Il «giallo» della mummia: historia singularis
di
Luigi Murolo
Chissà
se si potrà ancora conoscere la vicenda paleopatologica di Iñigo III d’Avalos (1578-1632), V marchese del Vasto e
VI di Pescara. La sua mummia, tumulata nel 1905 nella Chiesa di S. Maria
Maggiore, non ha consentito fino a oggi di offrire alcuna indicazione sulla storia
biologica del personaggio e sul suo decesso (fig. 1).
(Fig.
1:
Vasto, chiesa di S. Maria Maggiore. La tomba di Iñigo III d’Avalos)
Quella
sepultura secunda, insomma, avendo eliminata
la necessaria custodia del corpo in una teca esterna (e non con una tumulazione
come di fatto è avvenuto), ha forse determinato la rimozione di possibili informazioni
sulla biografia organica di un soggetto dell’alta nobiltà napoletana non vissuto
nella capitale, ma sempre nella città di cui era stato signore feudale. Per la
stessa ragione, avremmo difficoltà di sapere con certezza se tale mummia fosse
risultata l’effetto di un processo di mummificazione naturale o artificiale. C’è
da presuppore (vale la pena ribadirlo: parlo di «presupposizione») che il corpo
abbia subito un trattamento assimilabile al secondo tipo, anche se diverso
nella procedura. C’è da dire, infatti, che le indagini sulle mummie aragonesi di
San Domenico Maggiore a Napoli1 (esaminate tra il 1984 e il
1987), testimoniano l’eviscerazione “volontaria” con una lunga incisione
anteriore dal giugulo alla sinfisi pubica – e, dunque, ricerca di artificialità
–2, da parte dell’aristocrazia partenopea tra Quattro e Cinquecento.
Ma
andiamo per ordine. Di Iñigo, infatti, conosciamo tutta la sua pratica feudale
grazie al testamento in favore del figlio Ferdinando Francesco reso esecutivo
dall’atto rogato a Vasto l’11 maggio 1633 da notar Alessandro Fantini3. Siamo
informati delle disposizioni da lui dettate sulla sua sepoltura. Così il notaio
ne verbalizza le parole: «Il Corpo mio voglio si seppellisca nella chiesa di
Santo Thomaso d’Aquino morendo in Napoli, et morendo nel Vasto se depositi
nella chiesa de Padri di S.to Domenico del Vasto per trasferirsi in detta
chiesa di Santo Thomaso d’Aquino dal mio herede, vero o vero exequtore del mio testamento con
la magior brevità possibile»4. Ma se questo è vero nulla possiamo dire sulle
cause di morte. Il testamento viene redatto molto prima e reso esecutivo il
giorno della morte. Ci si trova di fronte alla lettura dell’atto. Ma ignoriamo
tutto del suo status sanitario, a
differenza del figlio Diego, secondo nella successione al titolo e divenuto
marchese alla morte del fratello Ferrante Francesco. Sicché una domanda diventa
lecita: siamo sicuri che sia deceduto per cause naturali o altro? Un episodio violento
di qualche tempo prima non si può trascurare. E potrebbe (e ribadisco il
condizionale) indurre a ipotesi forzate. Da questo punto di vista, non si può
non ricordare la vicenda relativa all’efferato omicidio della cugina Maria
d’Avalos e dell’amante Fabrizio Carafa a opera del marito Carlo Gesualdo di
Venosa. E, poi nemmeno si può sottacere il delitto perpetrato nei confronti di Pietro
di Guevara, signore del Vasto e Gran Siniscalco del Regno, viene assassinato in
città per mano di un mandante del re Ferrante I d’Aragona che nei suoi piani, aveva
deciso di liquidare fisicamente tutti i suoi avversari partecipi della seconda Congiura dei Baroni (1485-1486). Il
sovrano aveva deciso di raggiungerli a uno a uno e di sopprimerli. Così il
sicario, Iacobo Conte, riesce nell’impresa avvelenando il Guevara sempre a
Vasto con un bicchiere di lemoncello il 17 settembre 14865. L’episodio
è sconosciuto alle cronache locali. L’unica fonte documentaria rimane quella del
cronista quattro-cinquentesco partenopeo conosciuto come notar Giacomo che
includeva la notizia nella sua Cronica di
Napoli (il testo viene pubblicato solo nel 1845). Il codice originale,
conservato a Napoli presso la Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele III (Ms. Brancacciano II.F.6)6, rende
nota una vicenda taciuta al tempo del regno e appena trapelata in quello
vicereale.
