Dipartimento di Studi e Ricerche sulla Storia di Vasto

giovedì 26 marzo 2020

Gianni Oliva: Dante e l'anagogia



Anticipiamo un saggio del prof. Gianni Oliva predisposto per una miscellanea dantesca che pubblicherà la rivista «Critica letteraria» per il settimo centenario della morte del Sommo Poeta. L’ Istituto per la Storia di Vasto ha predisposto altre iniziative per onorare l’Alighieri. Purtroppo la pandemia le ha sospese. Ma non appena possibile metterle in cantiere, saranno comunicate ai nostri lettori. Intanto l’intervento del prof. Oliva ci consentirà di approfondire un aspetto centrale della poetica dantesca – l’anagogia – su cui ha sviluppato la sua interpretazione critica della Comedìa. Un testo che ci auguriamo di poter discutere (contagio permettendo) in una conversazione ad hoc, anche se la XIII epistula dantesca ci avverte: «non est simplex sensus».



GIANNI OLIVA


«non est simplex sensus» (Ep. XIII): 

conclusionale sull’anagogia


E’ cosa scontata che accostarsi a Dante vuol dire innanzitutto sintonizzarsi con il suo mondo e la sua cultura, mantenendo la rotta senza deviare da una prospettiva storicistica, al fine di evitare facili fraintendimenti o fuorvianti impressionismi sempre pronti ad assecondare le passioni del lettore.  Se n’è avuto più di un esempio nell’età del Risorgimento, quando si è insistito sul profeta dell’età che risorge, privilegiando ora lo spirito neo-guelfo, ora quello ghibellino e laicistico. Certo, tutto ciò è in linea con il concetto che quidquid recipitur, ad modum recipientis recipitur, come a dire che la grande poesia dantesca richiede una cultura in grado di seguire il disegno spirituale di Dante, senza facili semplificazioni [1]. Il privilegio dato ad una lettura attualizzante, per quanto ricercata in tempi recenti, può rivelare limiti e insufficienze fuorvianti; d’altra parte, l’adesione ad uno storicismo asettico, di tipo fondamentalista, rischia di trasformare l’opera dantesca in un terreno di pura archeologia e di sterile erudizione. In realtà – è stato avvertito in modo avveduto- che - «la conoscenza storicizzata di un autore, pur indispensabile, (…) acquista valore critico se sappia enuclare i contenuti universali dell’autore stesso, traducendo in qualche modo la forma con cui essi si esprimono, ch’è legata ad un’epoca, così da mostrare come essi contenuti dottrinali e poetici rispondano ai sentimenti e alla vita di ogni uomo autentico, e in tal senso siano, appunto, “attuali”. Siffatta universalità non appartiene alla materia e alla contingenza storica; essa è necessariamente di natura spirituale, deve fondarsi, cioè, su valori che trascendono il contingente».[2]

Chi scrive queste parole esprime in modo avveduto non solo la propria identità di lettore che risponde a convinzioni cristiane, ma entra in profondità nella formazione culturale e nel meccanismo intellettuale di Dante stesso. Sono le questioni ampiamente dibattute dalla cosiddetta «scuola romana», tant’è che chi vorrà un giorno riconsiderare la storia della critica dantesca del Novecento, già in parte delineata [3], non potrà fare a meno di integrarla con un denso capitolo dedicato a quella palestra di ricerca viva che è stata la «Casa di Dante» di piazza Sonnino. E ci sarà non poco da fare a ripercorrere il grande lavoro svolto, a cominciare da quello di Umberto Bosco e di Giovanni Fallani, attraverso i contributi filologici ed esegetici di Giorgio Petrocchi, fino alla vasta esperienza di ricerca di Aldo Vallone e ai sondaggi linguistici di Ignazio Baldelli, per ricordare solo i primi nomi che vengono alla mente. Ne verrebbe fuori il ritratto di una generazione che, attraverso l’impegno personale dei singoli, si è coalizzata in uno sforzo collettivo di «lectura perpetua» che esiterà nella monumentale Enciclopedia dantesca. In quel fervore di studi [4] si innesta la ricerca di Silvio Pasquazi, sostenuta dall’idea di fondo di arrivare a decifrare lo scopo ultimo del viaggio dantesco.

