«Ab initio»
Storie di dialetto e di gergo per un «Museo della voce»
di
Luigi Murolo
Sintetizzo
in questo intervento la linea ermeneutica che ho seguito nell’impostazione del corso
su "Fonetica
e scrittura del dialetto di Vasto". Vale a dire, il rapporto tra testi
superstiti del volgare vastese e dialetto con la comunità dei locutori. Sto
pensando di raccogliere le dieci lezioni tenute tra aprile e maggio 2018 in un
volumetto tutto centrato su di un’ipotesi di lavoro: la dittongazione quale
elemento fondante della trasformazione prosodica (cioè, della quantità
sillabica) del latino in dialetto. Ma le dispense fornite ai corsisti esigono
ancora verifiche da compiere sui dialettofoni per avere una campionatura fonologica
più esauriente. Non foss’altro perché possono contribuire alla costituzione di
un «Museo della voce» per la conservazione del patrimonio culturale immateriale
nel contesto della prospettiva demoetnoantropologica. Ab initio, dunque.
Questo
e lu casale / de Santo Agus[t]ino // A. D. 1501 priore F. Bartholomeo et
Ni/colao Sottile et Ag/de Conioso procu/ratore S. Agustini [fig. 1]
Il
lapicida, per la verità, ricorre a due caratteri. Così, se per un verso
utilizza la capitale epigrafica per la forma strettamente in volgare – Questo
e lu casale / de Santo Agus[t]ino –, per la parte restante trasceglie la
gotica. Certo, la struttura in volgare del primo blocco è chiaramente espresso
da quell’esplicito lu aferetico di illum. Ma nel confermare
questa natura linguistica, testimonia, con l’uso congiunto del lemma casale,
l’arcaico funzionamento di un fenomeno fonetico anteriore alla metafonesi3,
nel quale - u finale non modifica la vocale successiva e dove, al
contrario, in fase dialettale, avrebbe richiesto la dittongazione della sillaba
protonica con - u - semiconsonantico, dando corpo al nesso labiovelare -
ua - e alla palatalizzazione di /a/ tonica: lu casale >
lu quasálə. Nello stesso documento, inoltre, si registra l’assenza della
dittongazione di – ō – in sillaba aperta (– il passaggio – ō –› –
àu –) nella parola «procuratore» (in dialetto, prucuratàurə).
Nel
nome del santo, inoltre, registriamo l’avvenuta trasformazione di au- >
a- della sillaba protonica su cui, in fase dialettale, si svilupperà, in
seguito all’aferesi di a-, la spirantizzazione di - g – in
posizione intervocalica: – g – > – h –. Da assumere in sede
locale come la più antica attestazione conosciuta di questo processo, il
vecchio Agustino dell’iscrizione (che continuerà a sopravvivere in forma
latinizzata nei coevi capp. I, 2 e IV, 65 dei citati Statuti)
restituisce, sul piano diacronico, l’esemplificazione di un mutamento
linguistico in atto, comunque anteriore al passaggio, in sillaba aperta, di – ī
– latino (Augustīnu[m]) in – ëi –: – ī – > - ëi
-. Vale a dire, anteriore a ciò che in seguito sarebbe divenuto Augustīnu[m]
> ‘Huštuëinə.
Proprio
a partire dalla spirantizzazione di – g – > – h – va
considerata la pronunzia dialettale di Vasto (preciso meglio: lu Huàśtə
non deriva da il Vasto, ma da lo Guasto, per cui va indicata la
spirantizzazione di – g – intervocalica in situazione metafonetica). È
noto che da sempre è attestato il nome accompagnato dall’articolo. L’esempio
più interessante proviene da Buccio di Ranallo (1294 ca. - 1363) che, nella sua
Cronaca aquilana rimata, recita testualmente (stanza MXXV):
Et
po gero allo Guasto; per forza lo pilliaro,
Occisero
multi homini et tucto lo robaro4.
