Ma qual
è l’orizzonte culturale dell’Istituto per la storia di Vasto? Scrivere
forse una nuova storia della città? E in che modo? Con un unico soggetto che
scriva su tutto da un punto 0 ad oggi? O con un lavoro a più mani che, comunque
indirizzato sul versante dell’auctor unico, continua a rimanere nel
campo della narrazione lineare? Con un tempo assoluto che, nell’omologare
accadimenti diversi, si trova a declinare il proprio racconto in una
prospettiva unitariamente cronologica? Come a dire che il tempo dell’universitas
civium costituisca il semplice prius della comune napoleonica e non
una rottura radicale dei rapporti sociali e fondiari, con la modificazione
dello stesso outillage mentale della classe dirigente che passa dalla
battaglia antifeudale alla strenua difesa ideologica dell’origine feudale delle
terre redditizie. Dimenticando che il mutamento di paradigma giuridico operato
dai francesi sulla natura del feudo – divenuto non più tema fondante del
diritto pubblico meridionale ma un semplice istituto contrattualistico di
diritto privato – determina una frattura insanabile nella storia del
Mezzogiorno italiano, aprendo di fatto all’accaparramento selvaggio di tutte
quelle terre pubbliche all’improvviso privatizzate, diventando nei fatti il
vero passepartout per la genesi latifondistica della nascente borghesia.
Come si
può notare, una profonda discontinuità storica che richiede una profonda
discontinuità di analisi tra i due periodi
E non si
tratta di solo questo. Tanto per fare un altro esempio, che cosa dire
dell’organizzazione della chiesa cittadina? Perché, si può forse parlare di
continuità tra il paradigma locale della struttura capitolare in periodo di ancien
régime con l’istituzione della diocesi di Vasto nel 1853? Intanto un passo
indietro. La sussistenza di due capitoli in una stessa città presuppone giocoforza
la presenza di due organismi canonici con analoghe autorità vescovili. Cosa
difficile da pensare perfino alla più fervida immaginazione. Ma proprio così. Incredibile
dictu: due presuli per una stessa città! L’uno di Chieti, a cui risponde il
capitolo di S. Maria; l’altro di S. Giovanni in Venere, con il proprio abate
commendatario vescovo cui fa capo il capitolo di S. Pietro. Con un’ulteriore
particolarità. Sono entrambe chiese di iuspatronato regio. Vale a dire chiese
demaniali del Re, sottratte alla gestione patrimoniale da parte del vescovo.
Ma, soprattutto, sono libere di eleggere l’Arciprete (S. Maria) e il Prevosto
(S. Pietro) con tutte gli altri uffici. Godono dello ius praesentandi.
Vale a dire, hanno solo l’obbligo di comunicare al presule il nominativo della
massima autorità capitolare. De facto, al vescovo compete
l’amministrazione spirituale. Tale condizione termina nel 1808, allorché il re
(Giuseppe Bonaparte), titolare di entrambi i giuspatronati, decide di ridurli a
uno, trasferendo l’ecclesia in un sito terzo: l’ex-chiesa conventuale di
S. Agostino (divenuta S. Giuseppe, in onore del sovrano), cui risponde un unico
capitolo che mantiene inalterata la stessa natura iuspatronicia. In questo
caso, ci si trova di fronte a una semplice razionalizzazione, non certo a un
mutamento formale che si registra solo nel 1853. L’istituzione di una diocesi
senza ordinario sembrerebbe il vero nodo del problema. Ma solo in apparenza. In
effetti, la salvaguardia del giuspatronato regio esclude la presenza di un
vescovo titolare che ha potere pieno sulla territorialità: sia spirituale, sia
patrimoniale. La reggenza (e non la titolarità) dell’ufficio diocesano,
consente il mantenimento dell’autonomia del capitolo cittadino, ma non sul
resto del vescovado. Un’alleanza altare-corona, insomma, che, nel favorire la
curia vastese (con il rafforzamento ideologico del clero sulla popolazione
della città: fondamentale, in questo senso, l’attività del tutto ignorata del
canonico cantore Giacomo Tommasi), produce un duplice effetto: per un verso, pone
al centro la forte attività di contrasto alle istanze liberali cittadine
chiaramente espresse nel 1848-1849; per l’altro, l’ostilità della curia teatina
che si sente colpita dal provvedimento pontificio.
