva egregiamente il suo lavoro il solo piccolo hotel Nuova Italia). Magari, era stato proprio lì, il luogo in cui Guido Piovene aveva soggiornato durante il suo lungo Viaggio in Italia e che, in ragione della sua sosta vastese, aveva avuto occasione di scrivere: «In quella graziosa città marinara che è Vasto […] il brodetto di pesce è il piatto giornaliero d’obbligo […]; nelle stradine e nelle piazze si spande l’odore del fritto» (G. Piovene, Viaggio in Italia, Milano, Baldini&Castoldi, 1999, p. 547).
Già. Agli albori del turismo in Abruzzo (e siamo sempre nel 1953) la discussione riguardava la scarsa ricettività alberghiera della regione. In un articolo dell’edizione abruzzese di «Momento sera» del 5 gennaio 1953 (a firma di Antonio Jacondini) il titolo recitava: «La deficienza alberghiera e la rinascita. Secondo le statistiche, la nostra regione è al quindicesimo posto nel campo dell’attrezzatura turistica». E le cose non finivano qui. In effetti, l’edizione abruzzese del «Giornale d’Italia» in un pezzo anonimo del 4 gennaio 1953 sottolineava: «Il turismo regionale. Solo 4000 letti disponibili negli alberghi». A riconferma di ciò, la pagina abruzzese de «Il Messaggero» del 14 gennaio 1953 in un intervento di Giuseppe Marini precisava che «Per favorire il turismo abruzzese è necessario costruire nuovi alberghi». Quasi non bastasse, un servizio anonimo del «Mattino d’Abruzzo» di Pescara del 30 gennaio 1953 aggiungeva: «Come in Alta Italia. Necessaria l’iniziativa privata per lo sviluppo del nostro turismo». Così, proprio per quest’ultima ragione, si spiegano le ragioni che avrebbero indotto la Casmez a spingere per l’apertura a Vasto dell’Autostello-Aci nel 1955 e all’avvio, sempre nello stesso anno, della costruzione del Jolly hotel.
Certo, la lettura di questa documentazione ordinata dal Servizio ritagli stampa dell’EPT e conservata oggi presso l’Archivio di Stato di Chieti, costituisce un osservatorio di straordinaria sinteticità e rilevanza per comprendere quanto accadeva nel turismo abruzzese durante gli anni Cinquanta (a tal proposito vale la pena ricordare come, in quel periodo, fossero le Province gli organismi territoriali di governo, non le Regioni a statuto ordinario [come tutti sanno, istituite nel 1970]). Malgrado la limitazione di area di competenza, il ricco dossier informativo spazia ben oltre l’orizzonte di riferimento, consentendo di seguire con attenzione le attività svolte nelle quattro province abruzzesi. Si scopre, ad esempio, che veniva posta l’esigenza di affrontare il problema turistico in una prospettiva più ampia, di tipo interregionale. Lo si apprende dal «Mattino d’Abruzzo» di Pescara del 25 maggio 1952 che, in un articolo a firma Dino Tiboni, titolava: «Per l’incremento del turismo. È necessaria unità d’azione tra città balneari marco-abruzzesi». Sicché, l’idea di coordinare le città rivierasche del medio Adriatico (malgrado i soli 4000 letti d’Abruzzo), sembrava poter essere una proposta credibile per ampliare l’offerta di accoglienza per i viaggiatori interessati (vale a dire, consapevoli e informati) – gli unici presenti in quegli anni in zone per così dire “marginali” e di certo ragguagliati da quel celebrato Baedeker che era (e che è) la Guida Rossa del Touring) –.
Da questo punto di vista, il I Festival gastronomico interregionale Marche-Abruzzo-Molise di Vasto (rimasto senza seguito) rientrava coerentemente nel paradigma del viaggio d’élite – come si è visto, l’unico allora pensabile e, soprattutto, possibile –. In quei due giorni di tarda estate del Cinquantatré (12-13 settembre), tra i visitatori residenti poteva di certo essere intravisto qualche volto sconosciuto. Stava nei fatti. Ma l’importante non era questo. Quel che interessava era la realizzazione di una “vetrina” del gusto – ricorrendo alla magica parola “festival” resa popolare da un Sanremo ancora radiofonico – per segnalarne la natura turistico-culturale tra le stesse popolazioni produttrici. A partire dalla “scoperta” di questa dimensione interregionale della rassegna, la conoscenza della tradizione gastronomica locale e dei suoi cultori comincerà a travalicare i fines locali. Tre anni più tardi, infatti – gennaio 1956 –, il ristoratore Francesco Izzi avrebbe ricevuto «Il Pesce d’Argento”, premio per la migliore cucina ittica della riviera adriatica.
Un decennio più tardi – nel 1966 –, lo stesso chef vastese torna sulla scena nazionale in un celebre articolo di Vincenzo Buonassisi pubblicato su «Le vie d’Italia» - rivista del Touring Club Italiano – [fig. 1], nel n. 12 del dicembre 1966, pp. 1459-1469 (paginazione del periodico in progressione annuale). Tal che, durante il suo viaggio in Abruzzo nell’ottobre di quell’anno (e in incontri documentati fotograficamente [figg. 2-3]) – dopo aver resocontata la presentazione della cucina abruzzese al Circolo della Stampa di Milano («Corriere della Sera», 6 marzo 1966) –, il giornalista-gastronomo, misurandosi direttamente con le pietanze d’autore, può scrivere:

 «[…]  a Vasto (dove la soglia è d’obbligo «da Francesco») incomincia il regno degli spaghetti aglio e olio, del brodetto (che ha il pregio, rispetto a quelli di altre regioni, di appoggiarsi generosamente al diavolillo), dello «scapece». Questa, in particolare, è la specialità di Vasto: sono fette pesce di spina, di seppie, e via dicendo, fritte nell’olio, conservate in aceto e zafferano. Lo «scapece» è l’unico esempio di impiego dello zafferano nella cucina abruzzese, perché tutto quello che si produce nella regione, sui piani verdi di Navelli, se ne va altrove, non ha mai fatto presa localmente. Un’altra delizia di Vasto sono le «carpeselle», cioè il pesce fritto poi marinato con aceto, a cui si aggiunge mosto cotto. Classici i polpi in purgatorio, ossia in umido, con olio, pomodoro, prezzemolo, aglio e gli immancabili peperoni». [pp. 1467-1468]

Il brano è di alta istruzione gastronomica. La lectio fornita dal grande scalco vastese consente allo scrittore di annotare con precisione il necessario. Soprattutto sottolineare un unicum nella tradizione culinaria regionale: l’uso dello zafferano di Navelli. Nel suo intervento, Buonassisi individua il topos di due prodotti (“diavolilli” e zafferano di Navelli). A indicare la specificità di alimenti che connotano le pietanze. Con una conclusione: che importante non è tanto la ricetta (di per sé infinitamente replicabile, ma i prodotti che si utilizzano per connotarla. In altre parole, ciò che potremmo definire topicità.




 Fig. 2
 Fig. 3


 Degustazione scapece


 Degustazione di pesce
Un esempio analogo lo possiamo rintracciare un secolo prima: con precisione nel 1867, allorché capita qualcosa di assolutamente singolare nella Parigi del II impero. La Ville-lumière registra la presenza di un espositore vastese nel settore alimentare – Matteo Bottari – che partecipa all’Esposizione Universale di quell’anno. Nessuno avrebbe potuto immaginare che un trentaduenne maccaronaro del remotissimo Abruzzo Citra (essendo nato a Vasto nel 1835) riuscisse a vincere la medaglia d’argento nella sua classe. Sì. Matteo Bottari aveva ottenuto l’alto riconoscimento nella produzione di pasta alimentare (cfr. L’indicatore generale del commercio e dell’industria italiana, Napoli 1876, pp. 113-114). Del resto, lo stesso risultato che gli sarebbe occorso nell’Esposizione Universale di Vienna del 1873 – sette anni più tardi – allorché avrebbe bissato il successo nel medesimo segmento produttivo (un’osservazione: quando Bottari otteneva questi risultati la De Cecco di Fara S. Martino doveva essere ancora fondata). Quasi non bastasse (e l’epoca non cambia), il pasticciere Gaetano Celano avviava la produzione artigianale di rosolio, vale a dire quella soluzione liquorosa ottenuta dai petali di rosa che oggi possiamo tranquillamente definire come prodotto agroalimentare tradizionale italiano [fig. 4]. Sulla specificazione degli elementi topici si tornerà più avanti. Non senza però ricordare i nomi degli altri «industrianti» maccaronari locali: Filippo Di Ciocco, Cesare Ruggieri, Annibale Sacchetta.

(Fig. 4: L’etichetta della distilleria di rosolio Gaetano Celano (1866). Vasto, Archivio Storico Comunale)
A questo punto diventa utile connettere tali aspetti sul versante di una possibile storia cittadina dell’ospitalità e della convivialità. Insomma, non solo la tematica relativa all’industria della pasta alimentare di qualità, ma anche all’uso locale di una bevanda «comunitaria» come il caffè nel contesto degli esercizi commerciali di intrattenimento. Il caffè, dunque? Sì, proprio il caffè. Rispondendo all’interrogativo del quando venga sorbito per la prima volta in città. E, soprattutto, per capire quale sia stato il primo mirabolante «manovratore» di prodotti orientali in chicchi e poi tostati a diffondere in città l’aroma di questa strana bevanda di color nero in un tempo che, per noi contemporanei, rimane ancora oggi sospeso e indefinito.
I dati finora disponibili consentono di delineare il seguente profilo.
In una Nota degli esercenti i diversi mestieri conservata nell’Archivio Storico Comunale di Vasto, datata 3 maggio 1827 incontriamo il minuzioso elenco (che qui riordino alfabeticamente) di bettolai, caffettieri, bottegai, cantinieri, locandieri, tavernari, venditori di dolci e liquori, venditori di vini – tutti muniti di apposita patente o in attesa di ottenerla – con una nutrita presenza di caffettieri (6 su 18.). In ordine decrescente incontriamo cantinieri (5 su 18), tavernari (2 su 18), bettolai (1 su 18), bottegari (1 su 18), locandieri (1 su 18), venditori di dolci (1 su 18), venditori di vino (1 su 18). All’interno di questo numero, va registrato un caffè-bigliardo.  In buona sostanza, almeno sulla carta, le botteghe del caffè risultano essere 1/3 di tutti gli esercizi esistenti in città. Va notata la presenza di due gestioni femminili delle attività commerciali (2/18).

