Anticipiamo
un saggio del prof. Gianni Oliva predisposto per una miscellanea dantesca che
pubblicherà la rivista «Critica letteraria» per il settimo centenario della
morte del Sommo Poeta. L’ Istituto per la Storia di Vasto ha predisposto
altre iniziative per onorare l’Alighieri. Purtroppo la pandemia le ha sospese.
Ma non appena possibile metterle in cantiere, saranno comunicate ai nostri
lettori. Intanto l’intervento del prof. Oliva ci consentirà di approfondire un
aspetto centrale della poetica dantesca – l’anagogia – su cui ha sviluppato la
sua interpretazione critica della Comedìa. Un testo che ci auguriamo di
poter discutere (contagio permettendo) in una conversazione ad hoc,
anche se la XIII epistula dantesca ci avverte: «non est simplex sensus».
GIANNI OLIVA
«non est
simplex sensus» (Ep. XIII):
conclusionale sull’anagogia
E’
cosa scontata che accostarsi a Dante vuol dire innanzitutto sintonizzarsi con il
suo mondo e la sua cultura, mantenendo la rotta senza deviare da una
prospettiva storicistica, al fine di evitare facili fraintendimenti o fuorvianti
impressionismi sempre pronti ad assecondare le passioni del lettore. Se n’è avuto più di un esempio nell’età del
Risorgimento, quando si è insistito sul profeta dell’età che risorge, privilegiando
ora lo spirito neo-guelfo, ora quello ghibellino e laicistico. Certo, tutto ciò
è in linea con il concetto che quidquid recipitur,
ad modum recipientis recipitur, come a dire che la grande poesia dantesca
richiede una cultura in grado di seguire il disegno spirituale di Dante, senza
facili semplificazioni [1]. Il
privilegio dato ad una lettura attualizzante, per quanto ricercata in tempi
recenti, può rivelare limiti e insufficienze fuorvianti; d’altra parte,
l’adesione ad uno storicismo asettico, di tipo fondamentalista, rischia di trasformare
l’opera dantesca in un terreno di pura archeologia e di sterile erudizione. In
realtà – è stato avvertito in modo avveduto- che - «la conoscenza storicizzata
di un autore, pur indispensabile, (…) acquista valore critico se sappia
enuclare i contenuti universali dell’autore stesso, traducendo in qualche modo
la forma con cui essi si esprimono, ch’è legata ad un’epoca, così da mostrare
come essi contenuti dottrinali e poetici rispondano ai sentimenti e alla vita
di ogni uomo autentico, e in tal senso siano, appunto, “attuali”. Siffatta
universalità non appartiene alla materia e alla contingenza storica; essa è
necessariamente di natura spirituale, deve fondarsi, cioè, su valori che
trascendono il contingente».[2]
Chi
scrive queste parole esprime in modo avveduto non solo la propria identità di
lettore che risponde a convinzioni cristiane, ma entra in profondità nella
formazione culturale e nel meccanismo intellettuale di Dante stesso. Sono le
questioni ampiamente dibattute dalla cosiddetta «scuola romana», tant’è che chi vorrà un giorno riconsiderare la
storia della critica dantesca del Novecento, già in parte delineata [3],
non potrà fare a meno di integrarla con un denso capitolo dedicato a quella
palestra di ricerca viva che è stata la «Casa di Dante» di piazza Sonnino. E ci
sarà non poco da fare a ripercorrere il grande lavoro svolto, a cominciare da
quello di Umberto Bosco e di Giovanni Fallani, attraverso i contributi
filologici ed esegetici di Giorgio Petrocchi, fino alla vasta esperienza di
ricerca di Aldo Vallone e ai sondaggi linguistici di Ignazio Baldelli, per
ricordare solo i primi nomi che vengono alla mente. Ne verrebbe fuori il
ritratto di una generazione che, attraverso l’impegno personale dei singoli, si
è coalizzata in uno sforzo collettivo di «lectura perpetua» che esiterà nella
monumentale Enciclopedia dantesca. In
quel fervore di studi [4] si
innesta la ricerca di Silvio Pasquazi, sostenuta dall’idea di fondo di arrivare
a decifrare lo scopo ultimo del viaggio dantesco.
