Ing. Antonio Izzi (1898-1942) progetto villino, Vasto Marina
«Borghi Nuovi». Considerazioni sui centri urbani di neofondazione in Abruzzo e Molise durante il fascismo
di Luigi Murolo
Città
e borghi di nuova fondazione costituiscono un tema fondamentale
dell’insediamento sociale e abitativo del fascismo nella società italiana. La
politica urbanistica rappresenta l’altra faccia del controllo sociale del
territorio, soprattutto nelle aree marginali. Ma di là dalle definizioni
generiche che nulla dicono intorno alle scelte degli architetti di regime,
occorre cercare di “leggere” entro i singoli episodi le diverse tipologie che
ne hanno caratterizzato la realizzazione. Mussolinia di Sardegna (dal
1944 Arborea) è il primo esempio noto (1928) di siffatto modello progettuale.
Nessuno però fino a oggi ha considerato l’impianto di Piazza Rossetti e
di Corso Littorio (poi Nuova Italia) – pensato nel 1924 e cominciato a
essere attuato sempre nello stesso anno – come testimonianza di un razionalismo
urbanistico novecentesco anteriore a quello enunciato da Mussolini nel
cosiddetto Discorso dell’Ascensione del 26 maggio 1927 (appena due anni
dopo l’inaugurazione di Piazza Rossetti e del primo dei due palazzi scolastici.
Il “discorso” per un verso sottolineava la contrarietà all’inurbamento dei
vecchi centri, per l’altro favoriva gli insediamenti ex-novo). La ragione di
questo assunto è semplice. Nel caso di Vasto non si tratta della sola
costruzione strutturazione di una nuova piazza, ma della definizione di
un’intera area residenziale destinata a classi medio-alte, con palazzo degli
studi, sala cinematografica e uffici (il secondo palazzo scolastico da
utilizzare come sede istituzionale del Comune). Da questo punto di vista, si
può solo affermare che ci si trova di fronte a una vera e propria garden
city (a tal proposito, si veda il progetto per il Testaccio a Roma);
di un’edilizia caratterizzata da giardini (ne sopravvive ancora qualcuno),
avente un duplice scopo: da un lato, liberare la nuova middle class [?]
dell’epoca dal sovrappopolamento dei bassi e del centro antico (torna utile
ricordare, ad esempio, che la grande maggioranza delle case “appigionate” non
era dotata di servizi igienici interni! Il che voleva dire scaricare gli
orinali alle ripe della Madonna delle Grazie, delle Lame, della Catena
con tutte le conseguenze immaginabili); dall’altro, dare ordine urbanistico a
un “vuoto” chiuso su tre lati.
Ecco
allora il punto. Quando Mussolinia di Sardegna viene concepita nel 1928
come centro di bonifica integrale (per altro già avviato in età giolittiana).
Al contrario, «fórә a la pórtә di lu Quaštèllә» già si misura con un
diverso rapporto tra gli spazi e i ‘pieni’ allora tendenti al gusto
dell’eclettismo, con una città che torna demograficamente a crescere tra il
1921 e il 1931. Esprime una progettualità tutta propria, del tutto estranea ai
modelli “popolari” e “proletari” che saranno favoriti dal Fascismo. E ciò in
piena continuità con gli interventi di qualche anno prima in quello stesso
centro antico di Vasto che era stato investito da analoghi cambiamenti: il
diradamento della Corsea, l’installazione del Monumento ai caduti,
il rifacimento della Cattedrale (con il massiccio finanziamento dei
Genova-Rulli), la trasformazione in abitazione del muro ovest del convento
agostiniano, la costruzione ex-novo di Palazzo Ritucci-Chinni. Aspirazioni di
una vecchia e ricca borghesia notabilare estranea alle tematiche della massa.
E, soprattutto, in tale contesto, sottolineata dalla rimozione dell’unico
elemento «vasciaiuolo» presente nell’allora salotto buono della città: vale a
dire, la Fontana [fig. 1], trasferita in Piazza Barbacani
nel 1927 e inaugurata il 6 novembre [fig. 2].
(Fig.
2:
Vasto. L’inaugurazione della fontana ridislocata)
Inoltre,
non va dimenticata la riqualificazione urbana di un’area popolare come quella
di S. Maria in seguito a uno dei tanti movimenti franosi che hanno interessato
la città. E a proposito di ciò, posso aggiungere che conosco una solo foto
anteriore al 1956 in cui è possibile osservareil devastante effetto prodotto da
un imponente scoscendimento di terreno susseguente a violenti fenomeni
atmosferici. Parlo, infatti, dello scatto realizzata in seguito alla frana
dell’8 aprile 1919 avvenuta sul versante sud-orientale che qui pubblico (interessata,
nello stesso anno, da altre due meno violente il 29 aprile e il 21 dicembre). Mi
riferisco alla cosiddetta Loggia Amblingh, un edificio costruito dopo il
1709, localizzato nelle prossimità di casa Rossetti tra gli attuali largo Piave
e piazza Lupacchino. E che sarebbe crollata proprio in quella occasione insieme
con l’abitazione natale dell’ex sulimmeritus (fig. 3), totalmente
sventrata, di cui – come si vede – era rimasto in piedi il solo paramento
murario occidentale (fig.4).
