Per una storia dei luoghi: la costa vastese
Dalla «Pandìrə» di Vignola alle lame del Vallone del Ponte alla Marina
di
Luigi Murolo
Qual
è il significato del lemma dialettale vastese pandìrǝ? Se ci soffermiamo
sulla definizione fornita dal Vocabolario dell’uso abruzzese di Gennaro
Finamore (1880, 1893) esso vale «pozza d’acqua ferma». Nei fatti, poco più di
una «pozzanghera» che, sempre in vastese, si dice cutuëinǝ (foneticamente
/ku’twƐinǝ/. Il valore semantico del termine in questione differisce nettamente
dall’abruzzese. In lingua vernacola designa un «laghetto» con acqua bassa dolce
o salmastra, utilizzabile anche per il lavoro umano (lu cutuëinǝ, ad
esempio, serviva per abbeverare gli animali). L’unico esempio da me conosciuto
in città (posteriore all’inaugurazione dell’acquedotto del Sinello avvenuta il
12 settembre 1926) è il piccolo specchio d’acqua localizzato proprio di fronte
alla nuova chiesa di S. Maria del Sabato Santo, nascosto oggi da una foltissima
vegetazione lacustre. Risulta formato da una deviazione dell’antico acquedotto
delle Luci utilizzato in passato per finalità irrigue (fig. 1).
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(Fig. 1: Vasto. Il relitto della pandìrǝ delle Luci) |
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(Fig. 2: Il villaggio ristrutturato di Vignola) |
«Per
la bonifica di Vignola le difficoltà furono maggiori giacché si trattava
anzitutto di ottenere la classifica di 1a categoria […]. Questo era
certo un gran passo verso la risoluzione del problema; ma non bastava […].
Perciò anche a questo riguardo occorreva propugnare l’attuazione di un
programma minimo e cioè lo stralcio dalla bonifica dell’intera contrada di
quella parte di essa ove la malaria è più sviluppata. Fu concordemente scelta
quella dei cosiddetti Laghetti dove si presume che il germe si sviluppi
e si propaghi con maggiore intensità […]».
(C.
Perdisa, Relazione al ricostituito consiglio comunale di Vasto, Vasto,
Arte della Stampa, 1924, p.14).
Si
noti bene. La bonifica delle pandìrǝ di acqua salmastra avviene sulla
base di una presunzione del commissario prefettizio, non del Consiglio
Comunale. Di un luogo di grande interesse che, nel 1909, aveva visto la visita
voluta, per la sua specificità paesaggistica, da Francesco Paolo Michetti. Una
nota del settimanale «Istonio» del 25 luglio 1909 (a.XXII, n.31) registra
quanto segue:
«In
questi giorni è stato in Vasto Francesco Paolo Michetti, ospite del cav. Alfonso
Marchesani, per una gita artistica a S. Nicola della Meta ed ai laghetti di
Vignola. È probabile che faccia quanto prima altra escursione alla scogliera
della Penna».
