«lentezza»
Cibo, turismo, terroir, stili di vita nella storia di Vasto
di
Luigi Murolo
A
meno di dieci anni dalla conclusione del secondo conflitto mondiale le province
abruzzesi discutevano l’organizzazione del turismo nei propri territori con le
istituzioni delle Aziende Autonome di Soggiorno e Turismo (AAST) sciolte
successivamente con L. R. 23 aprile 1980 riapprovata il 15 aprile 1981. Il
dibattito sulle pagine locali dei quotidiani del tempo chiariva in modo
eloquente le condizioni materiali in cui versava la struttura complessiva
dell’accoglienza e le strategie perseguite per migliorarla. Tra le soluzioni
previste dall’AAST di Vasto, la gastronomia diventava essenziale. Anzi, avrebbe
costituito la prima concreta iniziativa programmata dall’ente, sottolineando
quanto contasse la civiltà della tavola e della cucina nelle intuizioni
progettuali del suo animatore. E non solo per il rapporto tout court cucina/turismo. Ma anche per il modo in cui tale endiadi
sarebbe dovuta essere affrontata. Mi piace pensare a quanto recita il primo
articolo dello Statuto del Touring Club Italiano laddove si parla di uno
«sviluppo del turismo, inteso anche quale mezzo di conoscenza di paesi e
culture, e di reciproca comprensione e rispetto fra i popoli. In particolare il
TCI intende collaborare alla tutela e alla educazione ad un corretto godimento
del patrimonio italiano di storia, d’arte e di natura, che considera nel suo
complesso bene insostituibile da trasmettere alle generazioni future». Si può
ben capire, allora, quanto la sostituzione di TCI con AAST possa
esaurientemente spiegare il senso di quella manifestazione. Ma c’è di più. Il
paradigma del viaggio intorno alla gastronomia si sostanzia di quel sapere intriso di sapore maturato tra i frequentatori del Bel Paese. Il senso
di tale miscela si può ritrovare nel memorabile apologo sulle ferrovie che
Bertarelli, fondatore del turismo italiano, traccia nella prima edizione della Guida Tci (1927) e su cui, oggi,
tornerebbe sicuramente utile spendere qualche parola:
Così
il visitatore può scegliere tra le due forme, la sintetica e la minuziosa: come
accade di certe ferrovie, che son percorse da treni diretti, destinati ad
arrestarsi solo nelle grandi stazioni e dai quali il passeggero percepisce solo
fugacemente il paesaggio; mentre a pochi minuti di distanza, quei treni sono
seguiti da altri, dalla marcia più lenta e dalle molteplici fermate: ottimi per
chi, avendo un largo tempo a disposizione, voglia godere più agiatamente il
percorso e conoscerne le particolari bellezze. – Insomma il lettore vi trova il
molto e il poco, a suo piacere; ma non vi manca niente dell’essenziale.
Milano, 29 luglio 1953, Hotel Diana. Fondazione dell’Accademia
Italiana della Cucina grazie ai seguenti personaggi: Luigi Bertett, Dino
Buzzati, Cesare Chiodi, Giannino Citterio, Ernesto Donà dalle Rose, Michele
Guido Franci, Gianni Mazzocchi Bastoni, Arnoldo Mondadori, Attilio Nava, Arturo
Orvieto, Severino Pagani, Aldo Passante, Gian Luigi Ponti, Giò Ponti, Dino Villani,
Edoardo Visconti di Modrone, Orio Vergani.
Vasto,
12-13 settembre 1953.
L’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Vasto presieduta da Carlo Boselli
realizza il I Festival gastronomico interregionale
Marche-Abruzzo-Molise con annessa Mostra della Cucina.
Due
date – divise da meno di due mesi – che sembrano prospettare all’estate del
1953 la nascita di un’attenzione per la civiltà italiana del cibo e per le biodiversità
gastronomiche regionali. Cosa molto importante: nessuna relazione è da
stabilire tra le due iniziative. L’una nasce indipendentemente dall’altra.
Unico tratto comune: la sensibilità avvertita in due contesti radicalmente
differenti nei confronti di una questione fino a allora sottovalutata. La
prima, carica di interessi culturali e di ricerca; la seconda, destinata alla
scoperta di un insieme di cucine regionali “dimenticate” insieme con tutto il
patrimonio di gusto consegnato ai contemporanei dalla traditio dei territori. No. In quest’ ultimo caso non era ancora
possibile parlare di valorizzazione – del resto, come sarebbe stato possibile
in un periodo di gran lunga anteriore al boom economico, in assenza di strade
(vale la pena rammentare che l’Anas veniva istituita nel 1946), con una statale
16 tortuosissima e dominata dai camion, con il tratto autostradale
Pescara-Vasto inaugurato nel 1969, con l’accessibilità alle aree garantita
dalla sola linea ferroviaria (le locomotive erano ancora a carbone) –. Semmai,
l’AAST di Vasto tendeva a fornire una vetrina di prodotti gastronomici disponibili
ai residenti o, al più, al raro viaggiatore (sempre che ci fosse stato) che si spingeva
in questi remoti angoli del levante italiano non ancora lambiti dalla mobilità
di massa e dagli effetti dell’industrializzazione (il porto di Punta Penna
aprirà al traffico mercantile solo alla fine del 1958, con la prima industria
attivata nel 1959) e con un Adriatico bloccato, allora frontiera insormontabile
tra occidente e oriente. Da questo punto di vista, un riferimento al generale
non guasta. Così, tanto per ricordare, Trieste sarebbe tornata a far parte dell’amministrazione
civile italiana solo a partire dal 26 ottobre 1954.
