(Paranze tra la spiaggia e Scaramuzza) |
TRA PASSATO E PRESENTE: D’UN PORTO MANCATO E D’ALTRE STORIE
di
Luigi Murolo
31
dicembre 1931. L’ing. Verdinois di Roma presenta al podestà di Vasto, Pietro
Suriani, il progetto di un braccio a mare da realizzare all’inizio della
scogliera, nei pressi della spiaggia. Si tratta dell’ipotesi di una diga a
protezione della Marina di Vasto – ma, a tutti gli effetti, un porto-rifugio –
che, nella seduta del 28 settembre 1931, il Consiglio Superiore dei Lavori
Pubblici aveva respinto proponendone una radicale modifica. Che si trattasse,
nella fattispecie, di un porto-rifugio («ricovero utile per la flottiglia da
pesca»), l’apprendiamo dal periodico quindicinale «Il Corriere della pesca» (15
marzo 1940) che, poco prima dell’entrata in guerra, spinge ancora sullo stesso
tema. Il breve articolo comparso sull’organo ufficiale dell’industria ittica è
significativo perché precisa il punto di vista dell’organizzazione nazionale di
settore. Per tale ragione, ne riporto l’originale (fig. 1):
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(Fig. 1: «Il Corriere della Pesca», 15 marzo 1940) |
Come
si può notare, l’organo di stampa associa la crisi della pesca locale (che
implica la caduta verticale della flottiglia peschereccia) all’assenza di uno
scalo sicuro per le barche. Nei fatti, non interessava più il porto, ma un attracco
in grado di tutelare il piccolo naviglio. In quegli anni era svanita l’idea di
riuscire a costruire un porto a Punta Penna. Mancavano i finanziamenti. La
ragione della localizzazione alla Marina stava nel fatto di poter utilizzare,
in contemporanea, le risorse da destinare alla messa in sicurezza della collina
di Casarza allora in frana (vale la pena ricordare che, già nel marzo 1920, il
deputato socialista Mario Trozzi aveva presentato un’interrogazione
parlamentare per la realizzazione di un porto rifugio a Scaramuzza). Proviamo a
vedere il progetto redatto dall’ing. Verdinois (fig. 2):
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(Fig. 2: Il progetto Verdinois: 31 dicembre 1931) |
«[…]
la costruzione di un molo a due bracci per difesa del mare della spiaggia di
Vasto e per formazione di un rifugio per piccole navi non offre sufficienti
garanzie di contenimento dei due scopi per i quali l’opera viene proposta e che
quindi il progetto in esame debba essere modificato tenendo presente che
risultati più sicuri si potranno conseguire con la costruzione di una diga
parallela al lido isolata in mare».
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(Fig. 3) |
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(Fig. 3b) |
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(Fig. 3c) |
La
relazione che blocca la costruzione del porto-rifugio.
Su
di una foto del giugno 1912 (che devo all’amico Beniamino Fiore) ho
sottolineato i due punti interessati dal progetto: Scaramuzza per il molo, Il
Trave per la scogliera artificiale. Come si può notare, la realizzazione della
struttura avrebbe disarticolato il paesaggio storico (fig. 4). L’ultima
foto indica l’attuale trabocco (ricostruito) che sarebbe dovuto scomparire per
dare posto alla scogliera di cui si è parlato (fig. 5).
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[Fig. 4: Scaramuzza vista dalla Stazione: giugno 1912 (collezione Beniamino Fiore)] |
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(Fig. 5: Località Trave: il trabocco) |
Ecco.