Non
vi sono dubbi. Già dagli inizi del Novecento i laghetti di Vignola costituivano
un riferimento per il rapporto tra arte e bellezze naturali. Quello stesso
rapporto che Benedetto Croce aveva codificato come Ministro della Pubblica
Istruzione nella Legge n.778, 11 giugno 1922, pubblicata su G.U. 24 giugno
1922, n.148. Stiamo parlando della prima legge in Italia sulla tutela del
paesaggio che il filosofo napoletano (di origine abruzzese) aveva storicizzato
con queste parole nella presentazione del testo legislativo:
Da
tale punto di vista, la malaria diventa un mezzo per superare la legge
approvata due anni prima. E ciò per rimettere in moto il meccanismo dei lavori
pubblici lungo la costa che, dopo il finanziamento di un milione di lire per la
costruzione del porto di Punta Penna nel marzo del 1919, ne aveva visto il
declassamento con decreto governativo del 4 agosto 1921. E che, nello stesso
tempo, aveva trovato nel deputato socialista Mario Trozzi il patrocinatore per
la costruzione del porto peschereccio in località Scaramuzza con
l’interrogazione rivolta al governo nel marzo 1920. Va da sé che tutto questo
non nega la presenza della malaria. Anzi! La parassitosi (detta anche paludosi)
era diffusa soprattutto nelle padule del cosiddetto Rione Marina (così come
precisava lo stesso Perdisa). Al punto che già nel 1914 era stata praticata la
diffusione e la somministrazione gratuita del chinino. Insomma, un’urgenza
sanitaria legata alle acque stagnanti delle aree dunali dell’arenile e del
Fosso del Ponte Marino che alla foce si insabbiava. Non certo alla spiaggia
ghiaiosa di Vignola. E c’è di più. Secondo la testimonianza di ‘Za
Micchilëinǝ (fonematicamente /za mikki’lƐinǝ/), la matriarca del villaggio
dei Tummuasìllǝ, nessuno dei suoi maggiori ricordava episodi di malaria.
E ciò, grazie alla preziosa acqua curativa della Fundučiuàllǝ (fonematicamente
/fundu’tƪuallǝ), una piccola fonte di acqua sorgiva purtroppo distrutta dalla
galleria del nuovo tracciato ferroviario (fig. 3). Con una
sottolineatura non secondaria: vale a dire, l’interesse etnoantropologico per
l’attribuzione alla materia liquida di un valore apotropaico se non,
addirittura, immunizzatore nei confronti dell’antico «mal d’aria» che, in altre
parti del litorale vastese, aveva dominato incontrastato.
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(Fig. 3: Il luogo della scomparsa Fundučiuàllǝ. In primo piano i resti del vecchio tracciato ferroviario; a ridosso, il piano rialzato della nuova galleria.) |
Già!
Ma dov’erano quei «laghetti» che tanta attenzione avevano suscitato agli occhi
dell’artista per l’immateriale selvaggia bellezza di cui erano portatori?
Luoghi impraticabili oggi, accerchiati dalle privatizzazioni, raggiungibili
solo attraverso uno scosceso sentiero interpoderale tra campi coltivati e
agrumeti noto ai connoisseur Sebastiano Ciccotosto e alla consorte
Clelia Bruno (fig. 4). Devo a questi amici l’approdo per via terra verso
un lido caratterizzato da muraglioni in cemento armato caduti e con bassi
fondali popolati in estate da urticantissimi anemoni di mare la cui
colonizzazione è visibile dall’alto grazie alle foto zenitali di Google maps
cui, per la visione, rinvio il lettore curioso.
Dopo
aver raggiunto tra una chiacchiera e l’altra una pineta impiantata negli anni
Ottanta del secolo scorso ho chiesto a Sebastiano: «c’è un relitto della
vecchia pandiera?». «Un relitto? – risponde l’amico Sebastiano –. Ma di quale
relitto stiamo parlando? La pineta in cui ci troviamo sostituisce interamente
il vecchio habitat. Ricordo ancora un laghettino distante una decina di metri
dalla linea di costa dove noi bambini ci divertivamo a pescare, sostituito da
un campetto dove giocavamo a calcio prima dell’impianto di questa pineta» (figg.
5, 6). Ecco perché mi piacerebbe chiedere agli Squaččiarìllǝ
(foneticamente /Skuattƪa’rillǝ/) della Canale oppure ai Marruqquàllǝ (foneticamente
/Marruk’kwallǝ/) di Punta Penna se rammentano ancora quello di stato di cose a
metà XX secolo. Per quanto mi riguarda, ho cercato di trovare nella mappa del
territorio disegnata nel 1858 da Carlo Luigi Dau (fig. 7) sulla base
cartografica dell’Atlante Rizzi-Zannoni (1807) la corrispondenza della laguna
ottocentesca con l’attuale pineta documentata da Google maps. La
perfetta corrispondenza morfologica tra le due testimonianze conferma la
relazione che si stabilisce tra loro. Del resto, l’amico Sebastiano Ciccotosto
ricorda ancora quando, da bambino, pescava gli avannotti nel relitto di bacino
lacustre ancora esistente negli anni Sessanta del Novecento. Poi i primi calci
tirati nel campetto ad hoc che lo aveva sostituito. Infine, la pineta.