1953,
dunque. La città non disponeva ancora di alberghi destinati a un turismo centrato
sulla mobilità stradale (per quel che po’ che serviva, svolgeva egregiamente il
suo lavoro il solo piccolo hotel Nuova
Italia). Magari, era stato proprio lì, il luogo in cui Guido Piovene aveva
soggiornato durante il suo lungo Viaggio in Italia e che, in ragione della
sua sosta vastese, aveva avuto occasione di scrivere: «In quella graziosa città
marinara che è Vasto […] il brodetto di pesce è il piatto giornaliero d’obbligo
[…]; nelle stradine e nelle piazze si spande l’odore del fritto» (G. Piovene, Viaggio
in Italia, Milano, Baldini&Castoldi, 1999, p. 547).
Già.
Agli albori del turismo in Abruzzo (e siamo sempre nel 1953) la discussione
riguardava la scarsa ricettività alberghiera della regione. In un articolo
dell’edizione abruzzese di «Momento sera» del 5 gennaio 1953 (a firma di Antonio
Jacondini) il titolo recitava: «La deficienza alberghiera e la rinascita.
Secondo le statistiche, la nostra regione è al quindicesimo posto nel campo dell’attrezzatura
turistica». E le cose non finivano qui. In effetti, l’edizione abruzzese
del «Giornale d’Italia» in un pezzo anonimo del 4 gennaio 1953 sottolineava: «Il
turismo regionale. Solo 4000 letti disponibili negli alberghi». A
riconferma di ciò, la pagina abruzzese de «Il Messaggero» del 14 gennaio 1953
in un intervento di Giuseppe Marini precisava che «Per favorire il turismo
abruzzese è necessario costruire nuovi alberghi». Quasi non bastasse, un
servizio anonimo del «Mattino d’Abruzzo» di Pescara del 30 gennaio 1953
aggiungeva: «Come in Alta Italia. Necessaria l’iniziativa privata per lo sviluppo
del nostro turismo». Così, proprio per quest’ultima ragione, si spiegano le
ragioni che avrebbero indotto la Casmez a spingere per l’apertura a Vasto dell’Autostello-Aci nel 1955 e all’avvio,
sempre nello stesso anno, della costruzione del Jolly hotel.
Certo,
la lettura di questa documentazione ordinata dal Servizio ritagli stampa
dell’EPT e conservata oggi presso l’Archivio di Stato di Chieti, costituisce un
osservatorio di straordinaria sinteticità e rilevanza per comprendere quanto
accadeva nel turismo abruzzese durante gli anni Cinquanta (a tal proposito vale
la pena ricordare come, in quel periodo, fossero le Province gli organismi
territoriali di governo, non le
Regioni a statuto ordinario [come tutti sanno, istituite nel 1970]). Malgrado la
limitazione di area di competenza, il ricco dossier informativo spazia ben
oltre l’orizzonte di riferimento, consentendo di seguire con attenzione le attività
svolte nelle quattro province abruzzesi. Si scopre, ad esempio, che veniva
posta l’esigenza di affrontare il problema turistico in una prospettiva più
ampia, di tipo interregionale. Lo si apprende dal «Mattino d’Abruzzo» di
Pescara del 25 maggio 1952 che, in un articolo a firma Dino Tiboni, titolava: «Per
l’incremento del turismo. È necessaria unità d’azione tra città balneari
marco-abruzzesi». Sicché, l’idea di coordinare le città rivierasche del
medio Adriatico (malgrado i soli 4000 letti d’Abruzzo), sembrava poter essere
una proposta credibile per ampliare l’offerta di accoglienza per i viaggiatori
interessati (vale a dire, consapevoli e informati) – gli unici presenti in
quegli anni in zone per così dire “marginali” e di certo ragguagliati da quel
celebrato Baedeker che era (e che è)
la Guida Rossa del Touring) –.
Da
questo punto di vista, il I Festival
gastronomico interregionale Marche-Abruzzo-Molise di Vasto (rimasto senza
seguito) rientrava coerentemente nel paradigma del viaggio d’élite – come si è visto, l’unico allora pensabile
e, soprattutto, possibile –. In quei due giorni di tarda estate del
Cinquantatré (12-13 settembre), tra i visitatori residenti poteva di certo
essere intravisto qualche volto sconosciuto. Stava nei fatti. Ma l’importante
non era questo. Quel che interessava era la realizzazione di una “vetrina” del gusto
– ricorrendo alla magica parola “festival” resa popolare da un Sanremo ancora
radiofonico – per segnalarne la natura turistico-culturale tra le stesse popolazioni
produttrici. A partire dalla “scoperta” di questa dimensione interregionale
della rassegna, la conoscenza della tradizione gastronomica locale e dei suoi
cultori comincerà a travalicare i fines
locali. Tre anni più tardi, infatti – gennaio 1956 –, il ristoratore Francesco
Izzi avrebbe ricevuto «Il Pesce d’Argento”, premio per la migliore cucina
ittica della riviera adriatica.
Un
decennio più tardi – nel 1966 –, lo stesso chef vastese torna sulla
scena nazionale in un celebre articolo di Vincenzo Buonassisi pubblicato su «Le
vie d’Italia» - rivista del Touring Club Italiano – [fig. 1], nel n. 12
del dicembre 1966, pp. 1459-1469 (paginazione del periodico in progressione annuale).