Bettolaj
Saverio Bottari

Bigliardieri
Francesco Paolo de Blasiis

Bottegari
Leonardo Spatocco

Caffettieri
Cesario Castelli, Luigi Castelli, Antonio Cavallone, Raffaele Consalvo, Francesco Paolo de Blasiis, Filippo Gizzi,

Cantinieri
Michele Cinquina, Maria Di Spalatro, Luigi Giosa, Nicola Paolino, Giovanna Recchione

Locandieri
Stefano Mattioli

Tavernari
Luigi Altea, Cesare Muzii,

Venditori dolci e liquori
Pasquale Negri

Venditori vino
Sante Fenice
In un successivo elenco datata 28 gennaio 1852, risistemato con gli stessi criteri del precedente, troviamo una diversa distribuzione – sicuramente più essenziale – degli esercenti con patente (fig. 5). Il risultato è il seguente: una maggiore presenza di caffettieri (10 su 20. Uno in più rispetto a quelli numerati nel documento). In ordine decrescente incontriamo bettolieri (6/20), locandieri (3/20), gli armieri (1/20). Ciò vuol dire che, almeno sulla carta, le botteghe del caffè costituiscono la metà di tutti gli esercizi esistenti in città. Cresce, tra l’altro, la stessa presenza di gestione femminile delle attività commerciali (7/20).

Caffettieri
Cesario Castelli, Maddalena Castelli, Errico Celano, Michele Cieri, Francesco Paolo de Blasiis, Tito d’Ippolito, Rosaria Fulvio, Domenico Giovine, Errica Lattanzio, Giuseppe Moscariello

Locandieri
Filippo Marino, Giovanni Trivelli, Gaetano Vallone

Bettolieri
Maria Giuseppe Bottari, Maria Nicola Marchesani, Maria Giacinta Miscione, Lorenzo Orlandi, Saverio Reale, Maria Scodavolpe

Armieri e ferrai
Angelantonio Muzii

Il confronto tra i due registri lascia emergere un duplice aspetto delineatosi nel torno di un quarto di secolo: da un lato, la crescita delle caffetterie; dall’altro, l’aumento della gestione femminile di locali con clientela connessa con cetualità di diverso status (braccianti, contadini, manovali, pescatori, vastasi [facchini] ecc.). Dal che si può ben intendere come, a metà Ottocento, risulti ben documentata la croissance del caffè quale pratica di omologazione sociale del gusto. L’osservazione – va detto – è riferita all’esercizio pubblico perché, lo smercio della bevanda, in quello stesso periodo, era praticata anche con l’ambulantato (Fig. 6). La ragione sta nel fatto che era piuttosto farraginosa la sua preparazione in ambiente domestico. Non conosco documenti vastesi relativi a questa pratica. Difficile, a maggior ragione, quantificarla. Da questo punto di vista, la produzione in casa di caffè doveva risultare molto limitata – anzi, limitatissima –. La complessa lavorazione della tostatura scura (o “a manto di monaco”) invitava comunque all’acquisto dei chicchi presso il caffettiere. La stessa cuccumella (in rame fino al 1886) doveva essere posta non su fuoco a gas – ovviamente – ma su carboni. Con un tempo di bollitura profondamente slow. Stando così le cose, quale sarebbe potuta essere, allora, la procedura più seguita tanto in ambiente domestico quanto in ambito pubblico? Sicuramente il metodo di infusione alla turca in un samovar, dove un sacchetto di tela contenente caffè legato con un cordoncino veniva immerso in acqua fino a ebollizione. Poi, al momento della consumazione, veniva filtrato in un colino per evitare il fastidio della posa in bocca. Possibile, allora, realizzare una consumazione di caffè in casa?

