Gustav Mahler e gli echi di Màre Màjjǝ: variazioni sul tema
di Luigi Murolo
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G. Mahler
(Sinfonia n. 1 "Titano": Terzo movimento - Solenne e misurato, senza trascinare)
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Sarebbe bello ascoltare oggi dal vivo la Sinfonia
n. 1 in Re maggiore («Titano») di Gustav Mahler, il grande
compositore austriaco (1850-1911), ponendo soprattutto attenzione a quel terzo
movimento – «solenne e misurato, senza trascinare» – in cui l’autore rielabora,
tra l’altro, una melodia non solo nota nell’Impero asburgico, ma nello stesso
Abruzzo. Sarebbe bello – aggiungo – perché ci renderemmo conto di quanto, nella
Vienna fin de siècle, sopravvivessero ancora remote tracce musicali di
cultura balcanica popolare radicatasi, già nel XVI secolo, sul versante
occidentale dell’Adriatico. In effetti, la pagina mahleriana restituisce gli
echi lontanissimi di una melodia molto viva in ambiente vastese. Concepita “a
programma” (vale a dire, su riferimenti extramusicali), la sinfonia
reinterpreta parodisticamente una marcia funebre che ha il suo modello in una
grafica di Moritz von Schwind (1804-1871) illustrativa di una fiaba per bambini
centrata sul corteo funebre degli animali nei confronti del cacciatore (di
fatto, un rovesciamento dei valori antropologici: non il carnefice che accompagna
il feretro delle vittime, ma il contrario). Parlo della celebre incisione su
legno Wie die Thiere den Jäger begraben («Come gli animali seppelliscono
il cacciatore») [fig. 1].
(Fig. 1: M. von Schwind, «Come gli animali seppelliscono il cacciatore» - 1850)
Qui,
nel recupero di antichi temi popolari, per la prima volta, Mahler teorizza il
concetto di Naturlaut (suono della natura) dove natura coincide con la
totalità di suoni provenienti dal mondo e dalla vita: versi di uccelli, marce,
segnali militari, frammenti di canzoni ecc. Non così come si originano, ma come
sono ricostruiti attraverso quel processo di ricreazione e di riappropriazione
tipico dell’arte. In questo riuso della citazione (non dissimile dalla
successiva poetica dell’invenzione dannunziana) Mahler assembla tutto quanto è
necessario alla produzione estetica delle sue singole opere: anche una vecchia
melodia ritenuta tra l’altro ebraica – ed è quella che ci interessa – rientra
in questa singolare fucina dell’artiere.
Derivazione
ebraica, si diceva. In realtà, gli studi di Ernesto De Martino (Morte e
pianto rituale nel mondo antico [1958]) riconducono quelle sonorità a un
archetipo balto-slavo (connesso tanto alle comunità balcaniche dell’impero
asburgico quanto a quelle più antiche croate soggette alle transizioni
adriatiche dei secc. XV e XVI). Ma, a conti fatti, nell’un caso o nell’altro,
rimane un solo dato: l’ascolto degli echi di Màre májjǝ, il celebre
lamento vastese di una vedova, che provengono dal terzo movimento della citata
prima sinfonia mahleriana. Per una singolare coincidenza cronologica va
segnalata, nello stesso anno della morte di Mahler – 1911 –, la pubblicazione
da parte dell’Accademia delle Scienze di Vienna dell’opera di Milan Rešetar dal
titolo Die Serbokroatischen Kolonien in Süditaliens (Le colonie
serbocroate nell’Italia Meridionale) relativa alle sopravvivenze culturali
metanastasiche della migrazione croata lungo la Valle del Trigno.
In
ogni caso va ricordato che la notizia iniziale sulla testualità di questo canto
non concerne Vasto e il suo territorio di riferimento, ma Scanno e l’area della
valle del Sagittario. In effetti, il primo a parlarne è Vincenzo Simoncelli (1850-1917)
che, nel fascicolo inaugurale del «Giambattista Basile. Archivio di letteratura
popolare e dialettale» (1883), rivista diretta da Luigi Molinaro del Chiaro,
alle pp. 54-55, pubblica un testo di nove strofe – Il pianto della vedova
– raccolto dalla voce di Giovanni Graziani di Villetta
Barrea (versione che riporto in appendice). Sempre sulla stessa testata,
nel n. 10, Antonio De Nino, intervenendo sullo stesso argomento, precisa che il
componimento si sviluppa in 17 strofe e che per la prima volta attribuisce
all’arciprete Sebastiano Mascetta di Colledimacine scritte intorno al 1830. Dal
canto suo, Gennaro Finamore, nel 1905, sulle pagine della «Rivista Abruzzese»
pubblica un testo di nove strofe analogo a quello di Scanno, attribuito sempre
a Mascetta. E che differisce per una strofa in meno rispetto alle dieci vastesi
contenute nello scartafaccio di una conferenza manoscritta di Luigi Anelli (Come
canta il popolo vastese) conservata nell’Archivio Storico Comunale di
Vasto. Questa, in breve, la traditio della scrittura che, data la diversità
«codicologica» esistente tra la versione di De Nino e quella di Finamore, rinvia
a un archetipo ancora da individuare da cui sembra dipendere la stessa lectio
letteraria del Mascetta.
Al
contrario, per quanto è dato di sapere, la prima trascrizione musicale (con un
testo molto ridotto) del canto popolare in questione data 1927 e è dovuta a
Ettore Montanaro. C’è da aggiungere, inoltre, che è solo grazie a questo lavoro
(definito dall’autore secundo «alla maniera di Vasto») che la melodia
comincia a circolare negli ambienti specialistici. Tal che, volendo ricondurre
il tutto a un raffronto con la struttura musicale mahleriana, si può dire che,
dal punto di vista narrativo, il testo vastese non ha nulla di parodistico.