Lo
Guasto,
dunque. La – g – intervocalica diventa – v – > con l’articolo
– il – (a. 1465: «homini del vasto aymone»5) e si
spirantizza in fricativa in posizione intervocalica (la fricativa – ĵ –
nell’alfabetico fonetico che grosso modo può essere resa con – h – in
una scrittura semplificata). Scrive Gerhard Rohlfs: «Nell’Italia meridionale,
particolarmente in posizione intervocalica, – g – viene pronunciata con
una occlusione molto tenue, e anzi, in talune località, l’occlusione è talmente
debole che si perde completamente, dando in tal caso come risultato la
fricativa – ĵ –. Questo grado fonetico può essere considerato
caratteristico […] dell’Abruzzo»6. Stando così le cose, la
trasformazione fonetica di lo Guasto si presenta nel seguente modo: lu
ĵuåśtə o il che è lo stesso lu huàśtə. Ma che cosa significa tutto
questo? Che, malgrado l’analisi fonologica, si continuerà a scrivere allo
stesso modo: lu Uaśtə, e non lu Huàśtə. Pazienza!
Certo,
la conquista nelle scritture pubbliche e private del volgare (il dialetto
comincerà a comparire letterariamente solo nell’Ottocento), con la possibilità
di cogliere la facies intermedia del rapporto latino volgare/dialetto si
disegna come il risultato della profonda modificazione dell’outillage
mentale che investe la città in periodo aragonese (a partire dalla formulazione
in volgare dei capitula cittadini7 sancita dalla cancelleria
regia). E qui vale la pena sottolineare l’originario træ (tre) in
volgare che sarebbe diventato tra’ in dialetto8 (e
metafonizzato lu trua’). Gli Statuti registrano ancora il volgare
mogelle (cefali) [fig. 2], derivato da un lt. mūgĭle(m),
anteriormente alla conversione di – ge –› – jè – (mogelle
→ mijèllə)9. Così come annotano la presenza del volgare pelusi
(favolli) e non del dialettale pilîusə10 (assenza, cioè, del
cambiamento – ū –› – îu –). Lo stesso documento esibisce il lemma
mondecza (capp. IV, 6 e 14 [figg. 3, 4]). Originato da un lt. immunditĭa(m)
passa per aferesi al volgare mondecza e per assimilazione – nd – > – nn – e – cz – > –
zz diventa in dialetto mənnàttsə (mənnàzzə). La voce
plurale puzzi (cap. IV, 10 [fig. 5]) appare già quasi
dialettalizzata, salvo la metafonizzazione di – i – sulla – u –
successiva. Derivata da un lt. *putĕu(m) >, si trasforma nel
volgare li puzzi per giungere al dialettale li pįttsə (vale a
dire, li pîzzə).
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(Fig. 2: Statuti municipali di Vasto, c. 34 a. Cap. 3, VI: «Del peso del pescio et del vendere de ip[s]o». È sottolineato il lemma mogelle. Vasto, Archivio Storico Comunale) |
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(Fig. 4: Statuti municipali di Vasto, c. 50 a. Cap. 4, XIIII: «De non uctare la mondecza al pale». È sottolineato il lemma mondecza due volte. Vasto, Archivio Storico Comunale) |
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(Fig. 5: Statuti municipali di Vasto, c. 48 a. Cap. 4, XIIII: «De no[n] far[e] bructur[e] in le funtane et puczi». È sottolineato il lemma puczi. Vasto, Archivio Storico Comunale) |
Quasi
non bastasse, non può essere sottaciuto come lo stesso Gustav Rolin, in Die
Mundart von Vasto in den Abruzzen, ricordi un cippuni nel volgare
degli Statuti anteriore all’avvento della dittongazione11. Ma
lo studioso non legge l’originale; cita dal dizionario di Luigi Anelli.