(Fig. 6Il piccolo caffettiere ambulante. Stampa ottocentesca) 

Gli anni tra il 1827 e il 1852 segnano in modo inequivocabile l’incremento all’uso di questo particolare liquido che, prima di ogni altra cosa, risulta essere un meccanismo di organizzazione sociale. Ma c’è da chiedersi: qual è la testimonianza più antica di un caffettiere in città? Il presumibile numero uno? Lo si può individuare? A tal proposito, le fonti più autorevoli restano i catasti. Dopo aver compulsato l’Onciario (1742) e il Napoleonico (1813), ci accorgiamo che quest’ultimo è l’unico in grado di fornirci una traccia sicura. Alla sez. G, n.54, p. 325 troviamo la seguente indicazione: Salvatore Provicoli caffettiere [fig. 7] abitante in via (rione) Genova (una traversa di via S. Pietro franata nel 1956) in una casa con tre vani superiori e uno terraneo con cisterna (elemento fondamentale per la preparazione della bevanda).

 Lo stato di famiglia del figlio di Salvatore, Giuseppe, segnala come suo padre provenisse da Napoli e aveva sposato a Vasto Rosa Monteferrante. Per il fatto che Giuseppe fosse nato il 4 marzo 1798, diventa lecito ipotizzare il trasferimento di Salvatore a Vasto almeno un paio d’anni prima [fig. 8]. Va da sé che, con questi elementi, l’introduzione del caffè in città possa essere fissata quanto meno nell’ultimo decennio del Settecento. Provicoli muore il 25 settembre 1817 nel corso dell’epidemia di tifo petecchiale senza aver potuto conoscere l’invenzione della cuccumella a Parigi (1819) a opera di Morize che sarebbe stata successivamente rielaborata a Napoli. Dunque, il caffè che per la prima volta viene prodotto a Vasto è quello alla turca fatto con il samovar. Una notizia sicuramente importante per cogliere il rapporto che lega alla città la bevanda scura. Dovrà trascorrere ancora un buon mezzo secolo prima che il delizioso liquido aromatico – oltre a essere tale – sarebbe diventato snodo dell’incontro sociale interclassista. Ma quando ciò diventerà insopportabile per il gruppo ristretto dei «signori», ecco che si leverà il lamento dell’onorevole Francesco Ciccarone e di chi si sente minacciato nel proprio rango:

«La rivoluzione liberale del 1860 modificò profondamente nelle nostre province le relazioni fra classe e classe sociale. Se i contadini, per molti anni ancora, continuarono a vivere nel sacro timore dei signori, nell’animo dell’artigiano, del mestierante, dell’operaio, cominciarono a fermentare le vanità, le ambizioncelle. Il desiderio di mutare stato e, se non ragguagliarsi, almeno di accostarsi a chi stava più in alto nella scala sociale. Questa tendenza, dalla quale più tardi si svilupparono l’arrivismo e l’impiego, mania che fecero tanti spostati, rese assai molesto e imbarazzante per la classe dei signori quel caffè dove l’artiere non aveva osato mettere piede ed ora entrava liberamente e si permetteva di criticare questa o quella mossa al giuoco di carte, questo o quel tiro al gioco del biliardo ed anche più irrispettosa familiarità».
(F. Ciccarone, Ricordi, Vasto, Cannarsa, 1998, p. 30)

Inaccettabile, dunque, agli occhi e alle orecchie della ricca borghesia cittadina. Di fronte a tanta insolenza di classe, il solito Ciccarone si lascia andare alla seguente precisazione:

«Fu allora che venne in mente a parecchi della classe agiata di abbandonare il caffè a questi nuovi e indiscreti frequentatori il caffè e di fondare un circolo dove potessero passare il tempo senza essere costretti a spiacevoli contatti». (Ivi)
(Fig. 8Stato di famiglia di Giuseppe Provicoli con l’indicazione del padre Salvatore. Stato d’anime, Archivio Concattedrale di S. Giuseppe, Vasto)
Insomma, nessun contatto con la plebe. Contatto con la plebe che il caffè aveva consentito. Come si sarebbe risolto il tutto? Molto semplicemente: interrompendo la circolarità interclassista del caffè.
E qui torniamo di nuovo allo stile di vita. Non solo ai rapporti sociali, ma alla stessa dieta e all’ambiente in cui è inscritta. I prodotti sono espressione di ciò che viene definito terroir: vale a dire, un’area ben delimitata in cui convergono condizioni naturali, fisiche e chimiche, clima che consentono la realizzazione di prodotti ad hoc. Ad esempio, l’acqua del maccaronaro Matteo Bottari era quella di un’antica sorgente ora in disuso: le Luci. Lo stesso grano di quella pasta non era stato più utilizzato perché sostituito dal grano Cappelli: parlo del cosiddetto grano saragolla (stando alla testimonianza del Marchesani) che, nel 1801, nell’opera dal titolo I principi della vegetazione ovvero come coltivar la terra per trarre da essa il maggior possibile frutto, l’abate teramano Bernardo Quartapelle descriveva in questi termini:

[...] I nostri agricoltori distinguono diverse specie di grani, chiamandone altri duri altri bianchi. Fra i primi occupa il principal luogo la Saragolla, i cui acini sono lunghetti sodi, e di color biondo […]. Le migliori saragolle del nostro Regno ottime per fare paste, si seminano in Novembre e Dicembre […]. È un grano lungo, gialliccio, e di gran durata […].