Svariati gli interessi dello studioso, dal Rinascimento
ferrarese del circolo ariostesco, cui aveva dedicato due volumi nella prima
maturità [5], all’Ottocento
del Manzoni, del Carducci e degli scrittori dell’area veneta di estrazione
cattolica (Cesari, Zanella, Fogazzaro [6]), ma
il principale punto di riferimento era, com’è a tutti noto, l’esegesi dantesca,
nella quale Pasquazi aveva profuso abbondantemente le sue risorse. Esponente di
indubbio rilievo del gruppo romano, Pasquazi si accostava a Dante dopo un
approfondimento capillare della cultura letteraria e filosofico-teologica del
Medioevo, sulla scia dell’insegnamento di Mario Marcazzan, al quale fu vicino
negli anni del magistero veronese, tanto che insieme idearono e diressero la
«Lectura Dantis Scaligera». Nel frattempo a Roma diede vita nel 1965 a
prestigiose iniziative legate al VII centenario della nascita di Dante, non
ultimi i convegni di studio organizzati dalla «Casa di Dante» e il numero
speciale di «Cultura e Scuola» (n.13-14, 1965), che raccoglieva studi di
notevole spessore. Nel frattempo attendeva ai suoi lavori specifici, avviati
ufficialmente nel 1956 con Il canto XXII
del Paradiso (Lectura Dantis Romana, Casa di Dante), in seguito rielaborato
e divenuto San Bernardo nella prima
edizione di All’eterno dal tempo
(1966); in questo libro aveva preferito far confluire ricerche maturate nel
corso degli anni, arricchendolo in ben altre due edizioni, uscite
rispettivamente nel 1972 e nel 1985 [7];
unica eccezione il volume D’Egitto in
Ierusalamme, che già nel titolo richiama per analogia il precedente, del
quale, senza sminuirne il valore intrinseco, può certo considerarsi una
considerevole appendice [8].
Da non trascurare, inoltre, l’antologia Aggiornamenti
di critica dantesca [9],
che prospettava un ventaglio di problemi sulle opere minori e sulla Commedia affrontati dai maggiori
specialisti. Altri studi, infine, usciti su riviste e miscellanee dopo l’85, a
ulteriore riprova di uno sforzo critico in continuo divenire, sono confluiti
nel volume postumo Dante e altri studi di
letteratura italiana [10].
Seguendo la prospettiva storicistica, Pasquazi riproponeva la
necessità di riesaminare quanto Dante stesso dice a proposito del modo di
interpretare il proprio operato, cioè non trascurando le
indicazioni offerte nell’Epistola a Cangrande (XIII) e in Convivio (II,I). Nell’uno e nell’altro testo,
senza molte differenze, si espongono infatti significati dei quattro sensi
delle Scritture, ripercorrendo i quali si ha la percezione esatta di ciò che l’intero poema
rappresenta e del metodo che ne sostiene l’istanza principale, il suo
significato ultimo. Senza voler entrare nell’accesa e talvolta anche «sgarbata»
discussione tra «negazionisti» e «autenticisti» a proposito di Ep. XIII [11],
proviamo a sottolineare quanto si ricava dal secondo passo (ma si sarebbe potuto
cominciare dal primo), in cui Dante dichiara che è ora di «uscir di porto» e di
entrare «in pelago» con la speranza di un «dolce cammino e di salutevole porto»,
cioè di chiarire i sensi nascosti onde evitare errori e fraintendimenti. Insistendo sulla metafora
conviviale, egli avverte quanto sia necessario «mostrare come mangiare si dee», vale
a dire come intendere il senso delle cose e dunque i significati delle scritture.
Si tratta di un concetto fondamentale per sbrigliare il processo comunicativo, la
cui complessità è aumentata dalla parola scritta, che non segue un andamento
diretto nell’itinerario dal mittente al destinatario e dunque è inevitabilmente
soggetta ad una molteplicità di interpretazioni (Non est simplex sensus: Ep. XIII). Sicchè,
«dirizzato l’artimone de la ragione a l’òra del mio desiderio», il timoniere sente
di far chiarezza ed esprime la sua verità.