Ora,
dopo questa parentesi molto ipotetica, torniamo al racconto interrotto e proviamo a vedere che cosa scrive Luigi
Marchesani nel suo opus magnum
(l’anno è il 1841), che precede di quattro anni la pubblicazione della
menzionata Cronica partenopea. Il
testo recita: «Stanno in S. Maria due cadaveri imbalsamati; l’uno rinvenuto
dentro il muro del vecchio Coro, è di bambino; l’altro da’ nostri Domenicani
custodivasi, e vogliono che sia Innico d’Avalos […]»7. Ma mentre
descrive la scena sul personaggo adulto, tacendo del fanciullo, si lascia
andare al seguente interrogativo: «perché non Tommaso, il quale di Domenicano
divenne Vescovo di Lucera, e trapassato colà nel 1643, ne fu il cadavere qua
recato?»8. Dunque, si faccia attenzione: il dottor fisico parla
della salma di un d’Avalos – per di più quintogenito di Iñigo, aggiugo – traslata
dall’omonima sede diocesana in una chiesa dello stesso ordine cui apparteneva.
Per quale ragione non sarebbe dovuta essere la sua? Qual è allora la risposta che
fornisce don Luigi? Iñigo o Tommaso? Padre o figlio? Con grande correttezza (non
conoscendo la sepoltura di Tommaso nella chiesa di S. Angelo a Serracapriola
perché la credeva a Lucera) Marchesani non propende per nessuno dei due: molto
più semplicemente, si limita a porre un problema relativo all’acritica
accettazione di notizie non verificate. In tal senso, fermi restando alle lucide
procedure argomentative del dottor fisico non si potrebbe pensare anche alla
possibilità del corpo assassinato di Pietro di Guevara? Già. Chi potrebbe
negarlo in assenza di dati certi? Potrebbe essere qualsiasi membro dell’alta
nobiltà napoletana legato in qualche modo alla città. Ma qualcuno potrebbe
dire: non è forse vero che i domenicani si insediano all’Annunziata di Portanuova nel 1523, quasi quarant’anni dopo la morte
dell’illustre congiurato, signore della città? In quale singolare modo
potrebbero essere conciliate quelle due date? Niente di più semplice. A detta
del memorialista seicentesco Nicola Alfonso Viti, chiesa e ospedale preesistevano
all’insediamento dell’ordine nella Terra del Guastaimone. Venivano solo ceduti
allo stesso per cosentirne l’ingresso nell’universitas.
Stando così le cose, un passaggio di tanta rilevanza avrebbe potuto permettere di «nascondere» (?)
per sempre, in un tempio periferico rispetto alla platea civitatis, un corpo così politicamente ingombrante.