(Fig.
3:
Vasto. Casa Rossetti prima della frana (8 aprile 1919)
(Fig.4:
Vasto. Resti di casa Rossetti successivi al crollo causato dalla frana del
1919)
Ciò
che stupisce, tra l’altro, è che nessuno abbia preso in seria considerazione la
pericolosità degli scoscendimenti di quest’area, ritenuti non assimilabili a
quelli del Muro delle Lame (1956). Eppure l’avvenuto drenaggio delle acque nel
1927 sottolinea la forte ruscellazione sotto la balconata (Fig. 5).
L’attuale passeggiata panoramica altro non costituisce che il muro di
contenimento – edificato otto anni più tardi, nel 1927 – che, in una foto dello
stesso periodo, mostra ancora persistente il diroccamento di casa Rossetti (Fig.
6). Il rudere viene acquistato l’8 febbraio 1925 dal comitato presieduto da
Gelsomino Zaccagnini (l’anno prima dell’inaugurazione del monumento a
Gabriele), non senza la preventiva dichiarazione di monumento nazione con R.D.
17 aprile 1924, n.618. La donazione al Comune di Vasto viene perfezionata nella
primavera del 1929, qualche mese prima della morte dello stesso Zaccagnini.
Poi, quasi novant’anni più tardi – il 24 gennaio 2015 – ,il crollo della cinta
orientale del giardino d’Avalos [foto 7]. Ma questa è un’altra storia.
(Fig.
5:
Vasto. 1927: Drenaggio delle acque sotto casa Rossetti)
(Fig.6:
Vasto. 1927: La realizzazione della nuova passeggiata panoramica denominata Loggia
Amblingh in omaggio all’edificio caduto. La via panoramica si addossa quale
rinforzo statico dell’antica cinta muraria. A sinistra il rudere di casa
Rossetti)
(Fig.
7:
Il crollo del muro di cinta del Giardino d’Avalos.)
Gli
anni 1922-1927 (salvo il precedente intervento del 1912 relativo a Corso De
Parma) ridisegnano in modo funzionale l’antica forma urbis che si
completa con la realizzazione del primo lotto della Villa Comunale
(1923). Ma vero nodo strategico rimane il «nuovo» impianto urbano complessivo
della città, con la «firma» ancora visibile sugli angoli del coronamento del
secondo palazzo scolastico (fig. 7b).
(Fig.
7b:
Coronamento del secondo Palazzo scolastico)
Ora,
pur parlando di borgo moderno di neofondazione (progettato e realizzato ex
novo), incontriamo due diverse narrazioni che lo rendono diverso dal
contemporaneo modello fascista: da un lato, la tipologia sociale
dell’insediamento (come già detto, rivolto alla middle class vastese
dell’epoca); dall’altro, la forma dell’investimento (non si tratta di un
intervento diretto dello Stato, ma di una lottizzazione di terra comunale
rivolta a privati e gestita dal comune stesso). Al contrario, diversamente da
questi due aspetti, l’impianto si trova in perfetta coerenza con il Discorso
dell’Ascensione: vale a dire il meccanismo non favorisce nuovo urbanesimo
ma ridisloca sul territorio la popolazione esistente. Del resto, è ciò che,
sempre a Vasto, sarebbe capitato a un segmento del mondo contadino: il
bracciantato agricolo, che viveva in città. Sarebbe stato allontanato da
quest’ultima e ricollocato nella campagna con quei contratti di mezzadria
considerati elementi chiave del corporativismo. Ma torniamo alla piazza.
Dall’iniziale progetto Annibale Sprega – Luigi Pietrocola del 1903 che
prevedeva un unico edificio compreso tra le attuali via Vittorio Veneto e via
Cavour – affacciantesi interamente sull’attuale piazza Rossetti (fig. 8) avrebbero determinato la nascita del corso Littorio-Nuova Italia. Il progetto
generale dell’ing. Antonio Mancia approvato il 4 marzo 1924 (il primo dei due
edifici inaugurato nel 1926) sarebbe stato ripresentato nel 1928 dall’ing.
