(In fondo alla pagina il video con commento e lettura in dialetto vastese
di Luigi Murolo)
di Luigi Murolo)
di
Luigi Murolo
La
favuluàttǝ dell’ùcchijǝ ‘m bràndǝ è il titolo con
cui Gennaro Finamore restituisce agli studiosi di demologia suoi contemporanei una
storia di ciclopi attestata nella tradizione popolare vastese che gli viene trasmessa
da uno dei suoi informatori locali – molto probabilmente Adelfo Mayo –. Il
testo, che si presenta come variante dell’archetipo omerico di Polifemo, è
trascritto nel dialetto di Vasto e pubblicato nelle Novelle popolari
abruzzesi, seconda parte, Lanciano, Carabba, 1885, pp. 57-58. Ciò vuol dire
che, almeno fino all’ultimo ventennio dell’Ottocento, la cultura orale della
città conserva sopravvivenze di lezioni arcaiche.
Si
potrebbe facilmente pensare che si tratti di una rielaborazione popolaresca
prodotta in ambito culto. Al contrario, proprio perché era viva la presenza di
tali racconti in altri contesti, deve essere giocoforza considerata attiva la
sopravvivenza di un canone originario che, nella sua infinita ripetitività,
riesce a adeguarsi in quegli ambiti comunitari in cui risulta operativo. Aby
Warburg, ad esempio, nella sua indagine iconologica, ricercava nell’arte
rinascimentale la sopravvivenza del gesto espressivo di derivazione
classica. Che, nella sua massima radicalità, si trasformava perfino nel suo
opposto: quasi a sottostare a una sorta di legge del contrappasso. Così, più che
percorrere il versante delle pathosformeln più consuete come Orfeo, la
centauromachia, la Ninfa, la tradizione orale vastese esibisce il mito di
Polifemo. Che proprio per la sua forte carica espressiva si mostra sviluppato nella
variante di canone inverso all’archetipo omerico (meccanismo tipico delle
omologhe composizioni contrappuntistiche).
In
buona sostanza, emerge il seguente stato narrativo. Soppressa la figura di
Ulisse, restano solo livacabbȋndǝ che, ingannando proditoriamente il
gigante, rispondono in modo esemplare e sintetico allo schema narratologico
dell’attanzialità: manipolazione, competenza, performanza, sanzione. Dal canto
suo, Polifemo risulta essere un personaggio presentato in modo radicalmente
diverso da ciò che il mito acheo enuncia nei termini che seguono (vale la pena
in questo caso l’idea di utilizzare la vecchia traduzione classicista di
Ippolito Pindemonte):
Uom gigantesco abita qui, che lunge
Pasturava
le pecore solingo.
In
disparte costui vivea da tutti,
E
cose inique nella mente cruda
Covava:
orrendo mostro, né sembiante
Punto
alla stirpe, che di pan si nutre,
Ma
più presto al cucuzzolo selvoso
D’una
montagna smisurata, dove
Non
gli s’alzi da presso altro cacume.
(Odissea,
IX, vv. 236-244)
Non
v’è alcuno di questi aspetti nel ciclope di cui stiamo parlando. La tradizione
orale vastese ancora viva nel tardo Ottocento parla solo di un gigante con un
solo occhio. Ma le sue caratteristiche sono quelle di un uomo. Di un uomo a tutti
gli effetti. Talmente umano, da risultare perfino vittima di un gruppo di
teppisti (vacabbȋndǝ) che, per gioco, lo acceca. La sua risposta è «prudente». «Prudente» secondo l’accezione greca del
termine: mètis. È dotato, cioè, di quella stessa intelligenza che
connota l’operare di Ulisse. Sa governare e fronteggiare forze ostili. Sa
utilizzare tutti i possibili dispositivi («virtute e canoscenza»). Anche la
magia, se necessaria. Dunque, mostra di saper valicare gli ostacoli anche in
opposizione alla legge di Ananke, la dea del fato, della necessità.
Come
si può notare, le res gestae del Polifemo vastese delineano il canone
inverso di Odisseo. La metis del gigante con l’occhio in fronte, dal
punto di vista della rappresentazione, sostituisce quella del Laerziade. Anche
se è divenuto cieco – e in condizione di inferiorità rispetto ai suoi
torturatori – riesce comunque a vincere la sua battaglia. Un racconto – quello
sul Ciclope – che esclude, nell’orizzonte dell’universo omerico, la presenza di
Diomede, l’eroe della guerra di Troia in seguito interpretato come il riferimento
mitico della civilizzazione adriatica.
(Testo - LA FAVULATTE)
Quando
nel corso del XVII secolo la terra del Vasto sceglie il Tidide come fondatore
eponimo della città, relega in un cantuccio la sopravvivenza mitica del cunto
sul «gigante con l’occhio in fronte». La dissimula in una semplice fahuluàttǝ.
Che, malgrado tutto, ha continuato a permanere nell’alterità del «visibile
parlare». In quell’orizzonte della cultura orale che, sfumando tutte le
temporalità, l’ha conservata e trasmessa nella lingua parallela a quella culta:
il dialetto. E che da quelle profondità, qualcuno ha deciso di trarla allo
scoperto. Un archeologo delle immagini mobili della voce che ha deciso di
fissarle per sempre nella scrittura. Così Gennaro Finamore ha restituito a
contemporanei e successori il senso arcaico della parola.
La favuluàttǝ dell’ùcchijǝ ‘m bràndǝ
(Video con commento e lettura in dialetto vastese di Luigi Murolo)
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