A questo
punto, la domanda che sembra emergere è la seguente: dove corre il filo della
discontinuità? Non certo nel rapporto ecclesiastico con la sede della nuova
diocesi, ma nel doppio registro amministrativo costruito nel distretto
diocesano: da un lato, il primato della chiesa della città; dall’altro (in
periferia), il regolare funzionamento della subordinazione al vescovo che, anche
sub specie procuratoris, continua a permanere.
Qui
alcune rapide considerazioni sulle forme amministrative locali in età moderna. Di
seguito, un velocissimo cenno alle discontinuità territoriali (o, se si vuole,
forme dello spazio) che hanno caratterizzato la città tra antichità e medioevo.
Ad, esempio gli Statuti comunali cinquecenteschi della Terra del Vasto –
segnatamente il § III, 25 – registrano un confine territoriale della città
radicalmente diverso dall’attuale (molto più esteso del precedente, quasi più
del doppio). Stando così le cose, come possiamo collocare sulla stessa scena
avvenimenti occorsi in un contesto geopolitico in se stesso così inconciliabilmente
diverso (ben undici insediamenti tra feudali e demaniali storicamente attestati
nell’attuale territorio di Vasto)? E che cosa dire, inoltre, dell’incolmabile
distanza di organizzazione territoriale che intercorsa tra comune, universitas
e municipium romano? Quest’ultimo è strutturato amministrativamente per tribus
(quella degli histonienses è la tribus Arnensis) si colloca
geopoliticamente in un’area compresa dal punto di vista cardinale (nord-sud) tra
Sangro e Trigno e da quello decumano (est-ovest) tra il mare e località S.
Ianni di Palmoli (fino a oggi il punto estremo occidentale epigraficamente
documentato [CIL IX, 2858]). Il che vuol dire: se si studia il municipium
degli histonienses non si può parlare arbitrariamente del solo centro
storico di Vasto, ma dell’area in precedenza definita di cui il suo territorio
ne costituiva il centro amministrativo, lo stesso in cui si collocava
l’esercizio della magistratura giurisdizionale del quattuorviratus iure
dicundo [CIL IX, 2855].
E
volendo parlare della touta italica? Qui cambia ancora una volta tutto.
La testimonianza epigrafica osca proveniente da Punta Penna (conservata nel
museo di Vasto) con l’attestazione di due censori riconosce in questa località
la sede amministrativa degli histonienses in periodo frentano. Ma è
soprattutto il recentissimo recupero da parte della Guardia di Finanza di un
reperto trafugato (con iscrizione osca) databile al III-II sec. a.C. che
riconferma la natura politico-amministrativa di quella località. Lo studio ad
hoc di Adriano La Regina (in «Studi Etruschi», LXXIV-MMVIII, SERIE III, [2011],
p. 431) registra – sempre nello stesso sito – la presenza di un «tribuno della
plebe» (tribúf .plífríks). Ecco allora il punto. Tra censori e tribuni
della plebe epigraficamente attestati emerge un altro centro territoriale,
dislocato nell’attuale sito di Punta Penna, che precede la deductio
romana (posteriore alla Guerra sociale) verso l’attuale centro storico di
Vasto.
Non vado
oltre. Mi limito a segnalare solo alcune discontinuità che caratterizzano la
storia di Vasto. Insisto su questo aspetto perché ritengo che sia
l’individuazione di tali interruzioni a delineare i singoli paradigmi entro cui
sviluppare le specifiche narrazioni. Sono queste unità di rete che aprono alla
possibilità di interconnessioni storico-culturali altrimenti non riconoscibili.
Non vi sono condizioni per un unico soggetto di lavorare intorno a questa opera
(salvo chi ha la pretesa di raccontare singolarmente e cronologicamente da un
punto zero all’infinito l’incontro tra storia politica, economica,
ecclesiastica, giuridica, linguistica, antropologia culturale, letteratura,
arti, archeologia ecc.). Di qui l’esigenza di un Istituto di studi ad hoc
per sviluppare una simile linea di ricerca. Ma, nello stesso tempo, una piccola
istituzione ancora agli inizi (fondata esclusivamente sul volontariato) che,
con una didattica centrata su conversazioni aperte – e con mostre documentarie
su argomenti specifici –, vuole avvicinare l’opinione pubblica a un progetto di
conoscenza del territorio.
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