Svariati gli interessi dello studioso, dal Rinascimento ferrarese del circolo ariostesco, cui aveva dedicato due volumi nella prima maturità [5], all’Ottocento del Manzoni, del Carducci e degli scrittori dell’area veneta di estrazione cattolica (Cesari, Zanella, Fogazzaro [6]), ma il principale punto di riferimento era, com’è a tutti noto, l’esegesi dantesca, nella quale Pasquazi aveva profuso abbondantemente le sue risorse. Esponente di indubbio rilievo del gruppo romano, Pasquazi si accostava a Dante dopo un approfondimento capillare della cultura letteraria e filosofico-teologica del Medioevo, sulla scia dell’insegnamento di Mario Marcazzan, al quale fu vicino negli anni del magistero veronese, tanto che insieme idearono e diressero la «Lectura Dantis Scaligera». Nel frattempo a Roma diede vita nel 1965 a prestigiose iniziative legate al VII centenario della nascita di Dante, non ultimi i convegni di studio organizzati dalla «Casa di Dante» e il numero speciale di «Cultura e Scuola» (n.13-14, 1965), che raccoglieva studi di notevole spessore. Nel frattempo attendeva ai suoi lavori specifici, avviati ufficialmente nel 1956 con Il canto XXII del Paradiso (Lectura Dantis Romana, Casa di Dante), in seguito rielaborato e divenuto San Bernardo nella prima edizione di All’eterno dal tempo (1966); in questo libro aveva preferito far confluire ricerche maturate nel corso degli anni, arricchendolo in ben altre due edizioni, uscite rispettivamente nel 1972 e nel 1985 [7]; unica eccezione il volume D’Egitto in Ierusalamme, che già nel titolo richiama per analogia il precedente, del quale, senza sminuirne il valore intrinseco, può certo considerarsi una considerevole appendice [8]. Da non trascurare, inoltre, l’antologia Aggiornamenti di critica dantesca [9], che prospettava un ventaglio di problemi sulle opere minori e sulla Commedia affrontati dai maggiori specialisti. Altri studi, infine, usciti su riviste e miscellanee dopo l’85, a ulteriore riprova di uno sforzo critico in continuo divenire, sono confluiti nel volume postumo Dante e altri studi di letteratura italiana [10].

Seguendo la prospettiva storicistica, Pasquazi riproponeva la necessità di riesaminare quanto Dante stesso dice a proposito del modo di interpretare il proprio operato, cioè non trascurando le indicazioni offerte nell’Epistola a Cangrande (XIII) e in Convivio (II,I). Nell’uno e nell’altro testo, senza molte differenze, si espongono infatti significati dei quattro sensi delle Scritture, ripercorrendo i quali si ha la percezione esatta di ciò che l’intero poema rappresenta e del metodo che ne sostiene l’istanza principale, il suo significato ultimo. Senza voler entrare nell’accesa e talvolta anche «sgarbata» discussione tra «negazionisti» e «autenticisti» a proposito di Ep. XIII [11], proviamo a sottolineare quanto si ricava dal secondo passo (ma si sarebbe potuto cominciare dal primo), in cui Dante dichiara che è ora di «uscir di porto» e di entrare «in pelago» con la speranza di un «dolce cammino e di salutevole porto», cioè di chiarire i sensi nascosti onde evitare errori e fraintendimenti. Insistendo sulla metafora conviviale, egli avverte quanto sia necessario «mostrare come mangiare si dee», vale a dire come intendere il senso delle cose e dunque i significati delle scritture. Si tratta di un concetto fondamentale per sbrigliare il processo comunicativo, la cui complessità è aumentata dalla parola scritta, che non segue un andamento diretto nell’itinerario dal mittente al destinatario e dunque è inevitabilmente soggetta ad una molteplicità di interpretazioni (Non est simplex sensus: Ep. XIII). Sicchè, «dirizzato l’artimone de la ragione a l’òra del mio desiderio», il timoniere sente di far chiarezza ed esprime la sua verità.

