Dipartimento di Studi e Ricerche sulla Storia di Vasto

lunedì 30 marzo 2020

L'EPIDEMIA DI VASTO DEL 1817


TRA STORIA SOCIALE E STORIA DEL TERRITORIO

di Luigi Murolo


(Nei link in fondo pagina si può accedere agli elenchi nominativi dei deceduti)
1. Se è vero l’assunto di Marc Bloch secondo cui la storiografia analizza «il passato in funzione del presente e il presente in funzione del passato», mai come in questo momento diventa importante riflettere su quella lontana vicenda temporale – 1817 – che, nell’interrompere le regole sociali codificate dalla traditio comunitaria, tentava di arginare gli effetti insostenibili del contagio epidemico da tifo esantematico (tra l’altro, è sorprendente notare come le grandi epidemie che hanno investito la città registrino una sequenza secolare: tifo, 1817; spagnola, 1918/20; Covid-19, 2020). Ma tornando indietro, agli inizi del sec. XIX, ci accorgiamo che il contagio era batterico, non virale. Combattuto, tra l’altro, su un versante biopolitico particolare: la gestione delle sepolture. Non concernente l’isolamento o l’uso di farmaci (magari, in qualche sporadico caso, con l’uso di qualche pratica salassoterapica effettuata da flebotomi, allora considerata l’unico rimedio per tutte le patologie infettive! Ma con l’aggiunta – come ricordava lo storico Luigi Marchesani – che di quel Gerolamo Fracastoro che, nel 1546, aveva pubblicato il celeberrimo De contagione et contagiosis morbis – uno dei testi più importanti di tutta la storia della medicina – pareva che tra i medici della città si fosse dimenticata perfino la traccia). In effetti, nel Vasto del 1817, l’immunizzazione dei viventi si giocava esclusivamente sull’esclusione dei deceduti dalla città. Il vecchio e malandato ospedale, attestato presso il baluardo urbico di S. Antonio, assolveva alla sola funzione di ricovero per indigenti non certo a quella di presidio medico. Del resto, ciò che era la concezione dell’ospedalità in periodo d’ancien régime. A tal proposito, vale la pena ricordare la delibera decurionale del 6 luglio 1817 che riporta il rapporto dell’Intendente della Provincia del 31 maggio in cui si legge che, nel segmento amministrativo della carità, l’Intendente, nella sua funzione di Presidente del Consiglio generale degli Ospizi, «prendendo in considerazione il bisogno di tanti poveri, c’informa di proporre i mezzi opportuni onde poter stabilire in questo comune un ospedale suscettibile di circa dieci individui, e colla maggiore sollecitudine». Vale a dire, un ospedale per circa dieci indigenti nel ciclo ascendente dell’epidemia.
Stando così le cose, la comunità, per difendersi dal contagio, affidava la propria sopravvivenza al bando dei morti dallo spazio della quotidianità; al loro scarto dal luogo della vita. Una discontinuità inimmaginabile nell’outillage mentale del tempo – un vero e proprio vulnus antropologico – ove si consideri che l’affidamento del corpo dei defunti nei colombari degli ipogei era riservato alla cura della chiesa.
La definizione di «provvisorio» rendeva probabilmente accettabile nell’universo culturale della popolazione la dislocazione del camposanto in un’area lontanissima dalla città. Di certo, però, la caratteristica di «provvisorietà» può essere attribuibile a un ospedale, dove il ricovero è sempre temporaneo. Al contrario, come è possibile riconoscere lo stesso requisito a un luogo che, per esistere, presuppone solo il definitivo? «Camposanto provvisorio» sembrerebbe di per sé un ossimoro. Ma di là dalla figurazione retorica, la comunicazione rispondeva a una sola esigenza: sottolineare che, con la sospensione del codice non scritto del rito di passaggio, il poi(il tempo successivo ai seppellimenti extra muros) sarebbe ritornato come il prima: con le sepolture protette dall’involucro ecclesiastico. Che l’immunizzazione riguardava il solo presente.Un’immunizzazione dal nefas della morte abbandonata: una morte considerata infetta, clandestina. Impura perché destrutturante della traditio: fuori dai confini sacrati della chiesa funerante. In tal senso, una hýbrisda esorcizzare. Con un convincimento: che la dichiarazione di «provvisorietà» altro non costituiva che un auspicio per il ritorno all’ordine.
Ma, nei fatti, che cosa era accaduto?
2. Agosto 1817, il giorno 3. Una domenica diversa dalle altre per la città, ma probabilmente non percepita dai suoi abitanti per problemi molto gravi, incombenti da ben cinque mesi. La sanità pubblica è stremata. Decessi su decessi occupano tutte le nicchie disponibili degli immensi ipogei ecclesiastici urbani destinati a ospitare i corpi dei defunti (669 dal mercoledì 5 marzo, data della prima diagnosi ufficiale, al sabato 2 agosto giorno precedente il consiglio decurionale). L’aria insalubre rende ancora più greve la sopportazione dei miasmi che si sprigionano dai sotterranei delle chiese. Convocata l’assemblea dal sindaco Domenico Laccetti, a quella data il Decurionato di Vasto deve assumere misure urgenti e straordinarie per affrontare e arginare in qualche modo il dramma delle centinaia e centinaia di luttuosi eventi cagionati dall’allora corrente epidemia di tifo esantematico (o petecchiale, che dir si voglia).
Stando alla delibera conservata nell’Archivio Storico Comunale, i provvedimenti adottati dall’Amministrazione (che qui sintetizzo) risultano essere i seguenti:

1. Realizzazione di un «camposanto provvisorio» esteso un tomolo e mezzo, da allocare in contrada Colle Martino, località abbastanza lontana dalla città, aperta ai venti, servita da una strada rotabile adatta al transito di un carro funebre. Il terreno in questione è proprietà di Giovanni Barbarotta.
2. Chiusura di tutte le vecchie sepolture e divieto per le nuove all’interno del centro urbano. Soprattutto nelle chiese di S. Francesco di Paola e di S. Domenico (oggi chiesa di S. Filomena) sovrabbondanti di cadaveri. Murazione di ingressi e finestre per evitare esalazioni di gas e prodotti solforati derivanti dalla putrefazione.
3. Conferimento al sindaco e agli amministratori di tutti i poteri di polizia urbana.
  • a. Per i due mesi previsti per il funzionamento del «provvisorio» la Comune (al femminile) stanzia la somma di 400 ducati;
  •  b. Per lo stesso periodo viene prevista la spesa di 144 ducati per il compenso a sei scavatori di fosse. Va precisato che si tratta di solchi singoli ognuno dei quali largo palmi due e profondo palmi sei (1 palmo napolitano = cm 26,4);
  • c. A altri tre seppellitori viene erogata la somma di 72 ducati per la presenza fissa di uno dei tre nella chiesa di S. Sebastiano (oggi non più esistente, ma localizzata nell’attuale piazza Verdi nelle prossimità di via Madonna dell’Asilo), utilizzata come obitorio prima della traslazione definitiva del cadavere a Colle Martino;
  • d. Per l’utilizzo di due muli per il trasporto della salma con il carro, 72 ducati;
  • e. Per il conduttore, 24 ducati;
  • f. Per l’alimentazione del mulo, 18 ducati;
  • g. Per l’acquisto di un «carrettone» (compatibile con l’uso funebre) di proprietà di Antonio Tiberi valutato da Giovanni Monacelli 36 ducati;
  • h. Per l’acquisto del terreno, 10 ducati;
  • i. Per una base di fabbrica da destinare all’apposizione di una croce di legno al camposanto, 12ducati.
  • l. Per la chiusura stagna di fosse, porte e finestre nelle chiese di S. Francesco di Paola e S. Domenico, 20 ducati. (doc.1: foto 1, 2, 3)


Documento 1
 L'epidemia di vasto del 1817 - Documento 1 - foto n. 1
(Foto n. 1)

 L'epidemia di Vasto del 1817 - Documento 1 - foto n. 2              L'epidemia di Vasto del 1817 -Documento 1 - foto n. 3
(Foto n. 2)                                         (Foto n. 3)
La durata del «camposanto provvisorio si computa in 105 giorni: dal 6 agosto al 19 novembre. La prima a essere sepolta è la contadina Teresa Della Penna, vedova Pracilio, di 53 anni (foto 4);
 L'epidemia di Vasto del 1817 - Foto 4

(Foto 4)

la prima a ritornare nella sepoltura in chiesa è la contadina Teresa Ritucci di Lanciano, di 40 anni (foto 5).
 