Quest’ultimo,
va detto, si muove in modo del tutto opposto a Gennaro Finamore, autore nel
1880 del Vocabolario dell’uso abruzzese (II ed. 1893). Il ricercatore
vastese, infatti, raccoglie i termini sulla base delle testimonianze letterarie
disponibili, sulla gergalità della parola o sulla sua specificità (e qui non
può essere sottaciuta la sua scelta, significativamente prossima a quanto
recita il titolo di quel Vocabolario delle parole del dialetto napoletano
che più si scostano dal dialetto toscano compilato dalla napoletana
Accademia dei Filopatridi [Napoli, Porcelli, 1789]. Un repertorio lessicale
poco conosciuto, ma di grande importanza per cogliere l’attestazione dei lemmi
locali nel dialetto napoletano con la traslazione degli stessi dalla Capitale in periferia). Come si può ben intendere, una straordinaria
operazione selettiva quella di Anelli (qualitativa, dunque, non quantitativa
giocata sulla diversità dal fiorentino) tendente a sottolineare i caratteri
particolari e originali del thesaurus linguistico. Fin dalla sua genesi,
l’opera è concepita in una prospettiva “autoriale” (o, se si vuole, di
«dialetto illustre») e non d’uso (com’è, appunto, congegnato il dizionario di
Finamore). Da qui, la constatazione che quello di Anelli è un unicum
programmatico di lemmi che, proprio nell’immediatezza del suo costituirsi,
mira, con la scelta dello stesso lessico, alla costruzione di uno spazio
letterario della lénga huaśtaréulə.
E
del sermo parlato dai locutori della città nella fase del volgare?
Sarebbe stato sicuramente accresciuta dalle relazioni commerciali
interadriatiche, ma soprattutto favorito dalla predicazione dei frati
zoccolanti di S. Onofrio che insiste sul ricorso alla lingua della quotidianità
nella pietas ecclesiastica12. A dirla in breve,
l’acquisizione del volgare nelle scripturae ufficiali suggerisce la
possibilità di rileggere, in una prospettiva certamente più articolata, la
stessa storia delle sensibilità che, di per sé, già configura un modo
innovativo di fare storia e, perché no, didattica della scrittura fonetica
dialettale.
A
questo punto vale la pena introdurre un nuovo elemento linguistico su cui torna
utile spendere qualche parola. Si tratta di un registro lessicale speciale,
i cui lemmi inseguo da molti anni ritrovandone, però, un minuscolo gruzzolo.
Tra questi ne ho selezionati alcuni per costruire un ipotetico dialogo tra A e
B su cui avviare quanto meno una riflessione.
A. Bbərżuá’, lu
bbuèrrə d’icrə m’attarunnuètə ddu’ tuarëjjə p’ sbruffujé’. T’ mmì’ li
sbriffijatîrə.
B. Embé Addë’? E’ ‘nu
puachiù’ pi ‘ttà. Miggiuhuàne štá’ aléfəcə cicòria càndə. Ajjə rušcujuétə a la basécchə schininż’a dóppə
lu bbuattucchiuàllə nghə li činìllə arriffaldétə e nghi li čiarabbutta
štaccunuétə. È ‘na vocia dicèndə. E ‘n m’ attarunnuètə ‘nu sguójje. Śtingh’a
gne’ lu sbuolatró.
A. Cullî è‘nu bbuèrrə də hóffiə, bbərżuá’! Ni’
n’d’addarássé’ cchî a àssə. A ‘ssu quaminapiänə j’ attarunnuèmə nî la canàusə.