Anche se la qualità Triticum turgidum durum comincia a essere commercialmente recuperata non lo stesso si può dire per l’acqua (a meno di voler riattare l’antico acquedotto). A partire da questi dati, i maccaroni di Bottari non hanno alcuna condizione per un’eventuale “riproducibilità”. Ecco allora il punto. Sapere e sapore – entrambi i termini fondati sulla radice sap – hanno l’opportunità di diventare protagonisti di un diverso approccio al modo di vivere l’ambiente e il cibo. Non tanto la ricetta; ma la dieta, vale a dire lo stile di vita su cui, in buona sostanza, si fonda il concetto di bene culturale immateriale. Da questo punto di vista, la rilettura dell’aureo volumetto del botanico Michele Tenore (1780-1860) dal titolo Relazione del viaggio fatto in alcuni luoghi di Abruzzo Citeriore nella State del 1831 (Napoli, Tip. P. Tizzano, 1832) costituisce un prius di straordinario interesse per cogliere il senso della ricerca sulla biodiversità in una delle province più settentrionali del Regno delle Due Sicilie. Si provi a riflettere. L’antica indagine di Michele Tenore ha per oggetto la biodiversità della Provincia di Abruzzo Citeriore – vale a dire, l’attuale Provincia di Chieti –. Un tema, dunque – quello dell’Abruzzo meridionale – che ha sempre destato interesse tra gli studiosi d’antan. In effetti, se si tiene conto delle meticolose ricognizioni svolte dal massimo illuminista del Settecento napoletano, Giuseppe Maria Galanti, non possiamo non considerare le affermazioni del Visitatore regio sull’olivo dell’Abruzzo Citeriore nel viaggio del 1792. Se da un lato, apprendiamo che l’olivo prodotto citra flumen Sangri è la monocultivar gentile, quella piantata citra flumen Piscariae è la qualità cucca (la domanda è: qual era, nella produzione dell’olio, la miscela di monocultivar? E il tipo di molitura risulta centrale nella definizione di un prodotto? La Dop è sicuramente importante nella certificazione di un prodotto alimentare. Ma ciò non significa che ne garantisca la storicità). Non solo. Nel delineare una graduatoria qualitativa della produzione olearia del Regno – che non indugia meditativamente sulla Fisiologia del Gusto alla Brillat-Savarin, ma proprio sulla tecnica dell’assaggio (vista e palato) –, Galanti pone al primo posto l’olio del Gargano; al secondo, quello di Vasto. Noi non sappiamo se alla base di tale graduatoria vi sia la specificità della molitura delle drupe (la testimonianza più antica va ricondotta alla Statistica murattiana del 1811 che parla di trappeto a trabocco [lo stesso meccanismo su cui, in seguito, verrà modellato l’ordigno da pesca tipico della Costa dei Trabocchi]). La descrizione che ne dà il Marchesani (Storia, p. 160) è molto dettagliata: «Estraggonsi gli olii ne’ nostri trappeti mercé rozza macchina, della quale il principal pezzo è un tronco smisuratamente grande e lungo, che con l’enorme peso spreme dalle olive racchiuse in sacchi di stuoia l’olio». Certamente alla base va posta una tecnologia scomparsa (documentata iconograficamente negli anni trenta del Novecento da Paul Scheuermeier in Bauernwerk in Italien [trad. it., Il lavoro dei contadini. Cultura materiale e artigianato rurale in Italia e nella Svizzera italiana e retoromanza, Milano, Longanesi, 1980, che raccoglie disegni e foto di 416 località) e, oggi, «archeologicamente» attestata, ch’io sappia, solo ad Altino]. In questo caso, credo, la ricostruzione digitale di un trappeto a trabocco può rappresentare un documento essenziale di una storia delle biodiversità del gusto e della loro costituzione immateriale nel tempo.
Da quanto mi risulta, nessuno di questi materiali è stato utilizzato per la definizione di una Dop (Colline Teatine non sembra avere un fondamento storico, nella misura in cui risulta sfuggente alle poche testimonianze esistenti). Quasi non bastasse, la stessa biodiversità vinicola – cosa incredibile! –, risulta estranea all’indagine storica in questione. Un esempio valga per tutti.
L’art. 87 degli Statuti di Lanciano (1592) recita quanto segue: «Dell’uva. Item è posto et ordinato che non sia persona alcuna, tanto cittadino como forastero, tanto di Feria quanto d’altro tempo, ardisca né presuma vendere altra sorte d’Uva che di Moscatello Pergolo, Uva Pane, Uva donnola, Precoccio et Malvasia […]» (cito dall’ed. di L. Cirulli, Gli Statuti antichi della Città di Lanciano, Lanciano, Q-Rivista Abruzzese, 2001, p. 280). Ora, non entro nel merito di questi vitigni su cui tornerò in altra occasione. Ciò che, al contrario, interessa è un altro elemento. Vale a dire l’annotazione che, tra i tanti vitigni esistenti, la città ne ammette solo cinque (Moscatello Pergolo, Uva Pane, Uva donnola, Precoccio, Malvasia), escludendo gli altri. Sull’uva S. Francesco di Vasto ho già parlato in un altro intervento.
Ecco allora l’aspetto rilevante. Lo statuto in questione lega alla sola commercializzazione del prodotto l’indicazione filogenetica del vitigno. Ancora una volta, dunque, il gusto – espressione dell’assaggio – decide la fortuna commerciale e, di conseguenza, la menzione ufficiale dei prodotti.