A distanza di una novantina d’anni da quella data si riesce a capire come il
controllo dello Stato centrale nei confronti delle periferie abbia mantenuto
una certa tutela del territorio. Per quanto importante, la riforma del Titolo V
della Costituzione ha dato una forte autonomia ai comuni, non sempre adoperata
con la necessaria misura. E dobbiamo, anzi, alla stretta relazione tra centro e
periferia e alla loro conflittualità se molte assurdità proposte non hanno
trovato il disastroso compimento. Penso, ad esempio, nel rapporto inverso, che
cosa sarebbe accaduto se, nel 1982, avessero trovato attuazione le direttive
del IV PEN che prevedevano a Punta Penna la messa in cantiere di una
megacentrale termoelettrica a carbone con quattro unità standard dalla potenza
di 640 Mw ciascuna! Sarebbe stata cosa fatta con la linea industrialista a
oltranza di DC e PCI in quegli anni, con il MSI che, dall’opposizione, sosteneva
la “bontà” del nucleare contro il carbone. Solo l’attività di una piccola
associazione come «Italia Nostra» (in cui allora era maturata l’ipotesi della Riserva
speciale di Punta Penna, istituita nel 1998 come Riserva naturale regionale
di Punta Aderci [e non d’Erce]) denunziava, insieme con proposta
alternativa della Riserva, la violenza distruttiva di quell’ecomostro
con tutto il paradigma economico-culturale di cui era portatore. Del resto, non
credo che fossero in molti a discutere quel Rapporto sui
limiti dello sviluppo (il cosiddetto Rapporto Meadows)
del 1972, che trovava il totale disinteresse (per non dire la massima ostilità)
del ceto politico di quegli anni tutto proteso a esaltare le «magnifiche sorti
e progressive» dell’industria o di qualcosa che semplicemente «fumasse» (a tal
proposito vale la pena ricordare che nel 1971 già era stato avviata la
procedura per l’istallazione di una centrale
termoelettrica a olio combustibile sempre in quel di Punta Penna. Frenata perché
concomitante con la lotta ambientale sostenuta Italia Nostra di Lanciano e
politica del PCI contro la Sangro Chimica (Società per azioni rogata il
21 marzo 1971 dal notaio Germano De Cinque, allora presidente
dell’Amministrazione provinciale DC di Chieti. SpA, dunque, che vedeva il
consiglio di amministrazione così composto: Antonio Genovesi, assessore
provinciale DC ai lavori pubblici, Domenico Tenaglia, assessore provinciale
all’Igiene e Sanità, Mario Pennetta, segretario provinciale della DC, Giustino
Battistella, consigliere comunale DC di Lanciano, Antonio Gaspari di Gissi). Evidente,
insomma, la dura risposta del PCI, tesa a privilegiare il primato dell’agricoltura
nei confronti dell’industria chimica ritenuta non compatibile con il settore
primario e, di conseguenza, distruttiva. Come si può ben intendere, nessun paradigma
ambientalistico o paesaggistico alla base di quello scontro. Come direbbero i
francesi: «Politique d’abord, l’intendance suivra». Con un’aggiunta: che,
in seguito, alla crisi petrolifera del 1973, sarebbe stato l’insediamento industriale
Sevel a rompere, dal 1978, lo schema appena indicato, trascinando con sé la stessa
fine del menzionato progetto di centrale termoelettrica a olio combustibile di
Punta Penna, che, grazie al suo porto, avrebbe dovuto completare la
«chimicizzazione» dell’Abruzzo meridionale. E che cosa dire, inoltre, un
ventennio più tardi, di quel Centro Oli di Ortona, un impianto di
deidrosolforazione del petrolio greggio che, nel 2007 (ma sospeso nel 2009),
l’Eni voleva regalare alla costa abruzzese? Fin qui, quando era ancora la
solidità della terraferma a garantire la riconoscibilità di un luogo. Ma che
cosa accade nella società dominata dalla cosiddetta modernità liquida dove
– per dirla con Zygmunt Bauman – vige «la convinzione che il cambiamento è
l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza»? Presto detto. Ancorare
l’insediamento chimico sulla massima liquidità esistente: il mare.
Ecco,
allora, che a sei km dalla costa di S. Vito, una piattaforma petrolifera ampia
35 m. x 24 m., alta 43,50 metri sul livello medio marino (un bel palazzo di 10
piani), verrà collegata ai 4-6 pozzi da perforare nei 6/9 mesi dagli inizi del
progetto. Struttura – va detto – da raccordare a una nave con funzione di
raffineria galleggiante (Floating Production, Storage and Offloading –
in acronimo FPSO) le cui
dimensioni dovrebbero essere: lunghezza, m. 320; larghezza, m. 33; altezza
massima m. 54. Una città galleggiante (Une ville flottante),
tanto per ricordare il titolo di un celebre romanzo di Jules Verne del 1871. E
che ha una denominazione rassicurante come il pesce cui si riferisce: Ombrina.