Nî sémə li ‘mbardëschə.13
Che
cosa stanno dicendo tra di loro i due locutori? Di quale lingua si avvalgono? Siamo
sicuri che sia lénga huaśtaréulə? Per quanto possa apparire bizzarro,
sì. È lénga huaśtaréulə. Con una
precisazione, però. Che ne costituisce un segmento. In effetti si tratta di un
gergo. Di un gergo parlato dai muratori. Non tanto per non farsi capire, quanto
perché risultato dell’adattamento locale di una lingua del nord Italia rimasta
attiva fino a Novecento inoltrato. In buona sostanza mi riferisco a una
comunità di mercanti e di maestranze artigiane dell’area lombardo-ticinese attiva
nel corso del sec. XVI e che qui si stanzia definitivamente. La parlata
alloglotta di cui è portatrice si innesta sulla fonetica del luogo e dà forma a
una neo-lingua che investe una comunità di migranti (si provi a immaginare:
migranti padani nell’Abruzzo meridionale nel Cinquecento quando gli Avalos
erano governatori di Milano!) che, seppur modificata dal sostrato (in primo
luogo dal fenomeno fonologico della dittongazione), mantiene il suo lessico
come tratto distintivo del suo essere vastese. Il gergo è originato da questo
meccanismo. I ghei milanesi – simili a i schei veneti (la moneta)
– diventano isghə o sgujjə nella parlatîurə del luogo.
Questa nuova lingua sarà chiamata in dialetto lu ‘mbuardéschə
– il lombardesco –. A dimostrazione di un fatto: la lingua è
riuscita a permanere anche per quattro secoli nel contesto in cui si sono
stanzializzati. Ma cosa importante per tale ambito è la conservazione di un protocollo
notarile di metà Cinquecento che testimonia l’attiva presenza del nucleo
lombardo-ticinese (appartenente al Ducato di Milano) che opera a Vasto. E’ un
atto rogato da notar Gio.Battista Robio (13 giugno 1551) che legalizza la
nomina del Viceconsole milanese con competenze dal Trigno al Sangro che sancisce
la rappresentanza giuridica di quella comunità nei confronti dell’universitas
e delle autorità viceregnali. Nei fatti, una testimonianza che suggella la
nomina a tale incarico del magnifico Marco Antonio Peppo di fronte ai delegati
di questo gruppo, congregati in assemblea nel chiostro di S. Agostino (chiesa
in cui era presente la cosiddetta Cappella dei Milanesi in cui veniva officiata la
liturgia secondo il rito ambrosiano). Oltre ai nomi, lo scartafaccio segnala la
provenienza dei singoli partecipanti, profilando una sorta di antropologia
geografica dei partecipanti. Questo il testo:
Die
vero XIII mensis Junij [1551]
«In
terra Vasti aimonis et in Claustro vener.lis conventus S.ti augustini ordinis heremitarum
dicte terre in eius publica platea» - congregatis in dicto loco infrascripti
nationis mediolanensium et subditorum Ill.mi Ducalis Dominij mediolani pro ut
dixerunt, in dicta terra vasti commorantibus Cameram facientibus ac facere
volentibus conviserfuerunt videlicet magr. Jacobus chiocchinus, Hippolitus
antonij schivardi, Hieronimus de rona, Martinus dominici de belinzona, joannes
thomas m.i franc. mediolanensis franciscus Schiana, Simon Joannis de belinzona,
Antonius bartholomei, Jac. joannis de pedron, Antonius joannis de belinzona,
Antonius dominici del possino de belinzona, Laurentius gener Sbardelle,
Antonius mag.ri pauli novarensis, Antonius donati de belinzona, joannes alias
vulpes de palanzo, Magr. Dominicus gener capitis grossi, Dominicus beltrami de
valle lucha magr. berardinus antonij de varese Petrus Joannis de belinzona,
mag. Donatus Joannis de belinzona, Dominicus de palanza et Petrus ber.ni del
lago de Como, coram quibus sic per preconem et vocem nuncij congregatis et
radunatis de voluntate tamen ordine et mandato Mag.ci D.ñi Pauli Malcazati
mediolanensis generalis consulis in regno neapolis Ill.mi ducatis Dominij
mediolani et subditorum ipsius presenti et assistentis per eundem Mag.cum
Dominum Paulum consulem generalem ut supra coram nobis et judice Not. et