Tal che, durante il suo viaggio in Abruzzo nell’ottobre di quell’anno (e in
incontri documentati fotograficamente [figg. 2-3]) – dopo aver resocontata
la presentazione della cucina abruzzese al Circolo della Stampa di Milano («Corriere
della Sera», 6 marzo 1966) –, il giornalista-gastronomo, misurandosi
direttamente con le pietanze d’autore, può scrivere:
Il
brano è di alta istruzione gastronomica. La lectio fornita dal grande
scalco vastese consente allo scrittore di annotare con precisione il
necessario. Soprattutto sottolineare un unicum nella tradizione
culinaria regionale: l’uso dello zafferano di Navelli. Nel suo intervento,
Buonassisi individua il topos di due prodotti (“diavolilli” e zafferano
di Navelli). A indicare la specificità di alimenti che connotano le pietanze.
Con una conclusione: che importante non è tanto la ricetta (di per sé
infinitamente replicabile, ma i prodotti che si utilizzano per connotarla. In
altre parole, ciò che potremmo definire topicità.
![]() |
|
Un
esempio analogo lo possiamo rintracciare un secolo prima: con precisione nel
1867, allorché capita qualcosa di assolutamente singolare nella Parigi del II
impero. La Ville-lumière registra la
presenza di un espositore vastese nel settore alimentare – Matteo Bottari – che
partecipa all’Esposizione Universale
di quell’anno. Nessuno avrebbe potuto immaginare che un trentaduenne maccaronaro del remotissimo Abruzzo
Citra (essendo nato a Vasto nel 1835) riuscisse a vincere la medaglia d’argento
nella sua classe. Sì. Matteo Bottari aveva ottenuto l’alto riconoscimento nella
produzione di pasta alimentare (cfr. L’indicatore generale del commercio e
dell’industria italiana, Napoli 1876, pp. 113-114). Del resto, lo stesso
risultato che gli sarebbe occorso nell’Esposizione Universale di Vienna del
1873 – sette anni più tardi – allorché avrebbe bissato il successo nel medesimo
segmento produttivo (un’osservazione: quando Bottari otteneva questi risultati la
De Cecco di Fara S. Martino doveva essere ancora fondata). Quasi non bastasse
(e l’epoca non cambia), il pasticciere Gaetano Celano avviava la produzione
artigianale di rosolio, vale a dire
quella soluzione liquorosa ottenuta dai petali di rosa che oggi possiamo
tranquillamente definire come prodotto agroalimentare tradizionale italiano [fig.
4]. Sulla specificazione degli elementi topici si tornerà più avanti. Non
senza però ricordare i nomi degli altri «industrianti» maccaronari
locali: Filippo Di Ciocco, Cesare Ruggieri, Annibale Sacchetta.
![]() |
(Fig. 4: L’etichetta della distilleria di rosolio Gaetano Celano (1866). Vasto, Archivio Storico Comunale) |
A
questo punto diventa utile connettere tali aspetti sul versante di una
possibile storia cittadina dell’ospitalità e della convivialità. Insomma, non
solo la tematica relativa all’industria della pasta alimentare di qualità, ma
anche all’uso locale di una bevanda «comunitaria» come il caffè nel
contesto degli esercizi commerciali di intrattenimento. Il caffè,
dunque? Sì, proprio il caffè. Rispondendo all’interrogativo del quando
venga sorbito per la prima volta in città. E, soprattutto, per capire quale sia
stato il primo mirabolante «manovratore» di prodotti orientali in chicchi e poi
tostati a diffondere in città l’aroma di questa strana bevanda di color nero in
un tempo che, per noi contemporanei, rimane ancora oggi sospeso e indefinito.
I
dati finora disponibili consentono di delineare il seguente profilo.
In
una Nota degli esercenti i diversi mestieri conservata nell’Archivio
Storico Comunale di Vasto, datata 3 maggio 1827 incontriamo il minuzioso elenco
(che qui riordino alfabeticamente) di bettolai, caffettieri, bottegai,
cantinieri, locandieri, tavernari, venditori di dolci e liquori, venditori di vini
– tutti muniti di apposita patente o in attesa di ottenerla – con una nutrita
presenza di caffettieri (6 su 18.). In ordine decrescente incontriamo
cantinieri (5 su 18), tavernari (2 su 18), bettolai (1 su 18), bottegari (1 su
18), locandieri (1 su 18), venditori di dolci (1 su 18), venditori di vino (1
su 18). All’interno di questo numero, va registrato un caffè-bigliardo. In buona sostanza, almeno sulla carta, le
botteghe del caffè risultano essere 1/3 di tutti gli esercizi esistenti in
città. Va notata la presenza di due gestioni femminili delle attività
commerciali (2/18).
Bettolaj
Saverio
Bottari
Bigliardieri
Francesco
Paolo de Blasiis
Bottegari
Leonardo
Spatocco
Caffettieri
Cesario
Castelli, Luigi Castelli, Antonio Cavallone, Raffaele Consalvo, Francesco Paolo
de Blasiis, Filippo Gizzi,
Cantinieri
Michele
Cinquina, Maria Di Spalatro, Luigi Giosa, Nicola Paolino, Giovanna Recchione
Locandieri
Stefano
Mattioli
Tavernari
Luigi
Altea, Cesare Muzii,
Venditori
dolci e liquori
Pasquale
Negri
Venditori
vino
Sante
Fenice
In
un successivo elenco datata 28 gennaio 1852, risistemato con gli stessi criteri
del precedente, troviamo una diversa distribuzione – sicuramente più essenziale
– degli esercenti con patente (fig. 5). Il risultato è il seguente: una
maggiore presenza di caffettieri (10 su 20. Uno in più rispetto a quelli
numerati nel documento). In ordine decrescente incontriamo bettolieri (6/20),
locandieri (3/20), gli armieri (1/20). Ciò vuol dire che, almeno sulla carta,
le botteghe del caffè costituiscono la metà di tutti gli esercizi esistenti in
città. Cresce, tra l’altro, la stessa presenza di gestione femminile delle
attività commerciali (7/20).