Prima d’ogni cosa Dante distingue due fondamentali modi di leggere le scritture, il letterale e l’allegorico, per poi addentrarsi nello specifico delle due categorie dichiarando che «le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi». Il primo in assoluto è quello litterale, cioè quello che viene prima di tutti, ciò che le parole vogliono dire senza significati aggiunti (quello che non si stende oltre che la lettera de le parole fittizie). L’altro, l’allegorico, è una verità nascosta sotto una manto «fittizio», come nelle favole o nei miti. Non a caso l’esempio probante è il caso di Orfeo, che in Ovidio faceva muovere con la sua cetra ogni cosa (li arbori e le pietre) e ammansire gli animali feroci (facea con la cetera mansuete le fiere). Nessuno ci avrebbe creduto se non fosse che sotto quella finzione si nasconde la verità che la musica e l’arte in generale hanno la capacità di penetrare nell’animo umano, anche il più resistente (li crudeli cuori), stimolandone la sensibilità quiescente e avvicinandoli alla bellezza. Dante mette in campo dunque, sia pure sfiorandola appena, la grande questione dell’utilità della letteratura e della cultura nella formazione dell’homo sapiens in seno alla società civile, perché coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre.

Esiste quindi la possibilità che una grande verità sia coperta da una vicenda favolosa senza fondamento reale, come nel caso di Orfeo, che non è realtà ma invenzione. E’ la strada praticata in genere dai poeti (l’allegoria classica), che Dante intende seguire nel Convivio. D’altro canto però esiste una verità storica inconfutabile, perché realmente avvenuta, istoriale, alla quale si sovrappone un’altra verità. Questo diverso sistema costituisce l’allegoria dei teologi, altra dall’allegoria dei poeti perché la verità storica, già valida di per sé, può fungere da base per esprimere un grande concetto. A questo proposito, a supporto, è ricordato l’episodio storico e biblico dell’uscita del popolo d’Israele dall’Egitto (In exitu Israel de Egypto: Salmo 113) per significare l’anima che esce dal peccato. Nella Commedia prevale dunque l’allegoria dei teologi, che diventa la chiave per giungere al suo significato ultimo.

Il fondamento realistico è il presupposto irrinunciabile che segna il superamento definitivo del metodo allegorico totale, nel quale la base narrativa di partenza non era sentita come reale. Di qui le supposizioni intellettualistiche delle letture esoteriche di moda nell’Ottocento e oltre, da Gabriele Rossetti, a Luigi Valli, fino a un certo Pascoli [12]. L’idea centrale della base storica muove invece il dibattito intercorso tra i maggiori dantisti contemporanei (Barbi, Pagliaro, Singleton, Auerbach, ecc. [13]), tra i quali Pasquazi assume una posizione specifica richiamando l’attenzione sul «senso anagogico» postulato in ambito medievale e che costituisce non a caso il quarto e ultimo senso delle scritture che tutti li comprende. In particolare, i legami tra l'interpretazione figurale e quella anagogica sono stretti, e la seconda finisce per completare e per meglio precisare la prima. Auerbach, com'è noto, muoveva dal principio che i fatti della vita terrena (specialmente quelli narrati nel Vecchio Testamento) sono «ombra» o «figura» d’una realtà ben più solida e concreta, rivelata nel Nuovo Testamento, ossia la realtà eterna. I personaggi della Commedia in effetti hanno tutti un rapporto con la storia e dopo il giudizio di Dio divengono figurae impletae, vivendo la dimensione dell'oltretomba con le stesse caratteristiche individuali che avevano avuto sulla terra. San Paolo, del resto, parlando degli Ebrei li aveva chiamati figure di noi, cioè prefigurazioni, anticipazioni di noi cristiani, che quindi rappresentiamo il compimento storico degli Ebrei in attesa del Messia. Lo stesso Catone è un personaggio storico che incarna la libertà, ma tra il Catone della storia, suicida per la libertà politica, e quello dell’oltretomba, c’è un rapporto di continuità, essendo il secondo completamento del primo. L’allegoria dei teologi trova pertanto una precisa corrispondenza tra l’uomo in vita e l’anima che ha affrontato il giudizio di Dio. Non si è dunque dinanzi a personaggi che incarnano allegorie astratte, senza addentellati con la realtà storica, ma a figure reali che durante la loro vita terrena hanno espresso la loro umanità nel bene e nel male. Francesca da Rimini tra i lussuriosi continua ad essere il simbolo della sua passione sventurata, [14] tant’è che adotta nel parlare lo stesso linguaggio della donna cortese; Beatrice è la donna apparsa in vita a Dante a «miracol mostrare», ma è anche il simbolo della fede e della teologia che condizionano definitivamente la salvazione di Dante; la Beatrice storica, si vuol dire, in quanto fonte di beatitudine e di estatica contemplazione, prefigura quella incontrata nella Commedia; da ultimo Virgilio svolge la sua funzione di guida perché noto a Dante come cantore del viaggio di Enea agli Inferi, in cui «sono profetizzati e celebrati - scriveva Auerbach - l'ordinamento politico che Dante considera esemplare, la terrena Jerusalem, e la pace universale sotto l'Impero romano; perché nel suo poema è cantata la fondazione di Roma, sede predestinata del potere temporale e spirituale, in vista della sua futura missione (...).Virgilio è una guida come poeta perché al di là della sua profezia temporale ha anche annunciato, nella quarta Egloga, l’ordine eterno e sovra temporale, la venuta di Cristo, che era tutt’uno col rinnovamento del mondo temporale» [15]; E gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma non farebbero che ribadire la tesi fondamentale che la realtà terrena è anticipazione d'una realtà ancora più autentica.