Una cosa, nota a tutti. Ma che vale sempre la pena tenere a mente.
Che
lo si voglia o meno, da mezzo secolo a oggi, ciò che viene definita Costa
dei Trabocchi ha subito quattro tentativi di «chimicizzazione» industriale
che qui ho cercato di sintetizzare alla buona. Un virus che torna
periodicamente e che non ha ancora trovato un vaccino. In quale laboratorio
deve essere ricercato? Con quali virologi? Una cosa voglio dire. Se il virus
non può essere debellato perché ormai è diventato endemico, allora non
prendiamoci più in giro. Finiamola una volta per tutte. O aboliamo trabocchi,
aree di riserva ecc., oppure, nell’Abruzzo meridionale, si chiuda per sempre
all’industria chimica. Tertium non datur. Incredibile ciò che è accaduto
per Ombrina mare. La legge di stabilità del 2016 ha vietato la ricerca di
idrocarburi entro le 12 miglia dalla costa, dopo aver favorito la ricerca a una
distanza inferiore. Il governo italiano ha inizialmente sospeso il permesso di
ricerca, e nel 2018 rigettato la richiesta di concessione per l’estrazione del
petrolio. Salvo poi ricevere, da parte della compagnia petrolifera, la
richiesta di 160 milioni di euro per il risarcimento dei danni subiti. Mi
chiedo: si può continuare in questo modo? Con la prospettiva di quella
modernità liquida che fonda se stessa sul cambiamento continuo e sulla certezza
dell’incertezza? È questo il paradigma culturale e economico del radioso futuro?
Se lo è, meglio stendere un velo pietoso.
Poi
la megacentrale a carbone. Non realizzata. Ma per quale motivo? Rivolte? Nulla
di tutto questo. Nulla di simile alla rivolta di Fossacesia contro la
Sangrochimica (non dimentichiamolo. Di fronte non si aveva una multinazionale.
Ma una società espressione di una parte politica del territorio e, per quanto
si voglia, per forza di cose sensibile ai consensi della popolazione locale). Molto
più semplicemente perché, la protesta centrata sulla forte
mobilitazione dell’opinione pubblica, trovava un diverso riscontro nel nuovo orientamento
strategico del nuovo piano energetico nazionale. La proposta della Riserva
aveva superato l’ostacolo più grave. Ma prima di diventare effettiva, un nuovo
ostacolo (anche se molto meno grave del precedente), andava profilandosi
all’orizzonte: il progetto di un porticciolo turistico nell’area della spiaggia
di Punta Penna. Di fronte non si aveva lo Stato né una multinazionale. Tutto
era centrato sulla primauté del comune. Oggi un risultato è sotto gli
occhi di tutti. La sezione vastese di Italia Nostra (con il WWF) aveva ottenuto
un grande risultato culturale e naturalistico per la città e per la regione: la
conservazione del luogo. Cosa che faceva il paio con il vincolo paesaggistico per
tutta l’area di S. Giovanni in Venere – sottratta alle mire della speculazione
– conseguito nel 1966 dalla sezione di Lanciano di Italia Nostra. Esempi che
appartengono per intero al secolo scorso e a quella straordinaria tradizione laica
di impegno civile e culturale che, nel 1955, aveva visto un gruppo di
intellettuali fondare l’associazione qui più volte citata, il cui animus,
Giorgio Bassani aveva così sintetizzato nel 1965: «Si alzino ancora l’impeto e
l’ardore appassionato di Italia Nostra che hanno contribuito a darle quel
carattere di protesta perpetua e di tensione che
ancora oggi la distingue». Impeto, ardore appassionato,
protesta perpetua, tensione (invito tutti a leggere la splendida raccolta
di scritti di Giorgio Bassani, (Italia da salvare, Milano, Feltrinelli,
2018). Strane parole da ascoltare, quelle! Del tutto estranee al vocabolario oggi
in uso. Che sembrano risultare ancora più stridenti rispetto al presente, se
aggiunte al concetto che invitava alla «difesa del patrimonio storico,
culturale, ambientale della nazione» esposto nella Legge di tutela del paesaggio
dell’11 maggio 1922 redatta da Benedetto Croce. Salvo poi
tornare a Ruskin che nel 1862 affermava:
Il
paesaggio è il volto amato della patria. Più questa visione sarà bella e più si
amerà la patria di cui è l’immagine. Questa bellezza deve essere la grande
preoccupazione del patriota, come è stata la sua vera educatrice. Non è solo
seminando statue che si ha una raccolta d’uomini, ma risparmiando le pietre della
terra natale. Una nazione non è degna del suolo e dei paesaggi che ha ereditati
se non quando con i suoi atti e le sue arti li renda ancora più bella per i
suoi figli.
