Dipartimento di Studi e Ricerche sulla Storia di Vasto

domenica 10 maggio 2020

Per una storia dei luoghi: la costa vastese


 Vignola


Per una storia dei luoghi: la costa vastese 

Dalla «Pandìrə» di Vignola  alle lame del Vallone del Ponte alla Marina 


di Luigi Murolo
Qual è il significato del lemma dialettale vastese pandìrǝ? Se ci soffermiamo sulla definizione fornita dal Vocabolario dell’uso abruzzese di Gennaro Finamore (1880, 1893) esso vale «pozza d’acqua ferma». Nei fatti, poco più di una «pozzanghera» che, sempre in vastese, si dice cutuëinǝ (foneticamente /ku’twƐinǝ/. Il valore semantico del termine in questione differisce nettamente dall’abruzzese. In lingua vernacola designa un «laghetto» con acqua bassa dolce o salmastra, utilizzabile anche per il lavoro umano (lu cutuëinǝ, ad esempio, serviva per abbeverare gli animali). L’unico esempio da me conosciuto in città (posteriore all’inaugurazione dell’acquedotto del Sinello avvenuta il 12 settembre 1926) è il piccolo specchio d’acqua localizzato proprio di fronte alla nuova chiesa di S. Maria del Sabato Santo, nascosto oggi da una foltissima vegetazione lacustre. Risulta formato da una deviazione dell’antico acquedotto delle Luci utilizzato in passato per finalità irrigue (fig. 1).

(Fig. 1: Vasto. Il relitto della pandìrǝ delle Luci)
Una cosa va però ricordata. Il 1926 segnava l’avvenuta realizzazione di un’altra opera idraulica. Vale a dire la massiccia bonifica dell’area di Vignola con il prosciugamento dell’omonima laguna (non una padula), fatta di laghetti di acqua salmastra in cui gli abitanti del luogo raccolti in un piccolo villaggio tuttora esistente e ristrutturato (fig. 2, tutti appartenenti al gruppo familiare dei Tummuassìllǝ [fonematicamente /tummwas’sillǝ/]) praticavano nel XIX secolo, oltre all’agricoltura, la pesca di specie ad hoc; specie – va detto – che popolano ambienti a corrente debole o assente.