Caffettieri
Cesario
Castelli, Maddalena Castelli, Errico Celano, Michele Cieri, Francesco Paolo de
Blasiis, Tito d’Ippolito, Rosaria Fulvio, Domenico Giovine, Errica Lattanzio,
Giuseppe Moscariello
Locandieri
Filippo
Marino, Giovanni Trivelli, Gaetano Vallone
Bettolieri
Maria
Giuseppe Bottari, Maria Nicola Marchesani, Maria Giacinta Miscione, Lorenzo
Orlandi, Saverio Reale, Maria Scodavolpe
Armieri
e ferrai
Angelantonio
Muzii
![]() |
(Fig. 5: Nota degli esercenti i diversi mestieri in Vasto, 28 gennaio 1852. Vasto, Archivio Storico Comunale) |
Il
confronto tra i due registri lascia emergere un duplice aspetto delineatosi nel
torno di un quarto di secolo: da un lato, la crescita delle caffetterie;
dall’altro, l’aumento della gestione femminile di locali con clientela connessa
con cetualità di diverso status (braccianti, contadini, manovali,
pescatori, vastasi [facchini] ecc.). Dal che si può ben intendere come, a metà
Ottocento, risulti ben documentata la croissance del caffè quale pratica
di omologazione sociale del gusto. L’osservazione – va detto – è riferita
all’esercizio pubblico perché, lo smercio della bevanda, in quello stesso
periodo, era praticata anche con l’ambulantato (Fig. 6). La ragione sta
nel fatto che era piuttosto farraginosa la sua preparazione in ambiente
domestico. Non conosco documenti vastesi relativi a questa pratica. Difficile, a
maggior ragione, quantificarla. Da questo punto di vista, la produzione in casa
di caffè doveva risultare molto limitata – anzi, limitatissima –. La complessa
lavorazione della tostatura scura (o “a manto di monaco”) invitava comunque
all’acquisto dei chicchi presso il caffettiere. La stessa cuccumella (in
rame fino al 1886) doveva essere posta non su fuoco a gas – ovviamente – ma su
carboni. Con un tempo di bollitura profondamente slow. Stando così le
cose, quale sarebbe potuta essere, allora, la procedura più seguita tanto in
ambiente domestico quanto in ambito pubblico? Sicuramente il metodo di
infusione alla turca in un samovar, dove un sacchetto di tela contenente caffè
legato con un cordoncino veniva immerso in acqua fino a ebollizione. Poi, al
momento della consumazione, veniva filtrato in un colino per evitare il
fastidio della posa in bocca. Possibile, allora, realizzare una consumazione di
caffè in casa?
![]() |
(Fig. 6: Il piccolo caffettiere ambulante. Stampa ottocentesca) |
Gli
anni tra il 1827 e il 1852 segnano in modo inequivocabile l’incremento all’uso
di questo particolare liquido che, prima di ogni altra cosa, risulta essere un
meccanismo di organizzazione sociale. Ma c’è da chiedersi: qual è la
testimonianza più antica di un caffettiere in città? Il presumibile numero uno?
Lo si può individuare? A tal proposito, le fonti più autorevoli restano i
catasti. Dopo aver compulsato l’Onciario (1742) e il Napoleonico
(1813), ci accorgiamo che quest’ultimo è l’unico in grado di fornirci una
traccia sicura. Alla sez. G, n.54, p. 325 troviamo la seguente indicazione: Salvatore
Provicoli caffettiere [fig. 7] abitante in via (rione) Genova (una
traversa di via S. Pietro franata nel 1956) in una casa con tre vani superiori
e uno terraneo con cisterna (elemento fondamentale per la preparazione della
bevanda).
![]() |
(Fig. 7: Catasto provvisorio napoleonico (1813). Accatastamento di Salvatore Provicoli. Chieti, Archivio di Stato) |
«La
rivoluzione liberale del 1860 modificò profondamente nelle nostre province le
relazioni fra classe e classe sociale. Se i contadini, per molti anni ancora,
continuarono a vivere nel sacro timore dei signori, nell’animo dell’artigiano,
del mestierante, dell’operaio, cominciarono a fermentare le vanità, le
ambizioncelle. Il desiderio di mutare stato e, se non ragguagliarsi, almeno di
accostarsi a chi stava più in alto nella scala sociale. Questa tendenza, dalla
quale più tardi si svilupparono l’arrivismo e l’impiego, mania che fecero tanti
spostati, rese assai molesto e imbarazzante per la classe dei signori quel
caffè dove l’artiere non aveva osato mettere piede ed ora entrava liberamente e
si permetteva di criticare questa o quella mossa al giuoco di carte, questo o
quel tiro al gioco del biliardo ed anche più irrispettosa familiarità».
(F.