Ora,
mi chiedo: ha senso continuare in questo modo? Di tale passo possiamo sostenere
ciò che vogliamo. A nostro piacimento: e per di più senza tema di essere
smentiti. Con quale risultato? Lo si può ben immaginare (in questo senso, cade
la stessa ipotesi di morte violenta). E poi – per tornare al nostro problema –,
che cosa possiamo dire di quella mummia se ignoriamo perfino la certezza della
sua naturalità o “artificialità”? Fin qui una parte della questione. L’altra potrebbe
essere del seguente tenore: perché mai la «cosa» imbalsamata sarebbe dovuta
essere traslata e perché proprio nella chiesa di S. Maria Maggiore? Per la
soppressione e per la vendita a privati del convento dell’Annunziata nel 1808, ha
scritto Luigi Anelli (ben sapendo che sull’argomento Marchesani non spende
nemmeno una parola). Bene. Ma se così fosse stato, perché trasferirla in alto,
addirittura in un «soffitto»?9 In buona sostanza, dovremmo riuscire
a congetturare che un «qualcuno» (non si sa chi e a quale titolo) si sia
ingegnato per spostare la mummia da un luogo a un altro per poi lasciarla «a
disposizione dei topi ed a ludibrio di visitatori volgari, che avevano piena facoltà
di far scempio di quel corporeo seccume?»10. Che strano! Ma ammesso
e non concesso: per quale motivo un cadavere “ritrovato”, – anche in quel tempo
– non sarebbe dovuto essere deposto in basso, nel cosiddetto charnier (ossario), allocato al di sotto
del pavimento della chiesa? (l’ingresso è oggi visibile). C’era forse qualche
ragione che ostava a un trasferimento così ragionevole e normale? Non vi sono
dubbi: in questo caso, con Anelli, i conti non sembrano davvero tornare, benché
una spiegazione esista e si vedrà poco più avanti.
Una
cosa va detta. Non sempre un’impostazione di ricerca tutta interna alla storia
della città o, in linea di massima, tendente alla lectio facilior può dare risposte coerenti. Occorre che un’ipotesi
esplicativa debba soddisfare tutte le condizioni poste dalla domanda. Senza
questa regola aurea, difficile poter trovare risposte adeguate. Che cosa accade
nel nostro caso?
Resta
solo un dato: quello che vede lasciare il «giallo della mummia» irrisolto,
soprattutto se si decide di confrontare il caso specifico con l’altro delle
mummie d’Avalos conservate nella sacrestia di S. Domenico Maggiore a Napoli. Nell’impossibilità
di stabilire la datazione scientifica con 14 C ±60 (ciò che è stato fatto con
quelle napoletane e con quelle naturali abruzzesi di Torricella Peligna e delle
altre esposte a Chieti nel Museo di Scienze
Biomediche [2006])11, occorre trovare un diverso percorso storico
che sappia quanto meno spiegare la doppia localizzazione dello stesso corpo. Da
questo punto di vista non si può che
seguire la strada ad hoc indicata da
Philippe Ariès, il massimo studioso contemporaneo del problema in questione:
Ora,
nel Seicento, la sepoltura in due tempi, se resta rara, non è più sconosciuta.
Ci sono anche esempi illustri in cui un medesimo corpo riceve due sepolture
successive, tra cui intercorre il tempo in cui le carni si consumano: la tomba
definitiva in cui le carni si consumano: la tomba definitiva è quella delle
ossa o del corpo scarnificato. Pare che la pratica, in un primo tempo, fosse
riservata a personaggi illustri, senza peraltro diventare generali nelle
famiglie reali. A Malta era prevista per i grandi maestri dell’ordine12.
In
questo brano, Ariès parla del cosiddetto putridarium, il più famoso dei
quali in Italia è quello delle clarisse di Ischia, feudo degli Avalos (anche
questa una singolarissima relazione da non sottacere). Ma in che cosa consiste
questo organismo funerario? È ciò che
può essere definito «cimitero provvisorio» in cui in una cripta, scranni in
pietra o in muratura dotati di un piano di seduta con foro centrale e vasca
sottostante, ospitavano temporaneamente i cadaveri dei defunti per consentire
il completo deflusso e la raccolta dei liquidi della putrefazione. Una sorta di
breve pratica di «purificazione» dei corpi che accompagnava la purificazione
dell’anima. Concluso il processo di colatura i resti «essiccati» venivano transitoriamente
deposti in un’arca prima della definitiva tumulazione. A titolo esemplificativo,
presento alcune foto da me scattattate nel putridarium dell’Annunziata
di Avola (Siracusa):
(Fig. 3: Avola, Chiesa
dell’Annunziata: il Putridarium. Particolare dei sedili
con foro al centro e sottostante vasca per la raccolta dei liquidi cadaverici.)
con foro al centro e sottostante vasca per la raccolta dei liquidi cadaverici.)