Prima
d’ogni cosa Dante distingue due fondamentali modi di leggere le scritture, il
letterale e l’allegorico, per poi addentrarsi nello specifico delle due
categorie dichiarando che «le scritture si possono intendere e deonsi esponere
massimamente per quattro sensi». Il primo in assoluto è quello litterale, cioè quello che viene prima
di tutti, ciò che le parole vogliono dire senza significati aggiunti (quello che non si stende oltre che la
lettera de le parole fittizie). L’altro, l’allegorico, è una verità
nascosta sotto una manto «fittizio», come nelle favole o nei miti. Non a caso
l’esempio probante è il caso di Orfeo, che in Ovidio faceva muovere con la sua
cetra ogni cosa (li arbori e le pietre)
e ammansire gli animali feroci (facea con
la cetera mansuete le fiere). Nessuno ci avrebbe creduto se non fosse che
sotto quella finzione si nasconde la verità che la musica e l’arte in generale
hanno la capacità di penetrare nell’animo umano, anche il più resistente (li crudeli cuori), stimolandone la
sensibilità quiescente e avvicinandoli alla bellezza. Dante mette in campo
dunque, sia pure sfiorandola appena, la grande questione dell’utilità della
letteratura e della cultura nella formazione dell’homo sapiens in seno alla società civile, perché coloro che non hanno vita ragionevole alcuna
sono quasi come pietre.
Esiste quindi la possibilità che una grande
verità sia coperta da una vicenda favolosa senza fondamento reale, come nel caso
di Orfeo, che non è realtà ma invenzione. E’ la strada praticata in genere dai
poeti (l’allegoria classica), che Dante intende seguire nel Convivio. D’altro canto però esiste una
verità storica inconfutabile, perché realmente avvenuta, istoriale, alla quale
si sovrappone un’altra verità. Questo diverso sistema costituisce l’allegoria dei teologi, altra dall’allegoria dei poeti perché la verità
storica, già valida di per sé, può fungere da base per esprimere un grande
concetto. A questo proposito, a supporto, è ricordato l’episodio storico e
biblico dell’uscita del popolo d’Israele dall’Egitto (In exitu Israel de Egypto: Salmo 113) per significare l’anima che
esce dal peccato. Nella Commedia
prevale dunque l’allegoria dei teologi,
che diventa la chiave per giungere al suo significato ultimo.
Il
fondamento realistico è il presupposto irrinunciabile che segna il superamento
definitivo del metodo allegorico totale, nel quale la base narrativa di
partenza non era sentita come reale. Di qui le supposizioni intellettualistiche
delle letture esoteriche di moda nell’Ottocento e oltre, da Gabriele Rossetti,
a Luigi Valli, fino a un certo Pascoli [12]. L’idea centrale
della base storica muove invece il dibattito intercorso tra i maggiori dantisti
contemporanei (Barbi, Pagliaro, Singleton, Auerbach, ecc. [13]), tra i
quali Pasquazi assume una posizione specifica richiamando l’attenzione
sul «senso anagogico» postulato in ambito medievale e che costituisce non a caso
il quarto e ultimo senso delle scritture che tutti li comprende. In
particolare, i legami tra l'interpretazione figurale e quella anagogica sono
stretti, e la seconda finisce per completare e per meglio precisare la prima.
Auerbach, com'è noto, muoveva dal principio che i fatti della vita terrena
(specialmente quelli narrati nel Vecchio Testamento) sono «ombra» o «figura»
d’una realtà ben più solida e concreta, rivelata nel Nuovo Testamento, ossia la
realtà eterna. I personaggi della Commedia in effetti hanno tutti un
rapporto con la storia e dopo il giudizio di Dio divengono figurae impletae,
vivendo la dimensione dell'oltretomba con le stesse caratteristiche individuali
che avevano avuto sulla terra. San Paolo, del resto, parlando degli Ebrei li
aveva chiamati figure di noi, cioè
prefigurazioni, anticipazioni di noi cristiani, che quindi rappresentiamo il
compimento storico degli Ebrei in attesa del Messia. Lo stesso Catone è un
personaggio storico che incarna la libertà, ma tra il Catone della storia,
suicida per la libertà politica, e quello dell’oltretomba, c’è un rapporto di
continuità, essendo il secondo completamento del primo. L’allegoria dei teologi
trova pertanto una precisa corrispondenza tra l’uomo in vita e l’anima che ha
affrontato il giudizio di Dio. Non si è dunque dinanzi a personaggi che