(Fig. 2: Il villaggio ristrutturato di Vignola)
Il tutto inizia due anni prima, quando l’allora commissario prefettizio di Vasto Cesare Perdisa comunicava al ricostituito Consiglio Comunale il 1° giugno 1924 quanto segue:
«Per la bonifica di Vignola le difficoltà furono maggiori giacché si trattava anzitutto di ottenere la classifica di 1a categoria […]. Questo era certo un gran passo verso la risoluzione del problema; ma non bastava […]. Perciò anche a questo riguardo occorreva propugnare l’attuazione di un programma minimo e cioè lo stralcio dalla bonifica dell’intera contrada di quella parte di essa ove la malaria è più sviluppata. Fu concordemente scelta quella dei cosiddetti Laghetti dove si presume che il germe si sviluppi e si propaghi con maggiore intensità […]».
(C. Perdisa, Relazione al ricostituito consiglio comunale di Vasto, Vasto, Arte della Stampa, 1924, p.14).
Si noti bene. La bonifica delle pandìrǝ di acqua salmastra avviene sulla base di una presunzione del commissario prefettizio, non del Consiglio Comunale. Di un luogo di grande interesse che, nel 1909, aveva visto la visita voluta, per la sua specificità paesaggistica, da Francesco Paolo Michetti. Una nota del settimanale «Istonio» del 25 luglio 1909 (a.XXII, n.31) registra quanto segue:
«In questi giorni è stato in Vasto Francesco Paolo Michetti, ospite del cav. Alfonso Marchesani, per una gita artistica a S. Nicola della Meta ed ai laghetti di Vignola. È probabile che faccia quanto prima altra escursione alla scogliera della Penna».
Non vi sono dubbi. Già dagli inizi del Novecento i laghetti di Vignola costituivano un riferimento per il rapporto tra arte e bellezze naturali. Quello stesso rapporto che Benedetto Croce aveva codificato come Ministro della Pubblica Istruzione nella Legge n.778, 11 giugno 1922, pubblicata su G.U. 24 giugno 1922, n.148. Stiamo parlando della prima legge in Italia sulla tutela del paesaggio che il filosofo napoletano (di origine abruzzese) aveva storicizzato con queste parole nella presentazione del testo legislativo:
 «Il movimento a favore della conservazione delle bellezze naturali rimonta al 1862, allorquando John Ruskin sorse in difesa delle quiete valli dell’Inghilterra minacciate dal fuoco strepitante delle locomotive e dal carbone fossile delle officine, e si diffuse lentamente ma tenacemente in tutte le nazioni civili, e specie in quelle in cui più progredite sono le industrie e i mezzi di locomozione. Infatti questi mezzi, togliendo più facilmente gli uomini all’affannosa vita delle città, per avvicinarli più spesso alle pure gioie dei campi, han diffuso questo anelito, tutto moderno, verso le bellezze della natura, mentre le industrie, fatte più esigenti dalla scoperta della trasformazione della forza, elettricità, luce, calore, attentano ogni giorno più alla vergine poesia delle montagne, delle foreste, delle cascate».
Da tale punto di vista, la malaria diventa un mezzo per superare la legge approvata due anni prima. E ciò per rimettere in moto il meccanismo dei lavori pubblici lungo la costa che, dopo il finanziamento di un milione di lire per la costruzione del porto di Punta Penna nel marzo del 1919, ne aveva visto il declassamento con decreto governativo del 4 agosto 1921. E che, nello stesso tempo, aveva trovato nel deputato socialista Mario Trozzi il patrocinatore per la costruzione del porto peschereccio in località Scaramuzza con l’interrogazione rivolta al governo nel marzo 1920. Va da sé che tutto questo non nega la presenza della malaria. Anzi! La parassitosi (detta anche paludosi) era diffusa soprattutto nelle padule del cosiddetto Rione Marina (così come precisava lo stesso Perdisa). Al punto che già nel 1914 era stata praticata la diffusione e la somministrazione gratuita del chinino. Insomma, un’urgenza sanitaria legata alle acque stagnanti delle aree dunali dell’arenile e del Fosso del Ponte Marino che alla foce si insabbiava. Non certo alla spiaggia ghiaiosa di Vignola. E c’è di più. Secondo la testimonianza di ‘Za Micchilëinǝ (fonematicamente /za mikki’lƐinǝ/), la matriarca del villaggio dei Tummuasìllǝ, nessuno dei suoi maggiori ricordava episodi di malaria. E ciò, grazie alla preziosa acqua curativa della Fundučiuàllǝ (fonematicamente /fundu’tƪuallǝ), una piccola fonte di acqua sorgiva purtroppo distrutta dalla galleria del nuovo tracciato ferroviario (fig. 3). Con una sottolineatura non secondaria: vale a dire, l’interesse etnoantropologico per l’attribuzione alla materia liquida di un valore apotropaico se non, addirittura, immunizzatore nei confronti dell’antico «mal d’aria» che, in altre parti del litorale vastese, aveva dominato incontrastato.
(Fig. 3: Il luogo della scomparsa Fundučiuàllǝ. In primo piano i resti del vecchio tracciato ferroviario; a ridosso, il piano rialzato della nuova galleria.)
Già! Ma dov’erano quei «laghetti» che tanta attenzione avevano suscitato agli occhi dell’artista per l’immateriale selvaggia bellezza di cui erano portatori? Luoghi impraticabili oggi, accerchiati dalle privatizzazioni, raggiungibili solo attraverso uno scosceso sentiero interpoderale tra campi coltivati e agrumeti noto ai connoisseur Sebastiano Ciccotosto e alla consorte Clelia Bruno (fig. 4). Devo a questi amici l’approdo per via terra verso un lido caratterizzato da muraglioni in cemento armato caduti e con bassi fondali popolati in estate da urticantissimi anemoni di mare la cui colonizzazione è visibile dall’alto grazie alle foto zenitali di Google maps cui, per la visione, rinvio il lettore curioso.
Dopo aver raggiunto tra una chiacchiera e l’altra una pineta impiantata negli anni Ottanta del secolo scorso ho chiesto a Sebastiano: «c’è un relitto della vecchia pandiera?». «Un relitto? – risponde l’amico Sebastiano –. Ma di quale relitto stiamo parlando? La pineta in cui ci troviamo sostituisce interamente il vecchio habitat. Ricordo ancora un laghettino distante una decina di metri dalla linea di costa dove noi bambini ci divertivamo a pescare, sostituito da un campetto dove giocavamo a calcio prima dell’impianto di questa pineta» (figg. 5, 6). Ecco perché mi piacerebbe chiedere agli Squaččiarìllǝ (foneticamente /Skuattƪa’rillǝ/) della Canale oppure ai Marruqquàllǝ (foneticamente /Marruk’kwallǝ/) di Punta Penna se rammentano ancora quello di stato di cose a metà XX secolo. Per quanto mi riguarda, ho cercato di trovare nella mappa del territorio disegnata nel 1858 da Carlo Luigi Dau (fig. 7) sulla base cartografica dell’Atlante Rizzi-Zannoni (1807) la corrispondenza della laguna ottocentesca con l’attuale pineta documentata da Google maps. La perfetta corrispondenza morfologica tra le due testimonianze conferma la relazione che si stabilisce tra loro. Del resto, l’amico Sebastiano Ciccotosto ricorda ancora quando, da bambino, pescava gli avannotti nel relitto di bacino lacustre ancora esistente negli anni Sessanta del Novecento. Poi i primi calci tirati nel campetto ad hoc che lo aveva sostituito. Infine, la pineta. Che posso dire! Una storia del presente che, nel volgere di poco più di un decennio, hanno visto il radicale stravolgimento naturalistico e paesaggistico di questo tratto di litorale vastese.