(Fig.
4:
Avola, Chiesa dell’Annunziata: il Putridarium. Arche transitorie per
la
deposizione temporanea dei corpi «scolati»).
Stando
così le cose, il passo citato di Ariès spiega due aspetti: in prima istanza, la
datazione (il sec. XVII), con quella di Iñigo III (e anche con quella di Avola,
aggiungo); in seconda, la doppia sepoltura (la definitiva). Lord Spencer, un
epistolografo settecentesco citato da Ariès, racconta quanto accadeva
nell’allora celebre cimitero delle mummie dei francescani di Tolosa:
Domandai
a quei buoni padri con che mezzi potevano salvaguardare quei corpi [la tecnica dei francescani era apprezzata, e
questo procurava loro una folta clientela. Nota di Ariès]. Mi dissero che
cominciavano col sotterrarli in una certa terra che consumava la carne; poi li
esponevano all’aria [senza dubbio in una
sala del campanile (…). Nota di Ariès]. […] Mentre il monaco mi parlava,
vidi arrivare altri frati che scendevano dal campanile con corpi morti sulle
spalle; l’aria aperta aveva tolto a questi cadaveri qualunque cattivo odore e
ne dedussi che il buon francescano mi aveva detto la verità13.
Grazie
alla lettera di Lord Spencer a Mme. Dunoyer menzionata da Ariès riusciamo a
capire, di là dalla procedura seguita per l’imbalsamazione del corpo nella chiesa
dell’Annunziata di Vasto, il perché della successiva deposizione nella torre chiesa
di S. Maria Maggiore di Vasto. Solo che – non dimentichiamolo – avviene due
secoli più tardi: agli inizi dell’Ottocento. Una pratica davvero singolare ove
si consideri il lunghissimo tempo trascorso dall’essicazione dei liquidi
cadaverici.
Ora
non sappiamo se la tumulazione di inizio Novecento – segnatamente del 1905 – ha
distrutta la possibilità di un’indagine paleopatologica (comunque, aggiungo per
inciso, varrebbe la pena tentare se è vero che il corpo di S. Rosa di Viterbo è
stato sottoposto a indagine paleopatologica dalla sezione di Antropologia dell’Università
di Chieti14 così come il corpo del frate minorita, beato Lorenzo da
Villamagna)15. Eppure nel 1902 l’individuazione di un accesso a un
sotterraneo del castello dell’Aquila aveva portato allo scoperto decine di
corpi mummificati. Una tavola di Achille Beltrame (in controcopertina) per la
“Domenica del Corriere” che rende di pubblico dominio il senso scientifico del
ritrovamento16. Malgrado questo precedente importante che escludeva
la tumulazione, a Vasto si procedeva in senso inverso, evitando la custodia della
mummia di Iñigo d’Avalos. In aggiunta a ciò va osservato che Antonio De Nino,
nell’epigrafe da lui dettata per il mantenimento della stessa salma nel Gabinetto archeologico della città,
aveva chiaramente osservato la natura “artificiata” di quel corpo e ne voleva
affidare la conoscenza alla scienza17. Purtroppo la polemica
ingaggiata da Anelli con la Confraternita del SS.mo di S. Maria, proprio perché
legata esclusivamente al luogo di sepoltura (museo non chiesa) – vale a dire al dove,
non al come –, induceva le autorità a
ordinare la tumulazione in chiesa. Con questo atto, il «giallo» della mummia
trovava il suo definitivo compimento.