incarnano allegorie astratte, senza addentellati con la realtà storica, ma a figure
reali che durante la loro vita terrena hanno espresso la loro umanità nel bene
e nel male. Francesca da Rimini tra i lussuriosi continua ad essere il simbolo
della sua passione sventurata, [14] tant’è
che adotta nel parlare lo stesso linguaggio della donna cortese; Beatrice è la
donna apparsa in vita a Dante a «miracol mostrare», ma è anche il simbolo della
fede e della teologia che condizionano definitivamente la salvazione di Dante;
la Beatrice storica, si vuol dire, in quanto fonte di beatitudine e di estatica
contemplazione, prefigura quella incontrata nella Commedia; da ultimo Virgilio svolge la sua funzione di guida perché
noto a Dante come cantore del viaggio di Enea agli Inferi, in cui «sono
profetizzati e celebrati - scriveva Auerbach - l'ordinamento politico che Dante
considera esemplare, la terrena Jerusalem, e la pace universale sotto l'Impero
romano; perché nel suo poema è cantata la fondazione di Roma, sede predestinata
del potere temporale e spirituale, in vista della sua futura missione (...).Virgilio
è una guida come poeta perché al di là della sua profezia temporale ha anche
annunciato, nella quarta Egloga,
l’ordine eterno e sovra temporale, la venuta di Cristo, che era tutt’uno col
rinnovamento del mondo temporale» [15]; E gli
esempi potrebbero moltiplicarsi, ma non farebbero che ribadire la tesi fondamentale
che la realtà terrena è anticipazione d'una realtà ancora più autentica.
Detto
questo, però, è necessario che il sistema dualistico tempo-eterno non rischi di
diventare un fattore puramente intellettualistico, tanto da considerare le due
realtà territori distinti e non necessariamente collegati per slancio
sovrannaturale. L'interpretazione anagogica introduce a riguardo un coefficiente
nuovo che è lo «slancio di speranza soprannaturale», l’aspirazione dell’umano
al divino: «Anagogico - se bene intendiamo, precisa Pasquazi - è quel senso che
si ottiene trasvalutando le cose narrate, per contingenti che siano, sul piano
dei valori eterni, dove le cose del tempo e della creazione rivelano la loro
connessione con la verità assoluta da cui traggono l'essere e a cui tendono
come a ultimo fine (…). Per tal via riteniamo, ricollegandoci anche alle tesi
dell’Auerbach, che il lettore della Commedia
possa meglio partecipare alla tensione affettiva e intellettuale del poeta,
tensione ch’è indubbiamente quella di chi procede dalla servitù alla libertà,
dal contingente all’assoluto, dal tempo all’eterno» [16]. Di
questo passo sono riaffermati i valori spirituali che l'opera dantesca contiene
ed è appunto il principale di questi, «il Valore assoluto», che rende esplicito
il sentimento più profondo che ispirò Dante. Al di là, dunque, degli enigmi e
delle sottigliezze interpretative che la lettura allegorica comporta, il senso
anagogico investe la tensione affettiva e morale dell’uomo Dante, conferendo
adeguata soluzione in senso dialettico al binomio dottrina-poesia. L'una e
l'altra poggiano su un comune denominatore che è l'aspirazione alla realtà
eterna: «mentre l'allegorico (in senso stretto) parte da una finzione mentale,
il figurale anagogico è avvenuto. E qui è in fondo uno dei più imponenti
aspetti della cultura medievale, di coloro che posero le fondamenta della
realtà del mondo e della storia nella realtà stessa di Dio» [17].
L’origine dell’idea sta, infatti, nell’analogia attributionis della
logica scolastica, che vedeva la realtà della terra come teofania; un principio
del resto ribadito chiaramente da Dante: «Le cose tutte quante / hanno ordine
tra loro, e questo è forma / che l’universo a Dio fa simigliante» (Par.
I, 103-105).
Il concetto, oltre ad affondare le
sue radici nella cultura medievale (l'universo è come un libro scritto dal dito
di Dio, scrivono Riccardo e Ugo di San Vittore), è ulteriormente ribadito dal
dogma dell'incarnazione. San Paolo dice che tutto è ricapitolato in Cristo,
sicché i valori terreni sono riacquisiti globalmente nell'ambito dell'eternità.
Anagogia, dunque, implica la Speranza umana
del riscatto della realtà terrena in quella eterna. Di qui il titolo del volume
più significativo di Pasquazi, All'eterno dal tempo (tratto da Par.