(La
citazione di Ruskin in N.A. Falcone, Il codice delle belle arti e dell’antichità:
raccolta di leggi, decreti e disposizioni relativa ai monumenti, antichità e
scavi dal diritto romano a oggi, corredata dalla legislazione complementare e
dalla giurisprudenza, Firenze, Baldoni, 1913, p. 243).
Del
resto, non credo siano questi i temi che hanno accompagnato la lotta contro il Centro
oli di Ortona o di Ombrina mare. L’orizzonte in cui sono inscritte è
quello del cosiddetto Nimby (acronimo inglese di Not In My
BackYard, non nel mio cortile), la protesta che connota la
comunità locale contro opere a alto impatto limitatamente al proprio
territorio. Ripeto, limitatamente agli interessi del proprio territorio.
Nulla da dividere, dunque, con la «protesta perpetua e di tensione [morale e
civile, s’intende]» in tutti i luoghi che ha caratterizzato il Novecento.
Tra
presente e passato le risposte ai problemi da un lato sono, e dall’altro
sono state differenti. Probabilmente la stessa ricostruzione storica dovrà
rispondere a tale diversità. Non so dire se tra i due momenti esista una
discontinuità di paradigmi. Posso dire poco, perché non ho affrontato argomenti
del mondo Nimby. Ma in linea generalissima ritengo che questi ultimi
siano da indagare in un contesto più specifico di storia delle comunità.
La
storia della difesa dei beni culturali e ambientali richiede una storia
dei luoghi centrata sulla ricerca di tutta la documentazione di riferimento.
Protagonista è il luogo con i suoi abitanti (tenendo magari conto di quanto
scrive Marc Augé: «Il luogo antropologico è il luogo in cui vi è una
coincidenza perfetta tra disposizione spaziale e organizzazione sociale». Una
possibilità – aggiungo – raggiungibile solo tendenzialmente). La
comunità, al contrario, richiede soprattutto l’analisi delle pratiche che la
rendono coesa attraverso gli obiettivi in cui si riconoscono. Chi scrive è
interessato alla storia dei luoghi. E in tale prospettiva sono da leggere
alcuni dei suoi interventi che viene qui pubblicando.
Un’ultima
annotazione. Occorre tornare con forza al paesaggio e alla sua storicità,
movendo dal celebre topos ovidiano su cui avevano riflettuto i grandi
intellettuali di primo XX secolo da Georg Simmel a Benedetto Croce: «La natura
s’ingegna a imitare l’arte» («simulaverat artem ingenio natura suo», Metamorfosi
III, vv. 158-9). Cercare di rileggerlo e comprenderlo nel miserabile contesto
della modernità liquida.
Parole
nel vuoto, come diceva Adolf Loos? Certo, parole nel vuoto!
Del resto, che cosa si può pretendere di più da chi si è solo limitato a agire
con «impeto, ardore appassionato, protesta perpetua, tensione»?
Pubblicato da Mercurio Saraceni
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