testibus predictis dictum et positum fuit qual mente havendo se trova esso S.or
Consule esponente in dicta terra del vasto il loco del Viceconsule de dicta
natione vacare per la morte del quondam ms. Carlo di Jo. batta de Jac. de bapta
de dicta terra premortuo volendo sua S.ria in dicta terra di novo viceconsule
provedere have electo nominato et ordinato per vice consule de dicta natione in
dicta terra et dal fiume trigno fino al fiume del Sangro in loco suo et per suo
substituto lo Mag.co ms. Marco ant. peppo de dicta terra licet absente como
presente ad beneplacito pero de esso S.or consule generale. Al quale li prefati
Subditi de essa natione debbiano dare plena obedientia como la persona sua
communicandoli vices et voces suas et le debbiano dare li soliti gagij lucri et
emolumenti et cussi have exortato monito et astrecto li predetti congregati ut
supra lo prefato ms. Marco ant. electo vice consule ut supra vogliano per lor
vice consule acceptare tenere e reputare.14
E
qui per non concludere. Il dialetto corrente come lingua romanza non si
insegna: si parla fin quando ci sarà qualcuno a parlarlo dalla nascita. E fino
a quel momento sarà lingua della verna. Di conseguenza, non esistono
maestri o locutori particolari. Protagonisti e testimoni sono tutti coloro che
in quella lingua ragionano e comunicano (diventandone in questo modo
testimoni). Il declino della lingua storicamente parlata si comincia a
avvertire quando la dittongazione lenisce fino alla sua scomparsa,
riconnettendo la sua fonologia a quella ufficiale. In tal caso, quella locutio
non avrà più la sua funzione di struttura fondante la comunicazione verbale
della comunità. Nella migliore delle ipotesi, può diventare locutio
secundaria – non funzionale a un uso sociale – ma connotativa di gruppi
che, per scelta, intendono utilizzarla. Ma si tratta di un esercizio culturale,
letterario – di per sé importante sul versante della ricerca espressiva (diatopica
e diastratica, sul piano sociolinguistico) – di certo, però, non
coincidente con la socialità di una lingua come il dialetto, che prima di
essere colta è soprattutto d’uso. Una cosa è certa. Nella prospettiva
diacronica, la lénga huaśtaréulə è tale in
ragione della dittongazione – con le procedure metafonetiche di – i – e –
u – protoniche sulla vocale tonica successiva – che ne ha costituito il suo
tratto fonologico distintivo. Una locutio senza tale caratteristica la
si può chiamare come si vuole. Non si sbaglia. Da non confondere però con ciò
che chiamo lénga huaśtaréulə sulla base di quanto definito in
precedenza. In buona sostanza è proprio la lingua che va considerata come
patrimonio culturale immateriale da documentare e conservare in tutte le sue
manifestazioni (non solo foniche, ma anche nelle esperienze fonico/rappresentative).
Dove? In un possibile «Museo della voce» da caratterizzare sul versante dei
beni culturali demoetno-antropologici (che non mi dispiacerebbe realizzare
nell’ambito dell’Istituto per la Storia di Vasto).
Una
cosa voglio ricordare a me stesso. Il dialetto, essendo anche lingua della verna,
non si insegna, si apprende, con tutte le sue nuances, nella casa in cui
si nasce. Possono essere spiegate le forme storiche o quelle letterarie. Al
più, del dialetto si può insegnare la scrittura – o meglio, la trascrizione
fonetica e fonematica dei suoni (questa sì, una tecnica trasmissibile come
tante altre) –. Che cosa significa tutto questo? Che il dialetto, in buona
sostanza, si studia (in modo esclusivo come purtroppo capita oggi per lu
‘mbuardéschə). Qualche volta si ama anche se non lo si è appreso
nell’infanzia o in gioventù. Quando i due piani coincidono vuol dire che ciò
che un tempo era definito sermo humilis può ancora trovare in se stesso la
forza necessaria per continuare a raccontare la storia della comunità che lo ha
reso possibile.