Detto questo, però, è necessario che il sistema dualistico tempo-eterno non rischi di diventare un fattore puramente intellettualistico, tanto da considerare le due realtà territori distinti e non necessariamente collegati per slancio sovrannaturale. L'interpretazione anagogica introduce a riguardo un coefficiente nuovo che è lo «slancio di speranza soprannaturale», l’aspirazione dell’umano al divino: «Anagogico - se bene intendiamo, precisa Pasquazi - è quel senso che si ottiene trasvalutando le cose narrate, per contingenti che siano, sul piano dei valori eterni, dove le cose del tempo e della creazione rivelano la loro connessione con la verità assoluta da cui traggono l'essere e a cui tendono come a ultimo fine (…). Per tal via riteniamo, ricollegandoci anche alle tesi dell’Auerbach, che il lettore della Commedia possa meglio partecipare alla tensione affettiva e intellettuale del poeta, tensione ch’è indubbiamente quella di chi procede dalla servitù alla libertà, dal contingente all’assoluto, dal tempo all’eterno» [16]. Di questo passo sono riaffermati i valori spirituali che l'opera dantesca contiene ed è appunto il principale di questi, «il Valore assoluto», che rende esplicito il sentimento più profondo che ispirò Dante. Al di là, dunque, degli enigmi e delle sottigliezze interpretative che la lettura allegorica comporta, il senso anagogico investe la tensione affettiva e morale dell’uomo Dante, conferendo adeguata soluzione in senso dialettico al binomio dottrina-poesia. L'una e l'altra poggiano su un comune denominatore che è l'aspirazione alla realtà eterna: «mentre l'allegorico (in senso stretto) parte da una finzione mentale, il figurale anagogico è avvenuto. E qui è in fondo uno dei più imponenti aspetti della cultura medievale, di coloro che posero le fondamenta della realtà del mondo e della storia nella realtà stessa di Dio» [17]. L’origine dell’idea sta, infatti, nell’analogia attributionis della logica scolastica, che vedeva la realtà della terra come teofania; un principio del resto ribadito chiaramente da Dante: «Le cose tutte quante / hanno ordine tra loro, e questo è forma / che l’universo a Dio fa simigliante» (Par. I, 103-105).