Che posso dire! Una storia del presente che, nel volgere di poco più di un
decennio, hanno visto il radicale stravolgimento naturalistico e paesaggistico
di questo tratto di litorale vastese.
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(Fig. 4: Veduta di insieme della Pineta di Vignola precedentemente occupata dalla pandìrǝ) |
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[Fig. 5: Veduta dalla pineta di Vignola (prima pandìrǝ) verso la spiaggia] |
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[Fig. 6: Carlo Luigi Dau, Pianta topografica di Vasto (1858). Cerchiata in rosso l’area della laguna di Vignola] |
Chissà
che cosa avrebbe detto oggi il buon Michetti, dopo aver visto quel passato
dalla bellezza selvaggia. Non possiamo dirlo. Però qualcosa possiamo
aggiungere. Che cosa? Conservare, per quanto possibile, almeno la memoria di
ciò che un tempo fu la «pandìrǝ» o, se si vuole, i «laghetti» di
contrada Vignola. Magari, ascoltando la marcia che il musicista vastese
Vincenzo Marchesani (1873-1957) aveva dedicato al luogo con l’emblematico titolo Ai
laghetti di Vignola (fig. 7).
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[Fig. 7: Vincenzo Marchesani (1873-1957), "Ai laghetti di Vignola", partitura (Archivio privato Mercurio Saraceni, Vasto)] |
Se
attualmente non conosco documenti grafici in grado di illustrare la situazione
naturale prima della bonifica di questa località, è comunque possibile
ricorrere a una pianta del 1834 che, relativa a un’area di una quindicina di
chilometri più a sud – il confine tra Abruzzo e Molise, segnatamente tra S.
Salvo e Montenero di Bisaccia –, spiega in modo esemplare il rapporto tra
laghetti costieri e laguna retrostante. La carta, conservata nell’Archivio di
Chieti descrive la realtà ambientale anteriore alla realizzazione della «strada
rotabile tra la Marina di Vasto e il Trigno». Un progetto datato 15 dicembre1834
e redatto dall’ing. Tommaso Tenore, direttore del Servizio di Acque e Strade
della Provincia di Abruzzo Citeriore. La mappa è ricca di dettagli – qui ne
pubblico una tranche – (fig. 8 e 8bis).
Dettaglio (Chieti, Archivio di
Stato)]
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(Fig 8bis: Carta con didascalie) |
Indica,
ad esempio, la localizzazione dell’antico Mulino Comunale di S. Salvo (nei
pressi dell’attuale chiesa della Madonna di Fatima), da cui si origina il Formale
del Mulino, vale a dire il ruscello che, uscendo dallo scomparso
macinatoio, segna ancora oggi il confine tra Abruzzo e Molise. Quasi non
bastasse, proprio sull’attuale Ss. 16 (ricavata sul tratturo L’Aquila-Foggia),
all’altezza del limes regionale, posiziona la barriera doganale. A nord
del corso d’acqua (in territorio di S. Salvo), si nota la bonifica degli eredi
di Carlo Nasci da cui si evince l’avvenuta formazione della parte orientale di
Piane S. Angelo (notevole una bonifica già esistente al 1834!). Essa si trova a
essere ricavata da una precedente laguna che doveva costituire la continuazione
della stessa attestata cartograficamente in quel periodo nel territorio di
Montenero di Bisaccia (l’indicazione non lascia equivoci nel progetto borbonico).