(Fig. 4: Veduta di insieme della Pineta di Vignola precedentemente occupata dalla pandìrǝ)

[Fig. 5: Veduta dalla pineta di Vignola (prima pandìrǝ) verso la spiaggia]

[Fig. 6: Carlo Luigi Dau, Pianta topografica di Vasto (1858). Cerchiata in rosso l’area della laguna di Vignola]
Chissà che cosa avrebbe detto oggi il buon Michetti, dopo aver visto quel passato dalla bellezza selvaggia. Non possiamo dirlo. Però qualcosa possiamo aggiungere. Che cosa? Conservare, per quanto possibile, almeno la memoria di ciò che un tempo fu la «pandìrǝ» o, se si vuole, i «laghetti» di contrada Vignola. Magari, ascoltando la marcia che il musicista vastese Vincenzo Marchesani (1873-1957) aveva dedicato al luogo con l’emblematico titolo Ai laghetti di Vignola (fig. 7).

[Fig. 7: Vincenzo Marchesani (1873-1957), "Ai laghetti di Vignola", partitura  (Archivio privato Mercurio Saraceni, Vasto)]
Se attualmente non conosco documenti grafici in grado di illustrare la situazione naturale prima della bonifica di questa località, è comunque possibile ricorrere a una pianta del 1834 che, relativa a un’area di una quindicina di chilometri più a sud – il confine tra Abruzzo e Molise, segnatamente tra S. Salvo e Montenero di Bisaccia –, spiega in modo esemplare il rapporto tra laghetti costieri e laguna retrostante. La carta, conservata nell’Archivio di Chieti descrive la realtà ambientale anteriore alla realizzazione della «strada rotabile tra la Marina di Vasto e il Trigno». Un progetto datato 15 dicembre1834 e redatto dall’ing. Tommaso Tenore, direttore del Servizio di Acque e Strade della Provincia di Abruzzo Citeriore. La mappa è ricca di dettagli – qui ne pubblico una tranche – (fig. 8 e 8bis).