Note
1 Cfr. 1465-1550. Capitoli
del Vasto Aymone in N. F. Faraglia, Il Comune nell’Italia meridionale,
Napoli, Tip. Regia Università, 1883, pp. 292-310.
2 L. Marchesani, Storia
di Vasto, Napoli, Torchi dell’Osservatore medico, 1838 [ma 1841], rist. a
c. di L. Murolo, Vasto, Amministrazione Comunale, 1982, iscr. 132, p. XIX. Lo
storico, in luogo di Sottile, legge Socale.
3 Con metafonesi
si intende quel fenomeno prosodico che consiste nella modificazione del suono
di una parola per l’influenza della vocale postonica finale sulla vocale tonica
4
Buccio
di Ranallo, Cronaca aquilana rimata, a c. di V. Bartholomaeis, Roma,
Fonti per la Storia d’Italia, 1907, MXXV, 1-2, p. 236. Il corsivo è mio.
5
F.
F. Faraglia, op. cit., p. 293.
6
G.
Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti,
vol. I, Torino, Einaudi, 1966, p. 299.
7
I
capitoli del Vasto Aymone 1465-1499, compresi i rescritti aragonesi, sono stati
pubblicati come appendice in C. Del Greco, Origine feudale delle Terre
Redditizie al comune di Vasto e le sue conseguenze, Napoli, s.i.t., 1859,
pp. 1-36. Gli stessi, esclusi i rescritti, ma con trascrizione più rigorosa (e
fino al 1550), si trovano in N. F. Faraglia, op. cit. Sono, tra l’altro,
riportati nel lavoro settecentesco (inedito fino al 2005) di G. de Benedictis, Memorie
Istoriche del Vasto, a c. di C. Marchesani, Vasto, il Torcoliere, 2005, pp.
187-204. Un regesto dei capitoli, inoltre, è stato curato da L. Marchesani, op.
cit., pp. 99-102.
8
Ad
esempio, cfr. Archivio Comunale di Vasto, Statuti Municipali, ms., cap.
3, VI.
9
Ivi.
10
Ivi.
11 G. Rolin, Die
Mundart von Vasto in den Abruzzen, Prag 1908, p. 6. Scrive l’autore: «Anmerkung.
Die Diphthongierung reicht nicht über das seczehnte Jahrhundert zurück; die
ältesten vastesischen Denkmäler weisen
nur einfache Vokale auf: 1503
ceppone Sing – cippuni Plur., heute cippâune – cippìune». Il
testo è conservato presso l’Università di Bologna, Istituto di Glottologia,
Donazione Goidanich.
12
Sull’argomento
cfr. L. Murolo, Le muse fra i negozi. Letteratura e cultura in un centro
dell’Italia meridionale, Roma, Bulzoni, 1992, pp. 119-128.
13
Traduzione: a. Ehi, amico. Quel
ricco signore mi ha una mancia di due tarì per fumare. Guarda i sigari. b.
Ebbene Diego? Per te è una pacchia. Sono senza un soldo. Ho lavorato a quella
casa cadente fin dopo il Mezzogiorno con gli occhi arrossati e con le scarpe
ormai prive di tacco. Lo dicono tutti. Quel tale non mi ha dato nemmeno un
denaro. Sto inchiodato come il buon ladrone. a. Amico, quello è un
pessimo soggetto. Non ti avvicinare più a lui. Questo pidocchio lo faremo
perseguire dalla finanza. Ricordati, noi siamo i lombardeschi!
14 in Regesti
Marciani. Fondi del notariato e del decurionato da area frentana (secc.
XVI-XIX), vol. 7/III, a c. di C. Marciani, L’Aquila, Japadre, 1989, pp.
252-253.
15 Cfr. L.
Marchesani, op. cit., p.18.
Pubblicato da Mercurio Saraceni
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