E qui il tema diventa rilevante per il presente intervento. In effetti, lungo
il cordone litoraneo (il cosiddetto tombolo, un corridoio sabbioso
favorito da venti marini) che divide il bacino costiero dal mare si coglie la
presenza di due «laghetti» che spiegano, sul piano della ricostruzione storica,
la classificazione di quelli vastesi di Vignola. Cioè specchi d’acqua collocati
all’interno di ciò che rientra nella contestualizzazione di «laguna morta», un
ambiente completamente circondato da terraferma e senza sbocco al mare,
caratterizzato esclusivamente da innalzamento e abbassamento delle maree. Qualcosa,
cioè, di radicalmente diverso da quanto risulta storicamente accaduto alla foce
del torrente Buonanotte, confine tra Vasto e S. Salvo, dove si è naturalmente
realizzato un compiuto gioco di cordoni dunali, dune fisse, garighe, aree umide
retrodunali, sopravvissuto all’urbanizzazione selvaggia e magnificamente
restaurato come Giardino botanico mediterraneo. Ma tutto ciò non rientra
nell’economia di questo articolo.
Al
contrario, mi pare utile accennare alle zone umide della grande Padula di Vasto
Marina parte delle quali bonificate nel 1914 (notizie su questa bonifica in F.
Ciccarone, In memoria di Luigi Nasci, Vasto, Tip. Guzzetti, 1932, p.
27). Nel caso specifico, parlo della foce del Vallone del Ponte alla Marina,
area già investita da protoindustrializzazione nel corso degli anni Sessanta
dell’Ottocento. Da questo punto di vista, la ri-formazione di una vera e
propria lama localizzata al punto 42.099525 Lat. N. 14.723112 Long. E delinea
un’interessante avvisaglia della ripresa della Natura.
Non
che sia una novità. Ma l’accumulo di acqua di piena in zone basse (nel Dizionario
Abruzzese- Molisano [DAM] Ernesto Giammarco definisce lama,
«ristagno d’acqua») che, nel caso specifico della Marina di Vasto, è determinato
da un piccolo bacino idrografico alimentato da acqua piovana da individuare
come processo di lamatura nella costituzione della palude. I processi di
lamatura (in dialetto vastese, lamatîurә) hanno sempre caratterizzato la
storia della città; soprattutto a partire dalle acque sotterrane che stagnano all’aperto,
in aree piane pianeggianti. Per averne una qualche contezza è sufficiente
tornare alla stessa antica denominazione vastese di Muro delle Lame (la
vecchia via Adriatica caduta con la frana del 1956), addossato alla
scarpata (in dialetto, ripa) orientale della città. Ma in questa sede –
aggiungo – e mi riferisco alla lama lungo l’arenile di Vasto, segnatamente
all’ultima ansa del Vallone del Ponte prima della foce (fig. 9).
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(Fig. 9: Vasto. Lama alla foce del Vallone del Ponte alla Marina in periodo di piena.) |
Tutto
ciò rispetto allo stato odierno delle cose. Ma come riusciamo a coglier il
rapporto tra l’ambiente originale e il contemporaneo? Anche in questo caso non
possiamo sfuggire all’iconografia storica. Beninteso, non con una foto. In
primo luogo, con un’altra tranche della citata carta del 1834 (figg.
10 e 10bis).