 Progetto strada tra Vasto marina e il trigno
[Fig. 8: Ing. T. Tenore, Progetto della strada rotabile tra la Marina di Vasto e il Trigno (1834). 
Dettaglio (Chieti, Archivio di Stato)]

(Fig 8bis: Carta con didascalie)
Indica, ad esempio, la localizzazione dell’antico Mulino Comunale di S. Salvo (nei pressi dell’attuale chiesa della Madonna di Fatima), da cui si origina il Formale del Mulino, vale a dire il ruscello che, uscendo dallo scomparso macinatoio, segna ancora oggi il confine tra Abruzzo e Molise. Quasi non bastasse, proprio sull’attuale Ss. 16 (ricavata sul tratturo L’Aquila-Foggia), all’altezza del limes regionale, posiziona la barriera doganale. A nord del corso d’acqua (in territorio di S. Salvo), si nota la bonifica degli eredi di Carlo Nasci da cui si evince l’avvenuta formazione della parte orientale di Piane S. Angelo (notevole una bonifica già esistente al 1834!). Essa si trova a essere ricavata da una precedente laguna che doveva costituire la continuazione della stessa attestata cartograficamente in quel periodo nel territorio di Montenero di Bisaccia (l’indicazione non lascia equivoci nel progetto borbonico). E qui il tema diventa rilevante per il presente intervento. In effetti, lungo il cordone litoraneo (il cosiddetto tombolo, un corridoio sabbioso favorito da venti marini) che divide il bacino costiero dal mare si coglie la presenza di due «laghetti» che spiegano, sul piano della ricostruzione storica, la classificazione di quelli vastesi di Vignola. Cioè specchi d’acqua collocati all’interno di ciò che rientra nella contestualizzazione di «laguna morta», un ambiente completamente circondato da terraferma e senza sbocco al mare, caratterizzato esclusivamente da innalzamento e abbassamento delle maree. Qualcosa, cioè, di radicalmente diverso da quanto risulta storicamente accaduto alla foce del torrente Buonanotte, confine tra Vasto e S. Salvo, dove si è naturalmente realizzato un compiuto gioco di cordoni dunali, dune fisse, garighe, aree umide retrodunali, sopravvissuto all’urbanizzazione selvaggia e magnificamente restaurato come Giardino botanico mediterraneo. Ma tutto ciò non rientra nell’economia di questo articolo.
Al contrario, mi pare utile accennare alle zone umide della grande Padula di Vasto Marina parte delle quali bonificate nel 1914 (notizie su questa bonifica in F. Ciccarone, In memoria di Luigi Nasci, Vasto, Tip. Guzzetti, 1932, p. 27). Nel caso specifico, parlo della foce del Vallone del Ponte alla Marina, area già investita da protoindustrializzazione nel corso degli anni Sessanta dell’Ottocento. Da questo punto di vista, la ri-formazione di una vera e propria lama localizzata al punto 42.099525 Lat. N. 14.723112 Long. E delinea un’interessante avvisaglia della ripresa della Natura.
Non che sia una novità. Ma l’accumulo di acqua di piena in zone basse (nel Dizionario Abruzzese- Molisano [DAM] Ernesto Giammarco definisce lama, «ristagno d’acqua») che, nel caso specifico della Marina di Vasto, è determinato da un piccolo bacino idrografico alimentato da acqua piovana da individuare come processo di lamatura nella costituzione della palude. I processi di lamatura (in dialetto vastese, lamatîurә) hanno sempre caratterizzato la storia della città; soprattutto a partire dalle acque sotterrane che stagnano all’aperto, in aree piane pianeggianti. Per averne una qualche contezza è sufficiente tornare alla stessa antica denominazione vastese di Muro delle Lame (la vecchia via Adriatica caduta con la frana del 1956), addossato alla scarpata (in dialetto, ripa) orientale della città. Ma in questa sede – aggiungo – e mi riferisco alla lama lungo l’arenile di Vasto, segnatamente all’ultima ansa del Vallone del Ponte prima della foce (fig. 9).

(Fig. 9: Vasto. Lama alla foce del Vallone del Ponte alla Marina in periodo di piena.)
Tutto ciò rispetto allo stato odierno delle cose. Ma come riusciamo a coglier il rapporto tra l’ambiente originale e il contemporaneo? Anche in questo caso non possiamo sfuggire all’iconografia storica. Beninteso, non con una foto. In primo luogo, con un’altra tranche della citata carta del 1834 (figg. 10 e 10bis).