Ciccarone, Ricordi, Vasto, Cannarsa, 1998, p. 30)
Inaccettabile,
dunque, agli occhi e alle orecchie della ricca borghesia cittadina. Di fronte a
tanta insolenza di classe, il solito Ciccarone si lascia andare alla seguente
precisazione:
«Fu
allora che venne in mente a parecchi della classe agiata di abbandonare il
caffè a questi nuovi e indiscreti frequentatori il caffè e di fondare un
circolo dove potessero passare il tempo senza essere costretti a spiacevoli
contatti».
(Ivi)
![]() |
(Fig. 8: Stato di famiglia di Giuseppe Provicoli con l’indicazione del padre Salvatore. Stato d’anime, Archivio Concattedrale di S. Giuseppe, Vasto) |
Insomma,
nessun contatto con la plebe. Contatto con la plebe che il caffè aveva
consentito. Come si sarebbe risolto il tutto? Molto semplicemente:
interrompendo la circolarità interclassista del caffè.
E
qui torniamo di nuovo allo stile di vita.
Non solo ai rapporti sociali, ma alla stessa dieta e all’ambiente in cui è inscritta. I prodotti sono
espressione di ciò che viene definito terroir:
vale a dire, un’area ben delimitata in cui convergono condizioni naturali,
fisiche e chimiche, clima che consentono la realizzazione di prodotti ad hoc.
Ad esempio, l’acqua del maccaronaro Matteo Bottari era quella di un’antica
sorgente ora in disuso: le Luci. Lo stesso grano di quella pasta non era
stato più utilizzato perché sostituito dal grano Cappelli: parlo del cosiddetto
grano saragolla (stando alla testimonianza del Marchesani) che, nel 1801, nell’opera
dal titolo I principi della vegetazione ovvero
come coltivar la terra per trarre da essa il maggior possibile frutto, l’abate teramano Bernardo Quartapelle
descriveva in questi termini:
[...]
I nostri agricoltori distinguono diverse specie di grani, chiamandone altri
duri altri bianchi. Fra i primi occupa il principal luogo la Saragolla, i cui acini
sono lunghetti sodi, e di color biondo […]. Le migliori saragolle del nostro
Regno ottime per fare paste, si seminano in Novembre e Dicembre […]. È un grano
lungo, gialliccio, e di gran durata […].
Anche
se la qualità Triticum turgidum durum comincia a essere commercialmente
recuperata non lo stesso si può dire per l’acqua (a meno di voler riattare
l’antico acquedotto). A partire da questi dati, i maccaroni di Bottari
non hanno alcuna condizione per un’eventuale “riproducibilità”. Ecco allora il
punto. Sapere e sapore – entrambi i termini fondati sulla radice sap –
hanno l’opportunità di diventare protagonisti di un diverso approccio al modo
di vivere l’ambiente e il cibo. Non tanto la ricetta; ma la dieta, vale a dire
lo stile di vita su cui, in buona sostanza, si fonda il concetto di bene
culturale immateriale. Da questo punto di vista, la rilettura dell’aureo
volumetto del botanico Michele Tenore (1780-1860) dal titolo Relazione del viaggio fatto in alcuni luoghi
di Abruzzo Citeriore nella State del 1831 (Napoli, Tip. P. Tizzano, 1832)
costituisce un prius di straordinario interesse per cogliere il senso
della ricerca sulla biodiversità in una delle province più settentrionali del
Regno delle Due Sicilie. Si provi a riflettere. L’antica indagine di Michele
Tenore ha per oggetto la biodiversità della Provincia di Abruzzo Citeriore –
vale a dire, l’attuale Provincia di Chieti –. Un tema, dunque – quello
dell’Abruzzo meridionale – che ha sempre destato interesse tra gli studiosi d’antan. In effetti, se si tiene conto
delle meticolose ricognizioni svolte dal massimo illuminista del Settecento napoletano,
Giuseppe Maria Galanti, non possiamo non considerare le affermazioni del
Visitatore regio sull’olivo dell’Abruzzo Citeriore nel viaggio del 1792. Se da
un lato, apprendiamo che l’olivo prodotto citra
flumen Sangri è la monocultivar gentile, quella piantata citra flumen Piscariae è la qualità
cucca (la domanda è: qual era, nella produzione dell’olio, la miscela di
monocultivar? E il tipo di molitura risulta centrale nella definizione di un
prodotto? La Dop è sicuramente importante nella certificazione di un prodotto
alimentare. Ma ciò non significa che ne garantisca la storicità). Non solo. Nel
delineare una graduatoria qualitativa della produzione olearia del Regno – che non
indugia meditativamente sulla Fisiologia
del Gusto alla Brillat-Savarin, ma proprio sulla tecnica dell’assaggio
(vista e palato) –, Galanti pone al primo posto l’olio del Gargano; al secondo,
quello di Vasto. Noi non sappiamo se alla base di tale graduatoria vi sia la
specificità della molitura delle drupe (la testimonianza più antica va
ricondotta alla Statistica murattiana
del 1811 che parla di trappeto a trabocco [lo stesso meccanismo su cui, in seguito,
verrà modellato l’ordigno da pesca tipico della Costa dei Trabocchi]).