Il concetto, oltre ad affondare le sue radici nella cultura medievale (l'universo è come un libro scritto dal dito di Dio, scrivono Riccardo e Ugo di San Vittore), è ulteriormente ribadito dal dogma dell'incarnazione. San Paolo dice che tutto è ricapitolato in Cristo, sicché i valori terreni sono riacquisiti globalmente nell'ambito dell'eternità. Anagogia, dunque, implica la Speranza umana del riscatto della realtà terrena in quella eterna. Di qui il titolo del volume più significativo di Pasquazi, All'eterno dal tempo (tratto da Par. XXXI, 37-39; «Io che al divino da l’umano, / a l'etterno dal tempo era venuto, / e di Fiorenza in popol giusto e sano»), che non sta solo a indicare il semplice rapporto dei due termini fra loro, ma appunto la tensione dell’uno verso l'altro. Anche il titolo dell'altro libro, D'Egitto in Ierusalemme, si spiega all’interno di tale prospettiva esegetica: «Del resto - si legge nell’Avvertenza- da una parte, la natura e il mondo in quanto realtà positiva costituiscono, come pensava il Medioevo, una sorta di rivelazione divina, e quindi non creano antinomia rispetto all'eternità; e però anche vero, dall’altra, che nel mondo umano, come il Poeta lo vede dal suo osservatorio escatologico, si svolge un dramma cui partecipano il cielo e la terra, e nel quale la giustizia si realizza e si perfeziona attraverso l'indefettibile testimonianza e il generoso combattimento: le quali cose sembrano meglio rappresentate nell'antitesi «Egitto/Ierusalemme». [18]

Il viaggio di Dante è, dunque,il viaggio dell’uomo che, sorretto dalla Speranza, torna a Dio; è il ricongiungimento naturale della creatura con il Creatore, così come l'acqua per sua natura tende verso il basso e il fuoco verso l'alto. Non a caso il celebre passo di Par. XXV, 52-57 («La Chiesa militante alcun figliuolo /non ha con più speranza»), rappresenta, secondo Pasquazi, una delle principali chiavi di lettura del poema, attribuendo a Dante un indiscutibile primato, una sorta di record della speranza.
D’altro canto, il saggio su Catone, tra i più ricchi e persuasivi della produzione dantesca di Pasquazi, rispondendo con chiarezza al problema della libertà di Dante, diventa un nodo fondamentale per capire lo scopo del suo viaggio ultraterreno e, di conseguenza, una delle linee portanti dell’interpretazione critica.

La libertà che Dante va cercando, come spiega Virgilio all'Uticense (Purg. I, 71-72), non è il libero arbitrio, che è facoltà innata nell’uomo, nè la libertà politica, già conquistata da Dante nella Firenze del suo priorato e ulteriormente avvalorata dalla condizione dell'esule; né tanto meno la libertà morale, la liberazione dalle passioni, ché altrimenti la fine del suo viaggio avrebbe coinciso con la catarsi completa del Paradiso Terrestre. L’affermazione di Virgilio, invece, va direttamente ricollegata al ringraziamento che il viaggiatore rivolge a Beatrice in Par. XXXI, 94-99, allorché Dante sta per tirare le somme del suo lungo itinerario: «Acciò che tu assommi / perfettamente... il tuo cammino, / vola con li occhi per questo giardino; / che veder lui t'acconcerà lo sguardo / più al montar per lo raggio divino ». E’allora che Dante dirà: « Tu m'hai di servo tratto in libertate» (Par. XXXI, 85), intendendo per libertà la conquista di quella teologale, che nella beatitudine Celeste dell’indiarsi sola permette il perfetto adeguamento del volere umano a quello divino. «Siffatta visione teologale della libertà implica un alto apprezzamento non solo di tale libertà ultima, ma anche delle sue premesse potenziali: ne segue, infatti, che la radice o il seme, che dir si voglia, di essa libertà - cioè l'umana capacità di scelta, «de la volontà la libertate» (Par. V, 22) -è veramente « lo maggior don che Dio per sua larghezza / fesse creando», maggiore della vita stessa; e che, in virtù delle conseguenze teologali, l’esercizio della libertà è commesso all’uomo, affinché egli faccia di essa uno strumento di disponibilità, e quindi di offerta e di autosacrificio (...): sicché difendere la propria libertà significa difendere un bene che vale più della vita e che appartiene, in ultima istanza, al geloso dominio di Dio».