[Fig. 10Progetto della strada rotabile tra la Marina di Vasto e il Trigno (1834). Dettaglio]



 Qui si osserva il vallone del Ponte Marino nelle cui prossimità risulta indicata la Posta doganale (una localizzazione fino a oggi sconosciuta), e poco più a est l’area delle Fornaci. Ciò significa che in quella zona sarebbe potuto sussistere un porto della spiaggia, diversamente dagli altri della Meta e di Casarza documentati nei protocolli notarili dal XVI al XVIII secolo e, nel XIX, dagli altri del Trave e di Casarza. Ma stanno davvero in questo modo le cose? Del resto, senza voler trarre una conclusione affrettata, non è forse vero che una dogana risulta essere allocata dove sono presenti traffici? La domanda sembrerebbe trovare conferma in un passo dello storico Luigi Marchesani laddove cerca di spiegare il farraginoso meccanismo di sbarco che connetteva la Dogana ai caricatoi: «La priorità del naviglio non nell’arrivare alla spiaggia, ma in dichiarare alla Dogana la operazione, che intende fare, dà priorità ad eseguirla» (L. Marchesani, Storia di Vasto, a c. di L. Murolo, Vasto, Amministrazione Comunale, 1982, p.109). Il che vuol dire: la velocità delle operazioni di carico e scarico non dipendeva dall’attracco alla spiaggia (con ciò confermando l’esistenza di un porto), ma nelle pratiche da svolgere alla Dogana. L’importante, insomma, non consisteva tanto nel luogo dell’approdo (che sembrerebbe essere intercambiabile tra le diverse località), quanto dalla rapidità di comunicazione con l’ufficio preposto al controllo delle merci. Una notizia sicuramente importante. Ma che attende ancora il ritrovamento di una documentazione risolutiva. 
A questo punto vale la pena soffermarsi su un dettaglio del grande rotolo cartografico dell’arenile di Vasto conservato nell’Archivio Storico Comunale della città, che l’architetto Filippo De Blasiis disegna nel 1872 (un quarantennio dopo la redazione della mappa del 1834 e un quarantennio precedente la citata parziale bonifica del 1914). Ma andiamo per ordine (fig. 11).

Fig. 11 Pianta dell'Arenile di Vasto 1872
[Fig. 11: Arch. F. De Blasiis, Pianta dell’arenile di Vasto, 1872. 
Dettaglio (Vasto, Archivio Storico Comunale)
Ciò che indico con il n. 1 è la fascia di padule (metatesi di palude) che divide l’arenile dalla zona coltivata (a tal proposito, significativo il n. 2 che restituisce la coltivazione degli ulivi). Il n. 3 delinea la parte diradata della palude in piccole aree non superiori al tomolo destinate a pastino (proprietà di Giuseppe Celenza e Giuseppe Ferrante), a maggese (proprietà di Luigi Perrozzi), a seminativo a grano (proprietà di Giuseppe e Arcangelo Suriani e degli eredi Rulli) o, anche, incolto abbandonato (proprietà di Giovanni Laccetti). Il n. 4 – che individua l’opificio Graffigna, di cui non si conosce altra attestazione – è un’industria che, disponendosi sul versante nord del vallone, utilizza l’acqua che si impantana. Coincide con lo stesso sito in cui è stata scattata la foto della lama (fino a oggi – aggiungo – non ho trovato resti di archeologia industriale). Da quest’ultimo punto di vista, il n. 5 profila il tracciato del vallone con la messa in evidenza dell’ansa. Come si vede, stiamo parlando di un’area a bassissimo grado di antropizzazione segnata qua e là da tentativi di insediamento agricolo-industriale. In buona sostanza, ciò implica che il corso d’acqua a regime torrentizio si trova a segnare il confine tra campagna e palude. L’unico punto di congiunzione tra le due sponde risulta essere il ponticello ferroviario – non disegnato nella mappa in quanto molto più a ovest del tratto interessato – funzionante dal 1863, anno di inaugurazione della stessa ferrovia. L’unica documentazione esistente è l’edizione rivista nel 1850 dell’Atlante Rizzi Zannoni di quasi un quarantennio prima (1807). Su di essa viene elaborato il progetto borbonico di ferrovia (reso definitivo agli inizi del Regno d’Italia) di cui pubblico un dettaglio (Fig. 12). La freccia con il n. 1 indica il corso del vallone. Le frecce n. 2 segnano la linea tratteggiata della strada prevista, ma non realizzata nel 1863. Lo stesso ponte sul Vallone non avrebbe ancora trovato concretizzazione.