La descrizione che ne dà il Marchesani (Storia,
p. 160) è molto dettagliata: «Estraggonsi gli olii ne’ nostri trappeti mercé rozza
macchina, della quale il principal pezzo è un tronco smisuratamente grande e
lungo, che con l’enorme peso spreme dalle olive racchiuse in sacchi di stuoia
l’olio». Certamente alla base va posta una tecnologia scomparsa (documentata
iconograficamente negli anni trenta del Novecento da Paul Scheuermeier in Bauernwerk in Italien [trad. it., Il lavoro dei contadini. Cultura materiale e
artigianato rurale in Italia e nella Svizzera italiana e retoromanza, Milano,
Longanesi, 1980, che raccoglie disegni e foto di 416 località) e, oggi, «archeologicamente»
attestata, ch’io sappia, solo ad Altino]. In questo caso, credo, la
ricostruzione digitale di un trappeto a trabocco può rappresentare un documento
essenziale di una storia delle biodiversità del gusto e della loro costituzione
immateriale nel tempo.
Da
quanto mi risulta, nessuno di questi materiali è stato utilizzato per la
definizione di una Dop (Colline Teatine non sembra avere un fondamento storico,
nella misura in cui risulta sfuggente alle poche testimonianze esistenti).
Quasi non bastasse, la stessa biodiversità vinicola – cosa incredibile! –,
risulta estranea all’indagine storica in questione. Un esempio valga per tutti.
L’art.
87 degli Statuti di Lanciano (1592) recita quanto segue: «Dell’uva. Item è
posto et ordinato che non sia persona alcuna, tanto cittadino como forastero,
tanto di Feria quanto d’altro tempo, ardisca né presuma vendere altra sorte d’Uva
che di Moscatello Pergolo, Uva Pane, Uva donnola, Precoccio et Malvasia […]»
(cito dall’ed. di L. Cirulli, Gli Statuti
antichi della Città di Lanciano, Lanciano, Q-Rivista Abruzzese, 2001, p.
280). Ora, non entro nel merito di questi vitigni su cui tornerò in altra
occasione. Ciò che, al contrario, interessa è un altro elemento. Vale a dire
l’annotazione che, tra i tanti vitigni esistenti, la città ne ammette solo
cinque (Moscatello Pergolo, Uva Pane, Uva donnola, Precoccio, Malvasia),
escludendo gli altri. Sull’uva S. Francesco di Vasto ho già parlato in un altro
intervento.
Ecco
allora l’aspetto rilevante. Lo statuto in questione lega alla sola
commercializzazione del prodotto l’indicazione filogenetica del vitigno. Ancora
una volta, dunque, il gusto – espressione dell’assaggio – decide la fortuna
commerciale e, di conseguenza, la menzione ufficiale dei prodotti.
Ora
noi sappiamo che, sulla base del Libro
degli affitti (1747) della Camera Baronale di Castiglione alla Pescara
(oggi a Casauria) si pagava l’affitto «per il Moscatello alle Coste di San
Felice»; non sappiamo, però, se si tratta della stessa specie di quella menzionata
a Lanciano. In ogni caso, nell’un caso o nell’altro, va sempre ricordato che il
moscatello, insieme con gli altri vini menzionati a fine Cinquecento nell’Abruzzo
meridionale, costituiscono – fino a oggi – la biodiversità agricolo-commerciale
più antica dei tre Abruzzi. Ma un altro aspetto va considerato (argomento,
questo, già affrontato e che qui sintetizzo): la scoperta agronomica dell’Uva
del Vasto. Gli «Atti dell’Accademia Gioenia di Scienze Naturali di Catania»
nel T. XIII del 1839, pubblicano una memoria dell’abate-agronomo Giovacchino
Geremia che, nella sua Appendice al
Vertunno Etneo. Confronto tra le uve etnee e quelle di Napoli, scrive quanto
segue: «[Uva] Marocca quasi somigliante a
quella del Vasto, ma più rotonda e con acino
pingue, a differenza della prima che ha bacche assai grosse» (p. 68). A essa va aggiunta, di Michele Tenore, il Catalogo delle piante che si coltivano nel R.
Orto Botanico di Napoli (Napoli, Tip. Puzziello, 1845). Grazie a queste
testimonianze – la prima, catanese della prima metà del sec. XIX; la seconda, napoletana
– apprendiamo come, sul versante tassonomico, l’Orto botanico di Napoli
(istituito nel 1807) fondato e diretto da Michele Tenore (cui si rivolge il Marchesani
per la sua informazione nella Storia) accolgano questo vitigno utilizzato dal
Geremia per classificare l’altro siciliano –. In definitiva, la tipicità locale
(di là dal suo valore intrinseco) diventa uno strumento per la conoscenza
generalizzata della specie vitis vinifera.
Un
ultimo dato sui vini. Sulla base dei protocolli del notaio vastese del
Cinquecento Gio.Battista Robio stipulati tra contraenti del traffico
interadriatico ho potuto ricostruire una breve tassonomia valutativa sul gusto
(tipica di un sommelier), circa l’antico vino commercializzato: «3 dicembre 1547,
6a ind. vino bono chiaro del vasto
alla mesura juxta de dicta terra bruschi
e non dolci bono et merchatantesco;
19 marzo 1548, 6a ind. / vini boni et
clari; 5 aprile 1548, vini boni meri
clarique ac boni coloris et melioris saporis; 21 luglio 1548, vini boni
clari boni coloris meliorisque saporis; 12 Januarij 1551, vini boni clari et boni coloris ac saporis; 9 martij 1551 vini boni clari bonique
coloris et saporis; Die 9 mensis
mai 1551 vini boni clari. Rispetto a
questi documenti, il sommelier contemporaneo si troverà di fronte a tali risultati (dal più complesso al più semplice) 1. vino bono chiaro
del vasto alla mesura juxta de dicta
terra bruschi e non dolci bono et
merchatantesco; 2. vini boni meri clarique ac boni coloris et melioris saporis; 3. vini boni clari bonique coloris et saporis; 4. boni clari
(ancora un’annotazione: per brusco –
come indicato al punto 1 – si intende
acidulo, aspro di sapore).