Un’ultima
considerazione. Il precedente riferimento alle mummie d’Avalos conservate nella
sacrestia della chiesa di S. Domenico Maggiore esige un chiarimento. In
effetti, sono ben quattro i corpi mummificati della famiglia marchesale presenti
nelle arche aragonesi: Maria d’Avalos d’Aragona (1503-1568) moglie di Alfonso,
marchese del Vasto nell’arca contrassegnata con il n. 6; Francesco Ferdinando
d’Avalos (1489-1526), marchese di Pescara e marito di Vittoria Colonna,
comandante generale delle truppe imperiali nella battaglia di Pavia (1525) con
la tomba contrassegnata dal n. 11; Giovanni d’Avalos (1538-1586), nell’arca
contrassegnata con il n. 6 e Cesare d’Avalos (1536-1614) nella n. 33, figli
della stessa Maria. Tra questi resti, però, l’attenzione cade sul sarcofago di
Maria d’Aragona d’Avalos (fig. 5), il cui corpo è stato oggetto di
indagine paleopatologica (fig. 6), oltre al fatto che presentava in
buone condizioni il sontuoso corredo funerario: copricapo in garza di lino,
camicia di lino con collo e polsi ricamati, scarpe di velluto marrone scuro e
la «gonnella» con il corpetto in taffetà ornato con motivi a sviluppo longitudinale
che presenta una lunga allacciatura laterale, la gonna in gros avorio rifinita
nel bordo con una fascia di velluto intagliato (fig. 6) (notizie desunte
dalle schede informative senza indicazione dell’autore).
(Fig.
5: Agnolo
di Cosimo detto Agnolo Bronzino,
Maria di Milano e d’Aragona,
Maria di Milano e d’Aragona,
Margravia di
Vasto e di Pescara, 1531-1533. Olio su tela,
Städelsches Kunstinstitut, Francoforte sul
Meno)
(Fig.
6:
Napoli. Sacrestia della chiesa di S. Domenico Maggiore:
la mummia di
Maria d’Aragona d’Avalos)
(Fig.
7:
Napoli. Sacrestia della chiesa di S. Domenico Maggiore:
la «gonnella»
di Maria d’Aragona d’Avalos
recuperata dalla mummia.)
Della
nobildonna si conosce la partecipazione ai gruppi culturali e riformatori di
Giulia Gonzaga e della cugina acquisita Vittoria Colonna. Governatrice di
Benevento dopo la morte del marito Alfonso nel 1546. Importanti le relazioni
epistolari con il cardinale Gerolamo Seripando, priore generale degli
Agostiniani, tra i protagonisti del Concilio di Trento. La frequentazione del
suo confessore, il domenicano Michele Ghislieri salito in seguito al soglio di Pietro
con il nome di Pio V. L’amicizia con il riformatore spagnolo Juan de Valdés e
con gli eretici italiani Pietro Carnesecchi e Bernardino Ochino. Ma ciò che
interessa sottolineare in questa sede è l’infedeltà del marito Alfonso d’Avalos18,
cagione molto probabilmente dell’infezione da lei contratta e riscontrata
dall’indagine paleopatologica sulla mummia condotta dall’antropologo Gino
Fornaciari, i cui esiti sono qui di seguito riportati per esteso:
Particolare
interesse paleopatologico riveste lo studio di un caso di treponematosi,
riscontrato nella mummia di Maria d’Aragona (1503-1568), marchesa del Vasto
[…]. La nobildonna, importante esponente del Rinascimento italiano e nota fra i
contemporanei per la sua bellezza, fece parte del famoso circolo intellettuale
e letterario di Ischia, il cui esponente più importante fu la poetessa Vittoria
Colonna, amica di Michelangelo. Il braccio sinistro del corpo mummificato
mostrava un’ulcera di 15 x 10 mm, coperta da una fasciatura di lino con
intercalate alcune foglie di edera (Hedera helix). L’immunofluorescenza
indiretta con anticorpo umano anti-Treponema pallidum permise l’identificazione
di un gran numero di filamenti dotati di un’intensa fluorescenza giallo-verde e
con le caratteristiche morfologiche di treponemi fluorescenti. La microscopia
elettronica inoltre permise l’osservazione di alcune strutture tipiche delle
spirochete come, per esempio, la fibrilla assiale. In tal modo i reperti
immunoistochimici ed ultrastrutturali dimostrarono chiaramente un’infezione da
treponemi; più in particolare l’ulcera cutanea può essere considerata il
risultato di una gomma luetica al terzo stadio e un quadro di sifilide venerea
costituisce la diagnosi più probabile.