 L'epidemia di Vasto del 1817- Foto 5

(Foto 5)

In questo breve lasso di tempo – i tre mesi e mezzo previsti dalla delibera – sono ben 1268 le vittime causate dai batteri del tifo esantematico (così testimoniano i cinque registri dei decessi conservati nell’Archivio storico comunale. Il primo caso diagnosticato – il cosiddetto «paziente zero», per utilizzare il lessico corrente – è quello relativo al ferraio trentaseienne Francesco d’Altea (foto. 6), proveniente dalle carceri di Campobasso, morto il 5 marzo dello stesso anno.

 L'epidemia di Vasto del 1817 - Foto 6

(Foto 6)

E da questa data fino al 31 gennaio 1818, giorno in cui viene stabilita la fine del contagio, i deceduti risulteranno essere 2138 (a questo numero va aggiunto il numero dei defunti dal 1° gennaio al 4 marzo: 103, per un totale di 2241 deceduti).  Sottraendo a 2138 i 58 estinti del gennaio 1818, si ottiene un totale di 2080 morti per il 1817. I nati in quell’anno risultano essere 256. Considerando che al 31 dicembre 1816 è attestata una popolazione di 8746 abitanti, al 31 dicembre 1817 si ottiene un esito di 6922 anime. Un saldo negativo di 1824 residenti, pari al 20,85⁒ in meno dell’anno precedente
Ma torniamo a Colle Martino. C’è da credere che gli interramenti previsti in questo sito dalla delibera del 3 agosto siano proseguiti ben oltre la data fissata del 19 novembre. Una proroga sicuramente necessaria, data l’impossibilità delle chiese di sopportare il numero esorbitante di cadaveri. Cosa significativa, i cinque registri dei defunti – consultabili presso l’Archivio Storico Comunale di Vasto –, anche sul piano della documentazione, danno la dimensione della catastrofe demografica.
Nel rispetto della prima legge post murattiana sui camposanti – emanata da Ferdinando I delle due Sicilie l’11 marzo del 1817 – le tombe sono esterne alla città, individuali e a inumazione (di qui la differenza con i cimiteri che, al contrario, consentono sepolture a tumulazione in muratura o in marmo con iscrizioni). Differiscono radicalmente dalla sepoltura nelle chiese che, per le famiglie altolocate, prevedeva la cappella e la tumulazione e la salma raccolta in un sudario appena deposto negli ambienti ipogei per favorire la decomposizione. Si sta parlando di Colle Martino, come il più antico camposanto – anche se «provvisorio» – del Regno delle Due Sicilie rispondente alla medesima normativa prevista dall’editto napoleonico di Saint-Cloud (1804). Di un camposanto che, realizzato per ragioni esclusivamente igienico-sanitarie, apre di fatto al Moderno nella pratica dei rituali funerari.
Di tutti questi aspetti, la sommità della falesia su cui, a nord, insistono i resti della fortificazione medievale di Penna de Luco (Pennaluce) non dice nulla (foto 7 e 8).

 L'epidemia di Vasto del 1817 - Foto 7

(Foto 7)

 L'epidemia di Vasto del 1817 - Foto 8

(Foto 8)

Ogni tanto torna alla luce qualche traccia ossea umana. Ma senza le carte custodite nell’Archivio Storico Comunale di Vasto non avremmo alcuna notizia su questo singolare insediamento del secondo decennio dell’Ottocento. Certo, l’area di riserva di Punta d’Erce dovrebbe tutelare, insieme con i resti archeologici di Pennaluce, l’universo ipogeo di Colle Martino. In realtà, la costante minaccia di un’area industriale mai decollata rende precaria l’esistenza di forme storico-antropologiche del passato (foto 9).



(Foto 9)

Centrale in questo contesto è lo studio statistico sui deceduti tutto da compiere. Per iniziare, pubblico l’elenco completo dei 2138 nominativi dal 5 marzo 1817 al 31 gennaio 1818. Per i defunti sono indicate data di morte e età.

Cliccando sui link in basso si accede agli elenchi nominativi dei deceduti.

VASTO: ELENCHI NOMINATIVI DEI DECEDUTI NELL’EPIDEMIA DI TIFO ESANTEMATICO DEL 1817

Link di collegamento agli elenchi:



ELENCO n. 3:  https://istitutostoriadivasto.blogspot.com/2020/03/vasto-elenco-nominativo-dei-deceduti_56.html

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