XXXI, 37-39; «Io che al divino da l’umano, / a l'etterno dal tempo era venuto,
/ e di Fiorenza in popol giusto e sano»), che non sta solo a indicare il
semplice rapporto dei due termini fra loro, ma appunto la tensione dell’uno
verso l'altro. Anche il titolo dell'altro libro, D'Egitto in Ierusalemme,
si spiega all’interno di tale prospettiva esegetica: «Del resto - si legge
nell’Avvertenza- da una parte, la natura e il mondo in quanto realtà
positiva costituiscono, come pensava il Medioevo, una sorta di rivelazione
divina, e quindi non creano antinomia rispetto all'eternità; e però anche vero,
dall’altra, che nel mondo umano, come il Poeta lo vede dal suo osservatorio
escatologico, si svolge un dramma cui partecipano il cielo e la terra, e nel
quale la giustizia si realizza e si perfeziona attraverso l'indefettibile
testimonianza e il generoso combattimento: le quali cose sembrano meglio
rappresentate nell'antitesi «Egitto/Ierusalemme». [18]
Il
viaggio di Dante è, dunque,il viaggio dell’uomo che, sorretto dalla Speranza,
torna a Dio; è il ricongiungimento naturale della creatura con il Creatore,
così come l'acqua per sua natura tende verso il basso e il fuoco verso l'alto.
Non a caso il celebre passo di Par. XXV,
52-57 («La Chiesa militante alcun figliuolo /non ha con più speranza»),
rappresenta, secondo Pasquazi, una delle principali chiavi di lettura del
poema, attribuendo a Dante un indiscutibile primato, una sorta di record
della speranza.
D’altro
canto, il saggio su Catone, tra i più ricchi e persuasivi della produzione
dantesca di Pasquazi, rispondendo con chiarezza al problema della libertà di
Dante, diventa un nodo fondamentale per capire lo scopo del suo viaggio
ultraterreno e, di conseguenza, una delle linee portanti dell’interpretazione
critica.
La libertà che Dante va cercando, come spiega Virgilio all'Uticense (Purg. I,
71-72), non è il libero arbitrio, che è facoltà innata nell’uomo, nè la libertà
politica, già conquistata da Dante nella Firenze del suo priorato e
ulteriormente avvalorata dalla condizione dell'esule; né tanto meno la libertà
morale, la liberazione dalle passioni, ché altrimenti la fine del suo viaggio
avrebbe coinciso con la catarsi completa del Paradiso Terrestre. L’affermazione
di Virgilio, invece, va direttamente ricollegata al ringraziamento che il
viaggiatore rivolge a Beatrice in Par. XXXI, 94-99, allorché Dante sta
per tirare le somme del suo lungo itinerario: «Acciò che tu assommi /
perfettamente... il tuo cammino, / vola con li occhi per questo giardino; / che
veder lui t'acconcerà lo sguardo / più al montar per lo raggio divino ».
E’allora che Dante dirà: « Tu m'hai di servo tratto in libertate» (Par.
XXXI, 85), intendendo per libertà la conquista di quella teologale, che nella
beatitudine Celeste dell’indiarsi sola permette il perfetto adeguamento
del volere umano a quello divino. «Siffatta visione teologale della
libertà implica un alto apprezzamento non solo di tale libertà ultima, ma anche
delle sue premesse potenziali: ne segue, infatti, che la radice o il seme, che
dir si voglia, di essa libertà - cioè l'umana capacità di scelta, «de la
volontà la libertate» (Par. V, 22) -è veramente « lo maggior don che Dio
per sua larghezza / fesse creando», maggiore della vita stessa; e che, in virtù
delle conseguenze teologali, l’esercizio della libertà è commesso all’uomo,
affinché egli faccia di essa uno strumento di disponibilità, e quindi di
offerta e di autosacrificio (...): sicché difendere la propria libertà
significa difendere un bene che vale più della vita e che appartiene, in ultima
istanza, al geloso dominio di Dio».
Nella
sua lettura Pasquazi cercava in definitiva una giusta mediazione tra l'approccio
«storicizzante» a Dante e quello «attualizzante». Se il primo teneva nel dovuto
conto il «bagno filologico», ossia l’immedesimazione totale nel tempo e nella
cultura dell’autore, guardandosi bene però dal privilegiare le strutture materialistiche,
l'altro puntava sulle «passioni» del lettore presupponendo la visione cristiana
dell'esistenza: «la conoscenza storicizzata di un autore, pur indispensabile,
acquista valore critico se sappia enucleare i contenuti universali dell’autore
stesso, traducendo in qualche modo la forma con cui essi si esprimono, ch'è
legata a un’epoca, così da mostrare com'essi contenuti dottrinali e poetici
rispondano ai sentimenti e alla vita d’ogni uomo autentico».