Dopo
il vino dovrei parlare dell’aceto. Ma è un argomento ancora in corso di
indagine. In questa sede accenno solo al documento più antico rinvenuto, un
rogito di notar Gio. Battista Robio datato 1° giugno 1550, relativo alla
transazione tra i mercanti vastesi Marcantonio e Ippolito Peppo (venditori) con
gli omologhi di Bergamo Andrea Pachielli e Battista de Rubeis e Antonio di
Correggio (acquirenti) di una partita di salme 311 di vino e 9 di aceto.
Aceto di vino bianco, ovviamente, derivato dalla cultivar di uva S. Francesco
e, come già sottolineato in precedenza, destinato alla lavorazione alimentare: scapece
e carpisella (o calpisella). Gli inediti Statuti di Vasto
del XVI secolo registrano la forma scapece sotto la voce gelatina di
pesce (da non confondere ovviamente con la cosiddetta colla di pesce).
L’identificazione tra i due alimenti è data dal Libro di cucina del XIV
secolo pubblicato nel 1863 (F. Zambrini, Il libro della cucina,
Bologna, Romagnoli, 1863), laddove gelatina ecc. è definita schibezia.
In questa variante è escluso l’olio ma è presente lo zafferano. Nell’altra
trasmessa dall’Anonimo del Quattrocento (in L’arte della cucina in Italia,
a c. di E. Faccioli, Torino, Einaudi, 1987) accade il contrario: presente
l’olio, assente lo zafferano.
Qui
la gelatina è definita schibezo (sull’argomento cfr. L. Murolo, Il
libro del brodetto, Vasto, il Nuovo, 2007). In entrambi, determinante risulta
l’aceto. Ne consegue che la peculiarità del prodotto vastese rispetto ai
ricettari medievali citati sta nel fatto che la tradizione locale di scapece/schibezia/schibezo
si trova a utilizzare tanto l’olio quanto lo zafferano.
Tra
le specialità preparate dallo chef Francesco Izzi nel 1966, Vincenzo
Buonassisi segnalava il singolare piatto delle carpiselle (in dialetto, carpəsèllə al singolare) che, come già
osservato in precedenza, ne sintetizzava così gli elementi costitutivi: «pesce
fritto poi marinato con aceto, a cui si aggiunge mosto cotto». Una traccia
sicuramente importante. Ma che cosa realmente fosse e come si approntasse,
anche in quel periodo doveva risultare conosciuto da pochi. Si dovrà attendere
la testimonianza di uno degli ultimi paroni di barca novecenteschi.
Così, grazie al monumentale lavoro di Francesco Feola sulle barche da pesca e
sui pescatori, possiamo disporre dell’antica formula con cui il parone
Antonio Pollutri, nato nel 1905, (fig. 9) realizzava in famiglia la
misteriosa carpəsèllə:
Si
sceglieva il pesce migliore, merluzzi, seppie, calamari, testoline e triglie,
tutto di taglia piuttosto grossa. Fritto il pesce, lo si poneva a strati in una
zuppiera o in un barilotto apposito, il cognotto, e fra l’uno e l’altro
strato si mettevano mandorle lesse, acini di melograno, pinoli, ciliegie,
peperoni, capperi, erbe di scoglio, fagiolini e quant’altro si usava conservare
in aceto. Infine, bolliti a parte aceto e mosto cotto (vino dolce cotto) con
erbe odorose (rosmarino, salvia, alloro) si spargeva il tutto nella zuppiera o
nel barilotto, badando che il liquido fosse ben bollente e che penetrasse fino
in fondo al vaso, in modo che tutto il pesce ne diventasse saturo.
(F.
Feola, Paranze, Lanciano, Carabba, 1997, pp. 175-176).
Significativa
l’attenzione di parone Antonio sui pesci di taglia grossa. Torna in mente la
grande tela (cm 260 x 340) di Giuseppe Recco (1634-1695) conservata prima nella
quadreria d’Avalos in quel di Vasto – probabilmente commissionata da Diego
d’Avalos (₊1697), padre di Cesare Michelangelo (entrambi vissuti nella città) –,
poi nel Palazzo di Napoli e, infine, nel 1862, donata al Museo di Capodimonte e
esposta nella sala 97 con il titolo Natura morta di
pesci ed altri animali marini (in I tesori d’Avalos, Napoli,
Fiorentino, 1994, pp. 170-171). Probabile celebrazione dell’alimentazione
nobiliare in situ, sottolinea la gràššə (voce dialettale che
designa l’abbondanza) tanto quantitativa quanto qualitativa del pescato da
esibire sul desco [figg. 10-11]. Rappresentazione, questa, che fa il
paio con l’altra descrittiva che il memorialista seicentesco Nicola Alfonso
Viti tratteggia in alcuni versi della centuria di ottave Il pescator dolente
di cui esiste la sola trascrizione ottocentesca (praticamente originale)
dovuta allo storico Luigi Marchesani [fig. 12]: «Con le spigole
il cefalo conversa/con maggior pace, o pur col granchio il rombo/Né
fu mai canto a le telline avversa/L’avida orata, ò al fragolin
lo scrombo» (in L. Murolo, op. cit., p. 19).