La scoperta è importante in quanto si tratta
di germi che risalgono al XVI secolo e il cui studio potrebbe chiarire non
pochi aspetti della biologia del Treponema, e forse anche l’origine della sifilide
venerea, nella “fase epidemica” della malattia19.
Non
c’è solo quadro clinico nella ricognizione mummiologica, ma soprattutto la
storia di una vita. Qualcosa di intimo che il soggetto analizzato non avrebbe
mai pensato di poter un giorno rendere pubblico. In ogni caso l’esame è
decisivo per profilare, oltre alla vicenda epidemiologica, l’antropologia
culturale dell’aristocrazia napoletana del Rinascimento. Dei rischi che può
attraversare allo stesso modo delle classi subalterne – o se si vuole, del Terzo
stato –. La conservazione del corpo per il viaggio ultraterrenno non è solo
purificazione dal deperibile, dal transeunte – o ancor meglio, dal trionfo
della morte del cimitero di Pisa o di Palazzo Abattellis di Palermo –. È soprattutto
l’esibizione del suo contrario. Il riconoscimento, cioè, dell’essere «umano,
troppo umano». Gli ingegni dell’anatomia macabra che guardano all’eternità da
raggiungere sulla terra nascondono, non cancellano l’itinerario
mondano. Ciò che interessa la storia. Del resto, è stato Ernst H. Kantorowicz a
parlare de I due corpi del Re20, il luogo dove
contemporaneamente si manifesta tanto il corpo materiale, mortale, soggetto
alle malattie del sovrano quanto il suo corpo politico, immateriale,
incorruttibile. L’ambito, cioè, in cui si gioca la partita tra la persona
ficta (umana) del Re e la sua dignitas, intangibile, che decide la
legittimazione del potere. Nella mummia coesistono i due corpi del Re. L’uno
diventa immediamente rappresentazione dell’altro. Una figura, questa,
perseguita dai sovrani aragonesi di Napoli. Non dimentichiamolo. Nonno della
Marchesa del Vasto Maria d’Aragona d’Avalos è stato Ferrante
I d’Aragona, re di Napoli dal 1458 al 1494 (lo stesso monarca che, come si
è detto, nel 1486, aveva fatto assassinare a Vasto Pietro di Guevara, signore
della città). Una catena che lega Maria e gli Avalos alla tradizione aragonese
della mummia. E che cosa dire del vastese Iñigo III d’Avalos che per avo
(bisnonno) aveva avuto re Ferrante I d’Aragona? Che anche lui aveva seguito gli
indirizzi funerari della prosapia aragonese.
La
mummia, dunque. Il che vuol dire: i resti di un uomo che potrebbero diventare
spiegazione paleopatologica di un mondo.
Note
1 G. Fornaciari, Le
mummie aragonesi in San Domenico Maggiore di Napoli, in
«Paleopatologia.it», 20 febbraio 2008.