I1 giudizio critico, che nei suoi saggi si articola attraverso una discussione
feconda e lucide intuizioni, è strettamente congiunto col problema filologico e
la documentazione dottrinale. Le numerose argomentazioni sono poste con ordine
e risolte una per volta con esemplare chiarezza, tanto che il lettore è
condotto per mano in un difficile processo conoscitivo. L'andamento
problematico del discorso, però, tende a ridurre le sollecitazioni più diverse
alla sofferta unità della tensione all'Assoluto, nella quale confluiscono gli
ampi riferimenti culturali e la conoscenza non comune del mondo medievale. La
costante attenzione alla spiritualità e al «ritmo ascendente» della Commedia
caratterizza, dunque, l'interpretazione anagogica, che eleva l'esperienza
mistica di Dante a modello dell'esperienza umana.
Se vale anche per i critici quello che autorevolmente qualcuno ha detto per gli scrittori, cioè che essi, nonostante le apparenze, finiscono per scrivere un solo libro, Pasquazi aveva lavorato un’intera vita attorno a questa idea fondamentale, che lo coinvolgeva direttamente come studioso e come cristiano [19].
Se vale anche per i critici quello che autorevolmente qualcuno ha detto per gli scrittori, cioè che essi, nonostante le apparenze, finiscono per scrivere un solo libro, Pasquazi aveva lavorato un’intera vita attorno a questa idea fondamentale, che lo coinvolgeva direttamente come studioso e come cristiano [19].
[1] Di questi problemi discute con chiarezza in apertura il
classico volume di Ch. S. Singleton,
La poesia della Divina Commedia, trad. it. , Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 8-9.
[2] S. Pasquazi, Dante oltre il
Medioevo, in Dante e altri studi di
letteratura italiana, a cura di G.
Oliva e G. Rati, Roma, Bulzoni, 1992, p.88.
[3] A. Vallone, La critica
dantesca del Novecento, Firenze, Olschki, 1976 (poi Storia della critica dantesca dal XIV al XX secolo, voll. 2,
Milano, Vallardi, 1981).
[4] Per un primo quadro d’insieme è utile il volume L’Italianistica alla Enciclopedia italiana,
Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, a cura di V. Cappelletti, I.
Baldelli, G. E. Viola, 1994, con contributi di V.
Branca, A. Greco, G. Resta, E.Giachery, M. Scotti, S. Rizzo, M. Petrucciani, G.
E. Viola, E. Ragni, A. Frattini, G. Oliva, I. Baldelli.
[5] S. Pasquazi, Rinascimento
ferrarese, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1957; Id., Poeti estensi del Rinascimento, Firenze, Le Monnier, 1966.
[6] Tra i suoi libri L’antimanzonismo
del Carducci, Firenze, Le Monnier, 1967 e La poesia di Giacomo Zanella, ivi, 1967 (poi in ed. riveduta e
ampliata e col titolo Giacomo Zanella,
Roma, Bulzoni, 1985).
[7] Id., All’eterno
dal tempo. Studi danteschi, Firenze, Le Monnier, 1966; II ed., ivi, 1972;
III ed. Roma, Bulzoni, 1985.
[8] Id., D’Egitto in
Ierusalem. Studi danteschi, Roma,
Bulzoni, 1985.
[9] Id., Aggiornamenti
di critica dantesca, Firenze, Le Monnier, 1972.
[10] Id, Dante e altri
studi di letteratura italiana, cit..
[11] P. De Ventura, Dante, Dupin e
l’Epistola a Cangrande, in Dante
oltre il Medioevo, a cura di V.
Placella, Roma, Pioda Imaging editore, 2012, pp. 59-79 (in altra
versione: Dante e Cangrande, Dupin e
Salomone, in Atti degli incontri
sulle opere di Dante, I, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2018, pp.