Antonio Izzi, direttore dei lavori della seconda unità edilizia, approvato il
25 giugno 1929 con il completamento nel 1933 (fig. 9). Quasi non
bastasse, lo stesso ing. Izzi aveva ricevuto la committenza per realizzare il
progetto del Politeama Ruzzi (iniziato nel 1931), sottolineando nel disegno la
forte rappresentatività che la nuova area residenziale avrebbe dovuto assumere
(fig. 10).
(Fig.
8: Vasto. Progetto Sprega-Pietrocola (1903). In alto, la successiva
Piazza Rossetti con la chiusura a sud, senza il corso)
(Fig.
9:
Vasto. Progetto Mancia (1924) riproposto dall’ing. Izzi (1929). Il Corso
è concepito come un boulevard che si proietta all’infinito.)
(Fig. 10: Vasto, Politeama
Ruzzi. Prospetto ing. Antonio Izzi (1929). L’edificio testimonia l’alta
progettualità residenziale dell’area.)
Ora,
se questa risulta essere una neo fondazione di una parte urbana di città, vale la
pena chiedersi se esistono in Abruzzo e in Molise esempi riconducibili a una
progettualità di questo tipo in periodo fascista. Ne sono pochi, è vero. Ma
comunque presenti. Mi piace soprattutto iniziare con Nuova Cliternia di
Campomarino (con il recupero funzionale del Santuario di “Madonna Grande”)
proprio perché realizzata tra il 1922 e il 1929, gli stessi anni di Vasto.
Anche se risulta avviata in un periodo anteriore al Discorso dell’Ascensione,
di fatto presenta il modello base del regime: vale a dire, una piazza centrale
con Torre Littoria intorno alla quale sarebbero dovuti essere eretti
municipio, chiesa, casa del fascio, caserma MVSN, ufficio postale, scuola (come
si può notare, tutti aspetti che non coincidono con il paradigma residenziale
vastese). Esemplificativa, a tal proposito, una foto aerea d’insieme del 1962 [fig.
11].
(Fig.
11:
Campomarino. La ridefinizione del santuario di Madonna Grande)
Altra
traccia importante è il Villaggio Celdit di Chieti (Scalo) sorto nel
1939/40 come insediamento operaio nei pressi della stazione ferroviaria [fig.
12]. In realtà, fin dal 1880 l’area era stata interessata dall’industria
Calvi per la produzione di macchine agricole. Nel 1936, in via Colonnetta,
sarebbe stata realizzata la Manifattura Tabacchi a forte occupazione stagionale
femminile. Ma la vera strutturazione urbanistica veniva determinata dalla
società Celdit [acronimo di Cellulosa d’Italia] fondata nel 1935
dai capitali dell’ing. chietino Ottorino Pomilio e della cartiera Luigi Burgo
che, utilizzando il brevetto dello stesso Pomilio per la produzione di
cellulosa con processo al cloro applicato ai vegetali, realizzava un’industria
per la fabbricazione di cellulosa dalla paglia e non dal legno. Intorno a
questa azienda (che deteneva il monopolio di tale prodotto attraverso gli
stabilimenti di Chieti e di Foggia) – denominata la «balena bianca» per il
latteo edificio rilucente nel verde della valle della Pescara – veniva
organizzandosi il villaggio, funzionale all’abitazione popolare delle
maestranze [fig. 13]. Non vi sono dubbi. Il continuo incontro allo scalo
di uomini e cose figurava lo scambio mobile tra materia prima e prodotto finito
che lì s’intrecciava.
(Fig.
12:
Chieti.Villaggio Celdit)
(Fig.
13:
Chieti.Villaggio Celdit. Unità abitativa)
Ecco
allora il punto. La stazione è una delle polarità dell’insediamento fascista in
Abruzzo. Lo si rileva anche a Aielli e a San Salvo. Nel primo caso – Aielli –,
il terremoto della Marsica del 1915, avendo determinato la distruzione del
vecchio borgo, aveva favorito lo spostamento delle nuove costruzioni verso lo
scalo allocato sulla linea ferrata Pescara-Roma. Ma solo sotto il regime di
Mussolini, con l’interessamento di Guido Letta – un prefetto del Regno
originario di quel paese –, la stazione (con le casette antisismiche) sarebbe
divenuta snodo urbano. Il 26 settembre 1937 il gran commis dello Stato
fascista inaugurava la Chiesa [fig. 14] insieme con il vicino Sacrario
ai Caduti [fig. 15], alla Casa Littoria con annesso
dopolavoro, il cinema e l’albergo diurno. Ma l’intitolazione dell’ecclesia a S.