Ora noi sappiamo che, sulla base del Libro degli affitti (1747) della Camera Baronale di Castiglione alla Pescara (oggi a Casauria) si pagava l’affitto «per il Moscatello alle Coste di San Felice»; non sappiamo, però, se si tratta della stessa specie di quella menzionata a Lanciano. In ogni caso, nell’un caso o nell’altro, va sempre ricordato che il moscatello, insieme con gli altri vini menzionati a fine Cinquecento nell’Abruzzo meridionale, costituiscono – fino a oggi – la biodiversità agricolo-commerciale più antica dei tre Abruzzi. Ma un altro aspetto va considerato (argomento, questo, già affrontato e che qui sintetizzo): la scoperta agronomica dell’Uva del Vasto. Gli «Atti dell’Accademia Gioenia di Scienze Naturali di Catania» nel T. XIII del 1839, pubblicano una memoria dell’abate-agronomo Giovacchino Geremia che, nella sua Appendice al Vertunno Etneo. Confronto tra le uve etnee e quelle di Napoli, scrive quanto segue: «[Uva] Marocca quasi somigliante a quella del Vasto, ma più rotonda e con acino pingue, a differenza della prima che ha bacche assai grosse» (p. 68). A essa va aggiunta, di Michele Tenore, il Catalogo delle piante che si coltivano nel R. Orto Botanico di Napoli (Napoli, Tip. Puzziello, 1845). Grazie a queste testimonianze – la prima, catanese della prima metà del sec. XIX; la seconda, napoletana – apprendiamo come, sul versante tassonomico, l’Orto botanico di Napoli (istituito nel 1807) fondato e diretto da Michele Tenore (cui si rivolge il Marchesani per la sua informazione nella Storia) accolgano questo vitigno utilizzato dal Geremia per classificare l’altro siciliano –. In definitiva, la tipicità locale (di là dal suo valore intrinseco) diventa uno strumento per la conoscenza generalizzata della specie vitis vinifera.
Un ultimo dato sui vini. Sulla base dei protocolli del notaio vastese del Cinquecento Gio.Battista Robio stipulati tra contraenti del traffico interadriatico ho potuto ricostruire una breve tassonomia valutativa sul gusto (tipica di un sommelier), circa l’antico vino commercializzato: «3 dicembre 1547, 6a ind. vino bono chiaro del vasto alla mesura juxta de dicta terra bruschi e non dolci bono et merchatantesco; 19 marzo 1548, 6a ind. / vini boni et clari; 5 aprile 1548, vini boni meri clarique ac boni coloris et melioris saporis; 21 luglio 1548, vini boni clari boni coloris meliorisque saporis; 12 Januarij 1551, vini boni clari et boni coloris ac saporis; 9 martij 1551 vini boni clari bonique coloris et saporis; Die 9 mensis mai 1551 vini boni clari. Rispetto a questi documenti, il sommelier contemporaneo si troverà di fronte a tali risultati (dal più complesso al più semplice) 1. vino bono chiaro del vasto alla mesura juxta de dicta terra bruschi e non dolci bono et merchatantesco; 2. vini boni meri clarique ac boni coloris et melioris saporis; 3. vini boni clari bonique coloris et saporis; 4. boni clari (ancora un’annotazione: per brusco – come indicato al punto 1 – si intende acidulo, aspro di sapore).
Dopo il vino dovrei parlare dell’aceto. Ma è un argomento ancora in corso di indagine. In questa sede accenno solo al documento più antico rinvenuto, un rogito di notar Gio. Battista Robio datato 1° giugno 1550, relativo alla transazione tra i mercanti vastesi Marcantonio e Ippolito Peppo (venditori) con gli omologhi di Bergamo Andrea Pachielli e Battista de Rubeis e Antonio di Correggio (acquirenti) di una partita di salme 311 di vino e 9 di aceto. Aceto di vino bianco, ovviamente, derivato dalla cultivar di uva S. Francesco e, come già sottolineato in precedenza, destinato alla lavorazione alimentare: scapece e carpisella (o calpisella). Gli inediti Statuti di Vasto del XVI secolo registrano la forma scapece sotto la voce gelatina di pesce (da non confondere ovviamente con la cosiddetta colla di pesce). L’identificazione tra i due alimenti è data dal Libro di cucina del XIV secolo pubblicato nel 1863 (F. Zambrini, Il libro della cucina, Bologna, Romagnoli, 1863), laddove gelatina ecc. è definita schibezia. In questa variante è escluso l’olio ma è presente lo zafferano. Nell’altra trasmessa dall’Anonimo del Quattrocento (in L’arte della cucina in Italia, a c. di E. Faccioli, Torino, Einaudi, 1987) accade il contrario: presente l’olio, assente lo zafferano.
Qui la gelatina è definita schibezo (sull’argomento cfr. L. Murolo, Il libro del brodetto, Vasto, il Nuovo, 2007). In entrambi, determinante risulta l’aceto. Ne consegue che la peculiarità del prodotto vastese rispetto ai ricettari medievali citati sta nel fatto che la tradizione locale di scapece/schibezia/schibezo si trova a utilizzare tanto l’olio quanto lo zafferano.
Tra le specialità preparate dallo chef  Francesco Izzi nel 1966, Vincenzo Buonassisi segnalava il singolare piatto delle carpiselle (in dialetto, carpəsèllə al singolare) che, come già osservato in precedenza, ne sintetizzava così gli elementi costitutivi: «pesce fritto poi marinato con aceto, a cui si aggiunge mosto cotto». Una traccia sicuramente importante. Ma che cosa realmente fosse e come si approntasse, anche in quel periodo doveva risultare conosciuto da pochi. Si dovrà attendere la testimonianza di uno degli ultimi paroni di barca novecenteschi. Così, grazie al monumentale lavoro di Francesco Feola sulle barche da pesca e sui pescatori, possiamo disporre dell’antica formula con cui il parone Antonio Pollutri, nato nel 1905, (fig. 9) realizzava in famiglia la misteriosa carpəsèllə:

Si sceglieva il pesce migliore, merluzzi, seppie, calamari, testoline e triglie, tutto di taglia piuttosto grossa. Fritto il pesce, lo si poneva a strati in una zuppiera o in un barilotto apposito, il cognotto, e fra l’uno e l’altro strato si mettevano mandorle lesse, acini di melograno, pinoli, ciliegie, peperoni, capperi, erbe di scoglio, fagiolini e quant’altro si usava conservare in aceto. Infine, bolliti a parte aceto e mosto cotto (vino dolce cotto) con erbe odorose (rosmarino, salvia, alloro) si spargeva il tutto nella zuppiera o nel barilotto, badando che il liquido fosse ben bollente e che penetrasse fino in fondo al vaso, in modo che tutto il pesce ne diventasse saturo.
(F. Feola, Paranze, Lanciano, Carabba, 1997, pp. 175-176).

Significativa l’attenzione di parone Antonio sui pesci di taglia grossa. Torna in mente la grande tela (cm 260 x 340) di Giuseppe Recco (1634-1695) conservata prima nella quadreria d’Avalos in quel di Vasto – probabilmente commissionata da Diego d’Avalos (₊1697), padre di Cesare Michelangelo (entrambi vissuti nella città) –, poi nel Palazzo di Napoli e, infine, nel 1862, donata al Museo di Capodimonte e esposta nella sala 97 con il titolo Natura morta di pesci ed altri animali marini (in I tesori d’Avalos, Napoli, Fiorentino, 1994, pp. 170-171). Probabile celebrazione dell’alimentazione nobiliare in situ, sottolinea la gràššə (voce dialettale che designa l’abbondanza) tanto quantitativa quanto qualitativa del pescato da esibire sul desco [figg. 10-11]. Rappresentazione, questa, che fa il paio con l’altra descrittiva che il memorialista seicentesco Nicola Alfonso Viti tratteggia in alcuni versi della centuria di ottave Il pescator dolente di cui esiste la sola trascrizione ottocentesca (praticamente originale) dovuta allo storico Luigi Marchesani [fig. 12]: «Con le spigole il cefalo conversa/con maggior pace, o pur col granchio il rombo/Né fu mai canto a le telline avversa/L’avida orata, ò al fragolin lo scrombo» (in L. Murolo, op. cit., p. 19).
(Fig. 11: Giuseppe Recco, Natura morta di pesci ed altri animali marini, particolare)
(Fig. 12: Nicola Alfonso Viti, Il pescator dolente, copia ottocentesca [unica esistente], Vasto, Archivio Storico Comunale)

Ma torniamo sui nostri passi. Oltre a pomodori e agrumi – di cui ho già discusso altrove – non posso sottacere la mortella, il Myrtus communis che occupa una connotazione nell’economia agroalimentare d’ancien régime. In fasi abbastanza recenti (nel secondo dopoguerra) ne conosciamo l’impiego solo in funzione alieutica per la pratica della piccola pesca nell’ortonese (nei fatti, la resistenza del mirto ai bassi fondali della costa adriatica occidentale lo rende utilizzabile per la cattura di polpi e sepppie [sull’argomento cfr. C. Boromeo, La mortella e la mentuccia. Storie di pesca e pescatori, Ortona, Menabò, 2012]). Ma proprio in ragione di questa prassi tipica di aree economicamente depresse, riusciamo a capire quanto, a partire da metà Ottocento, di questa pianta si fosse perso l’interesse per il suo antico valore d’uso.