Anzi, è un pezzo chiave sulla condizione della donna nell’Ottocento e denunzia
le vessazioni che essa è costretta a subire nel momento della vedovanza. Un pathos
tragico, insomma, dolente, che nulla ha da dividere con l’universo a rovescio tracciato
da Mahler. Al contrario, sul piano dell’archeologia musicale abruzzese, gli
stessi successivi interventi musicologici (con la definitiva formalizzazione
operata da Antonio Zaccardi) non si sarebbero discostati dalla pionieristica
trascrizione di Montanaro.
Ora qui si esclude volutamente la discussione
filologica sulle varianti letterarie abruzzesi di Màre majjǝ. Molto più
semplicemente, ciò che interessa sottolineare in questa sede è il modo in cui
le sonorità parodistiche del funerale mahleriano si trovano a interpretare, del
tutto inconsapevolmente, il dramma antropologico-sociale della morte del marito
in un ambiente popolare. Ci si trova di fronte a una struttura musicale aperta,
il cui canone riesce a giocare in contesti diversi, e capace di profilare una
duttile sovrapposizione tra culto e inculto. C’è da dire, però, che la tradizione popolare
mitteleuropea restituita dal grande compositore austriaco torna per intero in
un musical del 1964 di Jerry Bock (musica) e Sheldon Harnick (libretto) – Fiddler
on the Roof (Il violinista
sul tetto), basato sulle storie di Sholom Aleichen – che a Broadway ha
tenuto banco con 3242 repliche per un decennio, le più longeve di tutta la
storia del musical [fig. 2].
(Fig. 2: la locandina del music-hall "Fiddler on the Roof" - copertina di LP)
Qui gli echi di Màre májje in chiave
ebraica (molto aderenti alla versione melodica vastese) hanno riscosso un
successo straordinario, soprattutto grazie al touch inconfondibile di
Zero Mostel. Dove, per inciso, vale la pena ricordare come il tema del
violinista sul tetto risulti essere una costante della pittura di Marc Chagall
volta a dimostrare (almeno è ciò che pare) l’importanza dei violinisti klezmer
nella cultura ebraica. Lo stesso film di Norman Jewison girato nel 1971 ha reso
analogo servizio alla diffusione planetaria della melodia di Màre májjǝ (insinuata
mirabilmente in sottovoce nel brano dal titolo If I were a rich man) [fig.
3].
(Fig. 3: la locandina del film "Fiddler on the roof" - 1971)
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A conferma di ciò, vien dato di pensare (ma è solo una personale suggestione) che
sia stato proprio questo film a suggerire l’inserimento della variante vastese
del Lamento di una vedova in quella pellicola prodotta nel 1973 dal
titolo chilometrico e diretta da Lina Wertmüller che recita Film d’amore e d’anarchia ovvero stamattina
alle 10 in via dei fiori nella nota casa di tolleranza [fig. 4].
(Fig.
4: la locandina del film)
(Link collegamento Youtube)
Che
dire di più. La pagina mahleriana offre la possibilità di rileggere in un modo
diverso l’antropologia della cultura popolare vastese e del territorio di cui è
polo di riferimento. Consente altresì la possibilità di slargare, con
fondamenti reali, la tradizione cittadina al contesto della grande musica
sinfonica. Non solo un auspicio. Ma, soprattutto, un aspetto su cui riflettere
intensamente.
Il pianto della vedova
Testo raccolto da Vincenzo
Simoncelli (1883) sulla base dell’informatore Giovanni Graziani da
Villetta Barrea
1.
Scura maja, scura maja!
Te si’ muort’ chigna facce?
Mo me stracce trecce e facce,
Mo me jatte ’ngoj’ a taja:
Scura maja, scura maja!
2.
Primma tenea ’na casarella,
Mo ’ntieng’ chiù reciette.
Senza fuoche e senza liette,
Senza pane e cumpanaja:
Scura maja, scura maja!
3.
M’ha lasciata ’na famija
Scàuza e nuda, appetitosa;
E la notte ci sgeveja
Vûne ju pane e i’ ne’ l’aja:
Scura maja, scura maja!
4.
Ieri jeje a ju cumpare,
A cerché la carité,
Me feceje’ ‘na strellota
Me menaje ’na staja:
Scura maja, scura maja!
5.
Sci’ mmajtt’, sci’ mmajtt’,
Quanno
bene ch’ ’nt’ aje fatte!
Pe’ lu scianghe de la jatta
Pròpia straja m’aj’ a faja
Scura maja, scura maja!
6.
E la notte a l’impruvisa,
Quann’ durme, a l’ensaputa,
Aja ’ntrà’ pe’ la caùta,
Tutt’ le scianghe me t’aja vaja:
Scura maja, scura maja!
7.
Stava grassa chinta a ’n’orsa,
Me so’ fatta scecca scecca
’Nc’
è nu cone che me lecca,
Chi me scaccia e chi m’abbaja:
Scura maja, scura maja!
8.
A ju ciel’ che ’nci aje fatt’?
A
ju munne puverella,
So’ remasta vudovella,
Mo m’arraja, mo m’arraja:
Scura maja, scura maja!
9.
Oh! ju ciele, famm’ascì,
Pe’ marite nu struppone
Ca se n’aje ju muntone,
La cacciuna sempre abbaja:
Scura maja, scura maja!.”.
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