Adolfo (oggi S. Giuseppe) la dice lunga sull’indirizzo ideologico
del prefetto (sostenitore, tra l’altro, delle leggi sulla razza). Ma non è ciò
che importa in questa sede. Al contrario, interessa la funzione che avrebbe
dovuto assolvere il nuovo sito. In buona sostanza, un diverso centro,
sostitutivo del precedente e sede del nuovo municipio. E con un risultato
inatteso per le autorità del regime: l’operazione non riuscita per la
ribellione degli abitanti.
(Fig.
14:
Aielli. chiesa di S. Adolfo, oggi di S. Giuseppe)
(Fig.
15:
Aielli. Sacrario dei Caduti)
Dal canto suo, il «borgo-stazione» di San
Salvo previsto dal fascismo non implicava una tipologia insediativa di
trasferimento della città lungo la costa, ma una “colonizzazione” contadina
connessa con gli effetti delle bonifiche della risaia e delle terre malariche
il cui nodo era costituito dalla stazione ferroviaria (fig. 16). E
perché no, della stessa sistemazione idraulica del bacino fluviale del basso
Trigno. Come si può notare, qualcosa di molto più prossimo a quanto il regime
stava realizzando nell’Agro Pontino. Nel caso specifico, una trasformazione
della Piana e della Padula che avrebbe incorporato lo stesso percorso
tratturale compreso tra il vallone di Buonanotte e il Formale del Molino. Tra
il 1939 e il 1940 (dopo la realizzazione due anni prima di un silos per l’immagazzinamento del grano) [fig. 17] sarebbero stati costruiti alcuni
edifici per ospitare uffici pubblici, scuole, infermeria e altri servizi
(alcuni di quei manufatti edilizi sopravvivono ancora come quelli della vecchia
stazione). L’entrata in guerra dell’Italia ne avrebbe bloccato il
completamento.
(Fig.
16: San Salvo.Unità abitative nei pressi della vecchia Stazione
ferroviaria)
(Fig.
17: San Salvo. Silos)
Tra
i comuni di neofondazione il più rilevante, oggi – almeno dal punto della
conservazione –, è Salle, denominata sotto il fascismo Salle del Littorio.
Certo, la comunità, nel tempo, ha subito diverse migrazioni (da questo punto di
vista, l’attributo sallese – che indica l’abitante del paese – sarebbe stato successivamente cognomizzato,
designando il migrante proveniente da Salle. Sallese, ad esempio, è un
cognome piuttosto diffuso a Vasto). Va detto, però, che il vero e proprio
trasferimento insediativo (con l’allocazione urbanistica in un sito più in
basso rispetto all’antico, ex feudo dei baroni Genova di Vasto) si sarebbe
cominciato a manifestare dopo il terremoto della Marsica (1915) quando il paese
avrebbe subito il primo forte decremento demografico novecentesco (tra i censimenti
del 1911 e del 1921 viene registrata la perdita del 25% della popolazione).
Ecco allora il punto. La costruzione del nuovo borgo viene conclusa nel 1933:
lo testimonia un’iscrizione da poco ricollocata all’interno del Comune e che,
qualche anno fa, ha suscitato forti polemiche (fig. 18). Ma di là
dall’impianto urbanistico (coerente con l’architettura neofondativa del
Regime), Salle si presenta come una sorta di museo del fascismo all’aperto (che
apre un’importante discussione sui beni culturali). Oltre all’epigrafe su
ricordata, il viale che conduce dalla piazza principale (con il municipio, la
scuola, la chiesa, l’ufficio postale) alla fontana ha una denominazione
emblematica: via dell’Impero (fig.19). Lungo il percorso, si
incontra un’effigie di Mussolini con il motto sottostante che recita: «Noi
tireremo diritto» (fig.20). Al termine della strada, sulla testata della
fontana e al di sopra della cannella, un fascio littorio centralmente disposto
con la data A XI (1933) che chiude il tracciato (fig. 21). Sullo sfondo,
l’indicazione delle Museo delle corde armoniche, storica produzione artigianale
sallese oggi conosciuta in particolare da musicisti interpreti di composizioni
barocche.
(Fig.
18:
Salle. Iscrizione con dedica a Mussolini)
(Fig.
19:
Salle. Targa stradale con indicazione toponomastica “Via dell’Impero”)
(Fig.
20:
Testa in anilina di Mussolini con slogan dell’epoca)
(Fig.21:
Salle. Fontana con fascio littorio)
Le
tracce sono lì, visibili, e celate a chi non vuole vederle. Sono mute. Mute
perché nessuno ha deciso di studiarle. Vivono. Vivono sopravvivendo a sé stesse
perché solo il silenzio ha avuto la pietas di avvolgerle nei panni
dell’oblio.
Il
tutto relativo a un comune in provincia di Pescara, con meno di trecento
abitanti, ai piedi del Morrone.
Pubblicato da Mercurio Saraceni
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