Nella sua lettura Pasquazi cercava in definitiva una giusta mediazione tra l'approccio «storicizzante» a Dante e quello «attualizzante». Se il primo teneva nel dovuto conto il «bagno filologico», ossia l’immedesimazione totale nel tempo e nella cultura dell’autore, guardandosi bene però dal privilegiare le strutture materialistiche, l'altro puntava sulle «passioni» del lettore presupponendo la visione cristiana dell'esistenza: «la conoscenza storicizzata di un autore, pur indispensabile, acquista valore critico se sappia enucleare i contenuti universali dell’autore stesso, traducendo in qualche modo la forma con cui essi si esprimono, ch'è legata a un’epoca, così da mostrare com'essi contenuti dottrinali e poetici rispondano ai sentimenti e alla vita d’ogni uomo autentico».

I1 giudizio critico, che nei suoi saggi si articola attraverso una discussione feconda e lucide intuizioni, è strettamente congiunto col problema filologico e la documentazione dottrinale. Le numerose argomentazioni sono poste con ordine e risolte una per volta con esemplare chiarezza, tanto che il lettore è condotto per mano in un difficile processo conoscitivo. L'andamento problematico del discorso, però, tende a ridurre le sollecitazioni più diverse alla sofferta unità della tensione all'Assoluto, nella quale confluiscono gli ampi riferimenti culturali e la conoscenza non comune del mondo medievale. La costante attenzione alla spiritualità e al «ritmo ascendente» della Commedia caratterizza, dunque, l'interpretazione anagogica, che eleva l'esperienza mistica di Dante a modello dell'esperienza umana.
Se vale anche per i critici quello che autorevolmente qualcuno ha detto per gli scrittori, cioè che essi, nonostante le apparenze, finiscono per scrivere un solo libro, Pasquazi aveva lavorato un’intera vita attorno a questa idea fondamentale, che lo coinvolgeva direttamente come studioso e come cristiano [19].





