Dipartimento di Studi e Ricerche sulla Storia di Vasto

sabato 4 aprile 2020

Polifemo: a proposito di una novella popolare in dialetto vastese




 Polifemo: a proposito di una novella popolare in dialetto vastese

(In fondo alla pagina il video con commento e lettura in dialetto vastese 
di Luigi Murolo)

di Luigi Murolo

La favuluàttǝ dell’ùcchijǝ ‘m bràndǝ è il titolo con cui Gennaro Finamore restituisce agli studiosi di demologia suoi contemporanei una storia di ciclopi attestata nella tradizione popolare vastese che gli viene trasmessa da uno dei suoi informatori locali – molto probabilmente Adelfo Mayo –. Il testo, che si presenta come variante dell’archetipo omerico di Polifemo, è trascritto nel dialetto di Vasto e pubblicato nelle Novelle popolari abruzzesi, seconda parte, Lanciano, Carabba, 1885, pp. 57-58. Ciò vuol dire che, almeno fino all’ultimo ventennio dell’Ottocento, la cultura orale della città conserva sopravvivenze di lezioni arcaiche.

Si potrebbe facilmente pensare che si tratti di una rielaborazione popolaresca prodotta in ambito culto. Al contrario, proprio perché era viva la presenza di tali racconti in altri contesti, deve essere giocoforza considerata attiva la sopravvivenza di un canone originario che, nella sua infinita ripetitività, riesce a adeguarsi in quegli ambiti comunitari in cui risulta operativo. Aby Warburg, ad esempio, nella sua indagine iconologica, ricercava nell’arte rinascimentale la sopravvivenza del gesto espressivo di derivazione classica. Che, nella sua massima radicalità, si trasformava perfino nel suo opposto: quasi a sottostare a una sorta di legge del contrappasso. Così, più che percorrere il versante delle pathosformeln più consuete come Orfeo, la centauromachia, la Ninfa, la tradizione orale vastese esibisce il mito di Polifemo. Che proprio per la sua forte carica espressiva si mostra sviluppato nella variante di canone inverso all’archetipo omerico (meccanismo tipico delle omologhe composizioni contrappuntistiche).
In buona sostanza, emerge il seguente stato narrativo. Soppressa la figura di Ulisse, restano solo livacabbȋndǝ che, ingannando proditoriamente il gigante, rispondono in modo esemplare e sintetico allo schema narratologico dell’attanzialità: manipolazione, competenza, performanza, sanzione. Dal canto suo, Polifemo risulta essere un personaggio presentato in modo radicalmente diverso da ciò che il mito acheo enuncia nei termini che seguono (vale la pena in questo caso l’idea di utilizzare la vecchia traduzione classicista di Ippolito Pindemonte):

Uom gigantesco abita qui, che lunge
Pasturava le pecore solingo.
In disparte costui vivea da tutti,
E cose inique nella mente cruda
Covava: orrendo mostro, né sembiante
Punto alla stirpe, che di pan si nutre,
Ma più presto al cucuzzolo selvoso
D’una montagna smisurata, dove
Non gli s’alzi da presso altro cacume.
(Odissea, IX, vv. 236-244)

Non v’è alcuno di questi aspetti nel ciclope di cui stiamo parlando. La tradizione orale vastese ancora viva nel tardo Ottocento parla solo di un gigante con un solo occhio. Ma le sue caratteristiche sono quelle di un uomo. Di un uomo a tutti gli effetti. Talmente umano, da risultare perfino vittima di un gruppo di teppisti (vacabbȋndǝ) che, per gioco, lo acceca. La sua risposta è «prudente». «Prudente» secondo l’accezione greca del termine: mètis. È dotato, cioè, di quella stessa intelligenza che connota l’operare di Ulisse. Sa governare e fronteggiare forze ostili. Sa utilizzare tutti i possibili dispositivi («virtute e canoscenza»). Anche la magia, se necessaria. Dunque, mostra di saper valicare gli ostacoli anche in opposizione alla legge di Ananke, la dea del fato, della necessità.
Come si può notare, le res gestae del Polifemo vastese delineano il canone inverso di Odisseo. La metis del gigante con l’occhio in fronte, dal punto di vista della rappresentazione, sostituisce quella del Laerziade. Anche se è divenuto cieco – e in condizione di inferiorità rispetto ai suoi torturatori – riesce comunque a vincere la sua battaglia. Un racconto – quello sul Ciclope – che esclude, nell’orizzonte dell’universo omerico, la presenza di Diomede, l’eroe della guerra di Troia in seguito interpretato come il riferimento mitico della civilizzazione adriatica.

 Polifemo: LA FAVULATTE

(Testo - LA FAVULATTE)

Quando nel corso del XVII secolo la terra del Vasto sceglie il Tidide come fondatore eponimo della città, relega in un cantuccio la sopravvivenza mitica del cunto sul «gigante con l’occhio in fronte». La dissimula in una semplice fahuluàttǝ. Che, malgrado tutto, ha continuato a permanere nell’alterità del «visibile parlare». In quell’orizzonte della cultura orale che, sfumando tutte le temporalità, l’ha conservata e trasmessa nella lingua parallela a quella culta: il dialetto. E che da quelle profondità, qualcuno ha deciso di trarla allo scoperto. Un archeologo delle immagini mobili della voce che ha deciso di fissarle per sempre nella scrittura. Così Gennaro Finamore ha restituito a contemporanei e successori il senso arcaico della parola.


La favuluàttǝ dell’ùcchijǝ ‘m bràndǝ

(Video con commento e lettura in dialetto vastese di Luigi Murolo)





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