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[Fig. 10: Progetto della strada rotabile tra la Marina di Vasto e il Trigno (1834). Dettaglio] |
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Qui
si osserva il vallone del Ponte Marino nelle cui prossimità risulta indicata la
Posta doganale (una localizzazione fino a oggi sconosciuta), e poco più
a est l’area delle Fornaci. Ciò significa che in quella zona sarebbe
potuto sussistere un porto della spiaggia, diversamente dagli altri della Meta
e di Casarza documentati nei protocolli notarili dal XVI al XVIII secolo e, nel
XIX, dagli altri del Trave e di Casarza. Ma stanno davvero in questo modo le
cose? Del resto, senza voler trarre una conclusione affrettata, non è forse
vero che una dogana risulta essere allocata dove sono presenti traffici? La
domanda sembrerebbe trovare conferma in un passo dello storico Luigi Marchesani
laddove cerca di spiegare il farraginoso meccanismo di sbarco che connetteva la
Dogana ai caricatoi: «La priorità del naviglio non nell’arrivare alla spiaggia,
ma in dichiarare alla Dogana la operazione, che intende fare, dà priorità ad
eseguirla» (L. Marchesani, Storia di Vasto, a c. di L. Murolo, Vasto,
Amministrazione Comunale, 1982, p.109). Il che vuol dire: la velocità delle
operazioni di carico e scarico non dipendeva dall’attracco alla spiaggia (con
ciò confermando l’esistenza di un porto), ma nelle pratiche da svolgere alla
Dogana. L’importante, insomma, non consisteva tanto nel luogo dell’approdo (che
sembrerebbe essere intercambiabile tra le diverse località), quanto dalla
rapidità di comunicazione con l’ufficio preposto al controllo delle merci. Una
notizia sicuramente importante. Ma che attende ancora il ritrovamento di una
documentazione risolutiva.
Fig. 11 Pianta dell'Arenile di Vasto 1872
Ciò
che indico con il n. 1 è la fascia di padule (metatesi di palude) che divide
l’arenile dalla zona coltivata (a tal proposito, significativo il n. 2 che
restituisce la coltivazione degli ulivi). Il n. 3 delinea la parte diradata
della palude in piccole aree non superiori al tomolo destinate a pastino
(proprietà di Giuseppe Celenza e Giuseppe Ferrante), a maggese (proprietà di
Luigi Perrozzi), a seminativo a grano (proprietà di Giuseppe e Arcangelo
Suriani e degli eredi Rulli) o, anche, incolto abbandonato (proprietà di
Giovanni Laccetti). Il n. 4 – che individua l’opificio Graffigna, di cui non si
conosce altra attestazione – è un’industria che, disponendosi sul versante nord
del vallone, utilizza l’acqua che si impantana. Coincide con lo stesso sito in
cui è stata scattata la foto della lama (fino a oggi – aggiungo – non ho trovato
resti di archeologia industriale). Da quest’ultimo punto di vista, il n. 5
profila il tracciato del vallone con la messa in evidenza dell’ansa. Come si
vede, stiamo parlando di un’area a bassissimo grado di antropizzazione segnata
qua e là da tentativi di insediamento agricolo-industriale. In buona sostanza,
ciò implica che il corso d’acqua a regime torrentizio si trova a segnare il
confine tra campagna e palude. L’unico punto di congiunzione tra le due sponde
risulta essere il ponticello ferroviario – non disegnato nella mappa in quanto
molto più a ovest del tratto interessato – funzionante dal 1863, anno di
inaugurazione della stessa ferrovia. L’unica documentazione esistente è
l’edizione rivista nel 1850 dell’Atlante Rizzi Zannoni di quasi un quarantennio
prima (1807). Su di essa viene elaborato il progetto borbonico di ferrovia
(reso definitivo agli inizi del Regno d’Italia) di cui pubblico un dettaglio (Fig.
12). La freccia con il n. 1 indica il corso del vallone. Le frecce n. 2
segnano la linea tratteggiata della strada prevista, ma non realizzata nel
1863. Lo stesso ponte sul Vallone non avrebbe ancora trovato concretizzazione.
E
c’è ancora un altro problema. La mancata realizzazione della strada a quella
data trascina con sé un aspetto troppo poco considerato. Vale a dire
l’attraversamento dei binari. Di fatto, non risulta ancora realizzato il
sottopassaggio. La soluzione complessiva sarà trovata solo nel 1905, il 1°
luglio, quando verranno inaugurati tanto il sottopassaggio quanto il ponte di
legno sul vallone del Ponte alla marina. Solo dopo questa data i birocci – lә
bbicåttә, in dialetto vastese –saranno liberati dalla servitù
del passaggio a livello – così come si osserva nella cartolina – (fig. 13)
A
questo punto vale la pena soffermarsi su un dettaglio del grande rotolo
cartografico dell’arenile di Vasto conservato nell’Archivio Storico Comunale
della città, che l’architetto Filippo De Blasiis disegna nel 1872 (un
quarantennio dopo la redazione della mappa del 1834 e un quarantennio precedente
la citata parziale bonifica del 1914). Ma andiamo per ordine (fig. 11).