2 Viene qui
riportata la bibliografia scientifica sull’argomento: Fornaciari G., Castagna
M., Tognetti A., Tornaboni D., Bruno J., Syphilis tertiaire dans une momie
du XVIe siècle de la basilique de S. DomenicoMaggiore à Naples: étude
immunohistochimique et ultrastructurelle in Advances in Paleopathology,
Proceedings of the VII European Meeting of the Paleopathology Association
(Lyon, September 1988) in «Journal of Paleopathology Monographic Publications»,
n. 1, 1989, pp.75-80; Fornaciari G., Castagna M., Tognetti A., Tornaboni D.,
Bruno J., Treponematosis (venereal syphilis ?) in an Italian mummy of the
XVI century in «Rivista di Antropologia», 1989, pp. 67, 97-104; Fornaciari
G., Castagna M., Tognetti A., Tornaboni D., Bruno J., Syphilis in a
Renaissance Italian Mummy, in «Lancet» 1989; Fornaciari G., Castagna M.,
Naccarato A.G., Viacava P., Bevilacqua G., New observations on a case of
treponematosis (venereal syphilis?) in an Italian mummy of the 16th century,
in L’origine de la Syphilis en Europe - Avant ou après 1493?, Paris,
Errance, 1994, pp. 206-210; Viacava P., D’Alessandro A., Fornaciari G., Studio
ultrastrutturale di un caso di sifilide in una mummia del XVI secolo, in
«Bollettino della Società Italiana di Paleopatologia» 1997, n. 1, pp. 121-126.
3 Archivio di
Stato di Lanciano, Alessandro Fantini, Protocolli 1633, vol. XXVII, cm
27,2 x 20,5, cc. 51-66.
4
Ibid., c. 51 a.
5 Cronica di
Napoli di notar Giacomo, a c. di P. Garzilli, Napoli, Stamperia Reale,
1845, p. 160: «A di XVII de sectembro 1486. Lo illustre Signore don Petro de
Ghiuara gran senescallo del regno secundo piacque a Dio fo morto al Guasto
Aymone sua terra dixesse essere stato aduenenato con uno lemoncello per Iacobo
Conte lo quale stato hebbe la Maestà del Signor Re».
6 Ivi.
7 Cfr. L.
Marchesani, Storia di Vasto, a c. di L. Murolo, Vasto, Amministrazione
Comunale, 1982, p.170.
8 Ivi.
9 Cfr. L. Anelli,
Ricordi di storia Vastese, Vasto, Tip. Anelli, 1906, p. 93.
10 Ivi.
11 Per l’ampia
documentazione nella regione cfr. Mummie in Abruzzo, a c. di M. Urso, in
Mummie: un archivio biologico, Chieti, Museo di storia delle scienze
biomediche, 2006, pp. 17-34.
12 Ph. Ariès, L’uomo
e la morte dal medioevo a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1980, p. 445.
13 Ibid.,
p. 447.
14
Cfr.
Vent’anni di studi sulle mummie a Chieti, a c. di R. D’Anastasio, in
Mummie: un archivio biologico, Chieti, Museo di storia delle scienze
biomediche, 2006, p. 35.
15 Cfr. Mummie
in Abruzzo, cit., p. 35-39.
16 Cfr. Ibid,
cit., p. 23-26.
17
L’epigrafe,
mai realizzata, recitava testualmente: «Innico III d’Avalos / figlio di Cesare e di Lucrezia del Tufo / V
marchese del Vasto / cessò di vivere il XX novembre MDCXXXII / L’arte medica
preservò il suo corpo da corruzione / la tradizione giudicò non incorrotti i
suoi costumi / la storia ricorda la Loggia di Torricella, il Baluardo di
Portanova, la Villa Cipressi, il Palazzo della Penna / da lui fatti erigere /
con esaurimento dell’erario pubblico / La gente di cuore biasimò la
profanazione della sua tomba / riaffida quei resti mortali alla scienza / nel
patrio Gabinetto Archeologico / oggi …». In
L. Anelli, op. cit., p. 170.
18 Sull’argomento
cfr. G. Alberigo, Aragona Maria d’, in Dizionario Biografico degli
italiani, vol. III, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1961, alla
voce.
19
G.
Fornaciari, Le mummie aragonesi in San Domenico Maggiore di Napoli, cit.
alla nota 1.
20 Cfr. E. H. Kantorowicz, I due corpi
del Re, Torino, Einaudi, 2012.
Pubblicato da Saraceni Mercurio
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