[1] Di questi problemi discute con chiarezza in apertura il classico volume di Ch. S. Singleton, La poesia della Divina Commedia, trad. it. , Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 8-9.
[2] S. Pasquazi, Dante oltre il Medioevo, in Dante e altri studi di letteratura italiana, a cura di G. Oliva e G. Rati, Roma, Bulzoni, 1992, p.88.
[3] A. Vallone, La critica dantesca del Novecento, Firenze, Olschki, 1976 (poi Storia della critica dantesca dal XIV al XX secolo, voll. 2, Milano, Vallardi, 1981).
[4] Per un primo quadro d’insieme è utile il volume L’Italianistica alla Enciclopedia italiana, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, a cura di V. Cappelletti, I. Baldelli, G. E. Viola, 1994, con contributi di V. Branca, A. Greco, G. Resta, E.Giachery, M. Scotti, S. Rizzo, M. Petrucciani, G. E. Viola, E. Ragni, A. Frattini, G. Oliva, I. Baldelli.
[5] S. Pasquazi, Rinascimento ferrarese, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1957; Id., Poeti estensi del Rinascimento, Firenze, Le Monnier, 1966.
[6] Tra i suoi libri L’antimanzonismo del Carducci, Firenze, Le Monnier, 1967 e La poesia di Giacomo Zanella, ivi, 1967 (poi in ed. riveduta e ampliata e col titolo Giacomo Zanella, Roma, Bulzoni, 1985).
[7] Id., All’eterno dal tempo. Studi danteschi, Firenze, Le Monnier, 1966; II ed., ivi, 1972; III ed. Roma, Bulzoni, 1985.
[8] Id., D’Egitto in Ierusalem. Studi danteschi, Roma, Bulzoni, 1985.
[9] Id., Aggiornamenti di critica dantesca, Firenze, Le Monnier, 1972.
[10] Id, Dante e altri studi di letteratura italiana, cit..
[11] P. De Ventura, Dante, Dupin e l’Epistola a Cangrande, in Dante oltre il Medioevo, a cura di V. Placella, Roma, Pioda Imaging editore, 2012, pp. 59-79 (in altra versione: Dante e Cangrande, Dupin e Salomone, in Atti degli incontri sulle opere di Dante, I, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2018, pp. 311-334 ). Sul ruolo centrale dell’anagogia ha ancora insistito di recente P. De Ventura, Dante e la mattinata dei sapienti: scienza come amore, misericordia come anagogia in Rappresentazioni della misericordia, a cura di Paolo Martino, Roma, Il Calamo, 2018, pp. 81-92; Id., Una Ravenna edenica: la funzione di suoni e immagini nel Paradiso Terrestre dantesco, in Dante e Ravenna, a cura di Alfredo Cottignoli e Sebastiana Nobili, Ravenna, Longo, 2019, pp. 205-217 (in particolare le pp. 213-215);
[12] Di recente ne prospetta una rassegna il volume di P. L.Vercesi, Il naso di Dante, Vicenza, Neri Pozza, 2018.
[13] La critica americana, che ha una sua collaudata tradizione, non è da meno nel privilegiare un approccio storicistico all’opera dantesca, soprattutto addentrandosi nelle fonti teologali, secondo l’insegnamento di Singleton (Cfr. ad es. G. Mazzotta, Dante, poet of the Desert. History and Allegory in the Divine Comedy, Princeton, University Press, 1979; J. Freccero, Dante. La poetica della conversione, trad. it,, Bologna, Il Mulino, 1989). Certo, non mancano discussioni feconde e qualche polemica, che però sembra allontanare dal significato ultimo del viaggio dantesco. Infatti, se Singleton interpretava il percorso oltremondano di Dante come preparazione alla grazia santificante che il pellegrino avrebbe ricevuto nell’Eden, qualcun altro sostiene la tesi che Dante avesse già ricevuto la grazia come conditio sine qua non nel momento in cui si accingeva a intraprendere il suo itinerarium ad Deum. Cfr. A. C. Mastrobuono, Il viaggio dantesco della santificazione, trad. dall’inglese dell’autore, Firenze, Olschki, 2018 (v. anche la nostra rec. in «Studi Medievali e Moderni», n, 1, 2019, pp. 306-307). Per altro, per allentare le maglie di un isolamento autoreferenziale, non guasterebbe una maggiore apertura verso i risultati della critica e della filologia europea, specialmente italiana.
[14] Per una lettura anti-romantica dell’episodio Cfr. G.  Oliva, «Questi, che mai da me non fia diviso (Inf. V, 135), «Critica letteraria», a. XLVII, n. 182, 2019, pp. 3-12.
[15] E.Auerbach, Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 1963, p. 215-216.
[16] S. Pasquazi, Il canto dell’avventura anagogica, in All’eterno dal tempo, cit., p. 17.
[17] Id. , p. 22 e p. 23.
[18] Id., D’Egitto in Ierusalem, cit., pp. 11-12.
[19] Su Pasquazi critico di Dante cfr. gli atti del convegno Dante oltre il Medioevo,cit. (Roma, 16 novembre, presso Enciclopedia Italiana, e 30 novembre 2010, presso Società “Dante Alighieri”), con interventi specifici di G. Oliva, R. Scrivano, A. Cerbo, P. Tuscano, V. Placella. Sul quarto senso delle scritture cfr. anche la ricognizione di V. Placella, Dante e l’anagogia., in «Studi Medievali e Moderni», n. 1, 2003, pp. 71-85. Agli allievi di Pasquazi si deve anche la Miscellanea di Studi danteschi. In memoria di Silvio Pasquazi, voll. 2, Napoli, Federico e Ardia, 1993 (con Bibliografia di Silvio Pasquazi, a cura di G. Oliva, pp. XXI-XXVIII). Cfr. anche gli Atti della giornata di studi danteschi in memoria di Silvio Pasquazi (Chieti, 10-12-2001), in «Studi Medievali e Moderni», n. 1, 2003 ( interventi di F. Tateo, A. Di Benedetto, L. Battaglia Ricci, V. Placella, B. Martinelli, V. Moretti, N. Longo). Poco utile nella sua brevità (e senza firma) la voce Pasquazi Silvio nell’Enciclopedia dantesca, vol. IV (N-SAM), pp. 337-338. Completa e documentata è invece la tesi dottorale di T. Pardi, L’attività di Silvio Pasquazi tra filologia e critica, a. a. 2002-2003, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Chieti. A Chieti, inoltre,in un apposito Fondo Pasquazi , voluto da chi scrive e da Anna Pasquazi, è confluita gran parte della biblioteca dantesca dello studioso. 

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