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[Fig.
11:
Arch. F. De Blasiis, Pianta dell’arenile di Vasto, 1872.
Dettaglio
(Vasto, Archivio Storico Comunale)
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[Fig. 12: Atlante Rizzi-Zannoni (1807) rielaborato per il progetto della Ferrovia (1850). Dettaglio] |
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[Fig. 13: I primi birocci che utilizzano il sottopassaggio ferroviario (1905). Cartolina. Collezione Ida Candeloro] |
Va
osservato, però, che il 1902 è l’anno in cui viene presentato il progetto per
la realizzazione di entrambe le strutture. A favorire tale decisione, in
realtà, sarà, sempre nello stesso anno, l’esondazione del vallone che, causando
il deragliamento di un treno, cagionerà la morte di un giovane ferroviere
bolognese. Da questo punto di vista, le pericolose lame prodotte da questo
torrente ponevano le esigenze di bonifica per favorire una modernizzazione
ancora di là da venire. Prima però di raggiungere questo risultato si doveva
raggiungere una sistemazione degli argini per garantire la costruzione di un
ponte in legno in grado di reggere un traffico a trazione animale in una zona –
e lo si è detto – già investita da protoindustrializzazione (non più l’opificio
Graffigna, ma l’oleificio Palmili). Anche in questo caso pubblico un dettaglio
del progetto approvato dalla Capitaneria di porto il 24 settembre del 1902 (fig.
14).
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[Fig. 14: Progetto per la realizzazione del ponte di legno sul Vallone alla marina con l’oleificio Palmili (1902). Dettaglio. Vasto, Archivio Storico Comunale] |
Così
pure si è ottenuto che lo Stato provvedesse alla bonifica del vallone Marina,
onde in seguito sarà possibile il prolungamento della strada al di là del
ponte, offrendosi così all’edilizia anche altri arenili e una comoda arteria
principale lungo la spiaggia.
L’opera
e il programma della presente Amministrazione Comunale, Vasto, Tip.
Zaccagnini & Lattanzio, 1914, pp.12-13.
L’urbanizzazione
nasce da qui. Con i villini che inizialmente potevano reggerla. Non con i
grandi edifici che oggi la stravolgono. Con gli insediamenti massivi che
eutrofizzano la marina di Vignola, Dove diventa sempre più difficile la
convivenza tra acqua e terra con i continui allagamenti di Vasto Marina a ogni
pioggia. Ma si è capito che la storia urbana della città si è giocata e si
gioca sulla forza naturale delle lame? La stessa che sta oggi investendo
l’area della Loggia Ambling. Ma quando si riuscirà a fare i conti con la
storia? La risposta è in re ipsa. Molto semplice. Chi vuole intenderla
già la conosce.
Pubblicato da Mercurio Saraceni
Prof. Murolo, mi sono sorpreso assorto e affascinato dalle ricostruzioni che ha esposto, così chiaramente supportato da utili immagini di vecchie stampe e attuali foto. Ho potuto apprendere cose sulla storia della città, e in questo caso della parte costiera, che ora mi permetteranno di vedere con nuovi occhi, più informati, il territorio rivierasco di Vasto, nonchè di valutare eventuali discorsi sulla sistemazione idrogeologica del territorio alla luce della lezione sulle lame che la Storia ci regala.
RispondiEliminaOttimo per comprendere la morfologia attuale del territorio descritto nel vs lavoro
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