[Fig. 12Atlante Rizzi-Zannoni (1807) rielaborato per il progetto della Ferrovia (1850). Dettaglio]
E c’è ancora un altro problema. La mancata realizzazione della strada a quella data trascina con sé un aspetto troppo poco considerato. Vale a dire l’attraversamento dei binari. Di fatto, non risulta ancora realizzato il sottopassaggio. La soluzione complessiva sarà trovata solo nel 1905, il 1° luglio, quando verranno inaugurati tanto il sottopassaggio quanto il ponte di legno sul vallone del Ponte alla marina. Solo dopo questa data i birocci – lә bbicåttә, in dialetto vastese –saranno liberati dalla servitù del passaggio a livello – così come si osserva nella cartolina – (fig. 13)

[Fig. 13: I primi birocci che utilizzano il sottopassaggio ferroviario (1905). Cartolina. Collezione Ida Candeloro]

Va osservato, però, che il 1902 è l’anno in cui viene presentato il progetto per la realizzazione di entrambe le strutture. A favorire tale decisione, in realtà, sarà, sempre nello stesso anno, l’esondazione del vallone che, causando il deragliamento di un treno, cagionerà la morte di un giovane ferroviere bolognese. Da questo punto di vista, le pericolose lame prodotte da questo torrente ponevano le esigenze di bonifica per favorire una modernizzazione ancora di là da venire. Prima però di raggiungere questo risultato si doveva raggiungere una sistemazione degli argini per garantire la costruzione di un ponte in legno in grado di reggere un traffico a trazione animale in una zona – e lo si è detto – già investita da protoindustrializzazione (non più l’opificio Graffigna, ma l’oleificio Palmili). Anche in questo caso pubblico un dettaglio del progetto approvato dalla Capitaneria di porto il 24 settembre del 1902 (fig. 14).

[Fig. 14: Progetto per la realizzazione del ponte di legno sul Vallone alla marina con l’oleificio Palmili (1902). Dettaglio. Vasto, Archivio Storico Comunale]
A conti fatti, per non concludere, una cosa può essere detta: le lamature vecchie e nuove del vallone del Ponte alla Marina lasciano intendere che su tutta la padule su cui risulta sviluppata l’urbanizzazione di Vasto Marina. Così si legge nell’opuscolo elettorale dell’Amministrazione Nasci (1914):
Così pure si è ottenuto che lo Stato provvedesse alla bonifica del vallone Marina, onde in seguito sarà possibile il prolungamento della strada al di là del ponte, offrendosi così all’edilizia anche altri arenili e una comoda arteria principale lungo la spiaggia.
L’opera e il programma della presente Amministrazione Comunale, Vasto, Tip. Zaccagnini & Lattanzio, 1914, pp.12-13.
L’urbanizzazione nasce da qui. Con i villini che inizialmente potevano reggerla. Non con i grandi edifici che oggi la stravolgono. Con gli insediamenti massivi che eutrofizzano la marina di Vignola, Dove diventa sempre più difficile la convivenza tra acqua e terra con i continui allagamenti di Vasto Marina a ogni pioggia. Ma si è capito che la storia urbana della città si è giocata e si gioca sulla forza naturale delle lame? La stessa che sta oggi investendo l’area della Loggia Ambling. Ma quando si riuscirà a fare i conti con la storia? La risposta è in re ipsa. Molto semplice. Chi vuole intenderla già la conosce.


Pubblicato da Mercurio Saraceni


2 commenti:

  1. Prof. Murolo, mi sono sorpreso assorto e affascinato dalle ricostruzioni che ha esposto, così chiaramente supportato da utili immagini di vecchie stampe e attuali foto. Ho potuto apprendere cose sulla storia della città, e in questo caso della parte costiera, che ora mi permetteranno di vedere con nuovi occhi, più informati, il territorio rivierasco di Vasto, nonchè di valutare eventuali discorsi sulla sistemazione idrogeologica del territorio alla luce della lezione sulle lame che la Storia ci regala.

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  2. Ottimo per comprendere la morfologia attuale del territorio descritto nel vs lavoro

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