In un luogo della sua Storia (p. 133), Luigi Marchesani scrive: «Taglio delle mortelle. Parlasi di questo affitto in documenti del 1618; ma sì recente non può tal natura d’introito; invero Ladislao permise nel 1391 imporsi dazio sulla estrazione delle mortelle: queste rendevano ducati 12 e grana 25 nel 1812». Cerchiamo di riflettere su questa affermazione.
Prima di ogni altra cosa il dottor fisico non parlava di mortella sensu stricto, ma del vantaggio economico che l’universitas prima, e il comune poi, poteva trarre dalla raccolta di questa pianta con l’affitto della gabella. Come tutti sanno, con questo termine si intende l’imposta indiretta sugli scambi e sul consumo (lo apprendiamo da un protocollo del notaio vastese Alessandro Fantini del 16 maggio 1611 – vol. IX, a. 60, c. 67 – conservato nella sezione di archivio di Stato di Lanciano e sconosciuto al Marchesani). Dal che si può intendere quanto questo arbusto di macchia mediterranea trovasse rilevanza nei mercati dei prodotti al minuto (nel 1611, sulla base di specifiche capitolazioni di privativa e di contratti di lavoro ad hoc, sei uomini erano destinati all’industria di trasformazione).
Ma se Marchesani ne indicava l’uso, non precisava tuttavia a che cosa servisse. Del resto, per lui e per i suoi contemporanei l’impiego era noto. Non c’era alcun motivo di precisarlo (sarebbe stato un po’ come spiegare a che cosa servisse il grano). Ma proprio perché di quella pratica abbandonata è stata persa anche la memoria va da sé che non ne conosciamo più nemmeno l’antica utilizzazione. Neanche la modalità di raccolta (che, in linea di massima, doveva consistere nel taglio dello stelo, in un breve periodo di appassimento in loco di foglie e bacche, in un successivo scuotimento delle stesse per ottenerne il rapido approvvigionamento). Va da sé che proprio perché l’uso del mirto è ben documentato, dobbiamo presupporne l’utilizzo per le lavorazioni di concia (nei cosiddetti carnariles) – ne parlava Beniamino Laccetti nel 1904 (Pro Vasto industriale e porto alla Penna, Vasto, tip. Zaccagnini, 1904, pp. 9-10), di aromatharia (com’è noto, gli aromathari costituivano nei secoli d’ancien régime parte rilevante del ceto dirigente della città), per uso alimentare (prima dell’avvento del pepe), per la produzione di soluzioni liquorose. Per un brindisi, allora, oltre ai petali di rosa (da cui rosolio), andava aggiunta anche la mortella. E che cosa dire, inoltre, di quel cremor tartaro che, estratto dai grappoli d’uva, serviva anche per la produzione di lievito per dolci? Il solito Beniamino Laccetti, nel testo appena citato (pp. 11-12), ricordava che erano tre, a Vasto, le fabbriche di tale prodotto (quelle di Giustino Cianci, Pietro Cianci, Giuseppe Vicoli). Il che vuol dire fissare già nel secondo Ottocento la completezza del ciclo della pasticceria e della distilleria avviato da Gaetano Celano e reinventato da Gaetano De Luca (1890-1953) [fig. 13], soprattutto sul versante liquoristico al latte [fig. 14], nella prima metà del Novecento, mio nonno materno (insieme con il fratello Luigi), che, formatosi da Caflish a Napoli, avrebbe prima costituito un laboratorio a Campobasso (dove è nata mia madre) e poi a Vasto (leggo sempre con tenerezza la pubblicità dei miei avi sull’«Istonio» del 1908, dove, a proposito del liquore al latte Milka, scrivevano: «Guardarsi dalle contraffazioni») [fig. 15]. Già. Guardarsi dalle contraffazioni. Soprattutto oggi. Ecco, dunque, il tema di fondo: il cibo come dispositivo che, su stesso, ha raccordato un insieme di pratiche diverse (turismo, terroir, protoindustria alimentare) fondatrici di una croissance econonomico-culturale autoctona rimasta confinata nel mercato locale e, per questo motivo, destinata all’inevitabile declino.  

[Fig. 13: Gaetano De Luca (1890-1953)]
Ho discusso del prima. L’oggi mi sfugge. Figuriamoci del poi. Per quel po’ che mi è dato di capire, Scapece allo zafferano di Vasto e carpəsèllə (magari con aceto di vino bianco da uva S. Francesco) potrebbero costituire un momento fondamentale per la ricostruzione di una topicità. Potrebbero … . Ma, per quanto si voglia, la semplice coniugazione al condizionale non ha mai prodotto effetti.


Pubblicato da Mercurio Saraceni