311-334 ). Sul ruolo centrale dell’anagogia ha ancora insistito di recente P. De Ventura, Dante e
la mattinata dei sapienti: scienza come amore, misericordia come anagogia
in Rappresentazioni della misericordia,
a cura di Paolo Martino, Roma, Il Calamo, 2018, pp. 81-92; Id., Una Ravenna edenica: la funzione di suoni e
immagini nel Paradiso Terrestre dantesco, in Dante e Ravenna, a cura di Alfredo Cottignoli e Sebastiana Nobili,
Ravenna, Longo, 2019, pp. 205-217 (in particolare le pp. 213-215);
[12] Di recente ne prospetta una rassegna il volume di P. L.Vercesi, Il naso di Dante, Vicenza, Neri Pozza, 2018.
[13] La critica americana, che ha una sua collaudata
tradizione, non è da meno nel privilegiare un approccio storicistico all’opera
dantesca, soprattutto addentrandosi nelle fonti teologali, secondo
l’insegnamento di Singleton (Cfr. ad es. G.
Mazzotta, Dante, poet of the
Desert. History and Allegory in the Divine Comedy, Princeton, University
Press, 1979; J. Freccero, Dante. La poetica della conversione,
trad. it,, Bologna, Il Mulino, 1989). Certo, non mancano discussioni feconde e
qualche polemica, che però sembra allontanare dal significato ultimo del
viaggio dantesco. Infatti, se Singleton interpretava il percorso oltremondano
di Dante come preparazione alla grazia santificante che il pellegrino avrebbe
ricevuto nell’Eden, qualcun altro sostiene la tesi che Dante avesse già
ricevuto la grazia come conditio sine qua
non nel momento in cui si accingeva a intraprendere il suo itinerarium ad Deum. Cfr. A. C. Mastrobuono, Il viaggio dantesco della santificazione, trad. dall’inglese
dell’autore, Firenze, Olschki, 2018 (v. anche la nostra rec. in «Studi
Medievali e Moderni», n, 1, 2019, pp. 306-307). Per altro, per allentare le
maglie di un isolamento autoreferenziale, non guasterebbe una maggiore apertura
verso i risultati della critica e della filologia europea, specialmente
italiana.
[14] Per una lettura anti-romantica dell’episodio Cfr. G. Oliva, «Questi, che mai da me non fia diviso (Inf. V, 135), «Critica letteraria», a. XLVII, n. 182, 2019, pp. 3-12.
[15] E.Auerbach, Studi su Dante,
Milano, Feltrinelli, 1963, p. 215-216.
[16] S. Pasquazi, Il canto
dell’avventura anagogica, in All’eterno
dal tempo, cit., p. 17.
[17] Id. , p. 22 e p. 23.
[18] Id., D’Egitto in
Ierusalem, cit., pp. 11-12.
[19] Su Pasquazi critico di Dante cfr. gli atti del
convegno Dante oltre il Medioevo,cit.
(Roma, 16 novembre, presso Enciclopedia Italiana, e 30 novembre 2010, presso
Società “Dante Alighieri”), con interventi specifici di G. Oliva, R. Scrivano, A. Cerbo, P. Tuscano, V. Placella. Sul
quarto senso delle scritture cfr. anche la ricognizione di V. Placella, Dante e l’anagogia., in «Studi Medievali e Moderni», n. 1, 2003,
pp. 71-85. Agli allievi di Pasquazi si deve anche la Miscellanea di Studi danteschi. In memoria di Silvio Pasquazi,
voll. 2, Napoli, Federico e Ardia, 1993 (con Bibliografia di Silvio Pasquazi, a cura di G. Oliva, pp. XXI-XXVIII). Cfr. anche gli Atti della giornata di studi danteschi in
memoria di Silvio Pasquazi (Chieti, 10-12-2001), in «Studi Medievali e
Moderni», n. 1, 2003 ( interventi di F.
Tateo, A. Di Benedetto, L. Battaglia Ricci, V. Placella, B. Martinelli, V.
Moretti, N. Longo). Poco utile nella sua brevità (e senza firma) la voce
Pasquazi Silvio nell’Enciclopedia dantesca, vol. IV (N-SAM),
pp. 337-338. Completa e documentata è invece la tesi dottorale di T. Pardi, L’attività di Silvio Pasquazi tra filologia e critica, a. a.
2002-2003, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Chieti. A Chieti,
inoltre,in un apposito Fondo Pasquazi
, voluto da chi scrive e da Anna Pasquazi, è confluita gran parte della
biblioteca dantesca dello studioso.
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