![]() |
(Fig. 10: Giuseppe Recco, Natura morta di pesci ed altri animali marini, Napoli, Museo di Capodimonte) |
![]() |
(Fig. 11: Giuseppe Recco, Natura morta di pesci ed altri animali marini, particolare) |
![]() |
(Fig. 12: Nicola Alfonso Viti, Il pescator dolente, copia ottocentesca [unica esistente], Vasto, Archivio Storico Comunale) |
Ma
torniamo sui nostri passi. Oltre a pomodori e agrumi – di cui ho già discusso altrove
– non posso sottacere la mortella, il Myrtus communis che occupa una
connotazione nell’economia agroalimentare d’ancien régime. In fasi
abbastanza recenti (nel secondo dopoguerra) ne conosciamo l’impiego solo in
funzione alieutica per la pratica della piccola pesca nell’ortonese (nei fatti,
la resistenza del mirto ai bassi fondali della costa adriatica occidentale lo
rende utilizzabile per la cattura di polpi e sepppie [sull’argomento cfr. C. Boromeo,
La mortella e la mentuccia. Storie di pesca e pescatori, Ortona, Menabò,
2012]). Ma proprio in ragione di questa prassi tipica di aree economicamente depresse,
riusciamo a capire quanto, a partire da metà Ottocento, di questa pianta si
fosse perso l’interesse per il suo antico valore d’uso.
In
un luogo della sua Storia (p. 133), Luigi Marchesani scrive: «Taglio
delle mortelle. Parlasi di questo affitto in documenti del 1618; ma sì recente non
può tal natura d’introito; invero Ladislao permise nel 1391 imporsi dazio sulla
estrazione delle mortelle: queste rendevano ducati 12 e grana 25 nel 1812».
Cerchiamo di riflettere su questa affermazione.
Prima
di ogni altra cosa il dottor fisico non parlava di mortella sensu stricto,
ma del vantaggio economico che l’universitas prima, e il comune poi,
poteva trarre dalla raccolta di questa pianta con l’affitto della gabella. Come
tutti sanno, con questo termine si intende l’imposta indiretta sugli scambi e
sul consumo (lo apprendiamo da un protocollo del notaio vastese Alessandro
Fantini del 16 maggio 1611 – vol. IX, a. 60, c. 67 – conservato nella sezione
di archivio di Stato di Lanciano e sconosciuto al Marchesani). Dal che si può intendere
quanto questo arbusto di macchia mediterranea trovasse rilevanza nei mercati
dei prodotti al minuto (nel 1611, sulla base di specifiche capitolazioni di
privativa e di contratti di lavoro ad hoc, sei uomini erano destinati
all’industria di trasformazione).
Ma
se Marchesani ne indicava l’uso, non precisava tuttavia a che cosa servisse.
Del resto, per lui e per i suoi contemporanei l’impiego era noto. Non c’era
alcun motivo di precisarlo (sarebbe stato un po’ come spiegare a che cosa
servisse il grano). Ma proprio perché di quella pratica abbandonata è stata
persa anche la memoria va da sé che non ne conosciamo più nemmeno l’antica
utilizzazione. Neanche la modalità di raccolta (che, in linea di massima,
doveva consistere nel taglio dello stelo, in un breve periodo di appassimento
in loco di foglie e bacche, in un successivo scuotimento delle stesse per
ottenerne il rapido approvvigionamento). Va da sé che proprio perché l’uso del
mirto è ben documentato, dobbiamo presupporne l’utilizzo per le lavorazioni di
concia (nei cosiddetti carnariles) – ne parlava Beniamino Laccetti nel
1904 (Pro Vasto industriale e porto alla Penna, Vasto, tip. Zaccagnini, 1904,
pp. 9-10), di aromatharia (com’è noto, gli aromathari
costituivano nei secoli d’ancien régime parte rilevante del ceto
dirigente della città), per uso alimentare (prima dell’avvento del pepe), per
la produzione di soluzioni liquorose. Per un brindisi, allora, oltre ai petali
di rosa (da cui rosolio), andava aggiunta anche la mortella. E che cosa dire,
inoltre, di quel cremor tartaro che, estratto dai grappoli d’uva,
serviva anche per la produzione di lievito per dolci? Il solito Beniamino
Laccetti, nel testo appena citato (pp. 11-12), ricordava che erano tre, a
Vasto, le fabbriche di tale prodotto (quelle di Giustino Cianci, Pietro Cianci,
Giuseppe Vicoli). Il che vuol dire fissare già nel secondo Ottocento la completezza
del ciclo della pasticceria e della distilleria avviato da Gaetano Celano e
reinventato da Gaetano De Luca (1890-1953) [fig. 13], soprattutto sul
versante liquoristico al latte [fig. 14], nella prima metà del
Novecento, mio nonno materno (insieme con il fratello Luigi), che, formatosi da
Caflish a Napoli, avrebbe prima costituito un laboratorio a Campobasso (dove è
nata mia madre) e poi a Vasto (leggo sempre con tenerezza la pubblicità dei
miei avi sull’«Istonio» del 1908, dove, a proposito del liquore al latte Milka,
scrivevano: «Guardarsi dalle contraffazioni») [fig.
15]. Già. Guardarsi dalle contraffazioni. Soprattutto oggi. Ecco, dunque,
il tema di fondo: il cibo come dispositivo che, su stesso, ha raccordato un
insieme di pratiche diverse (turismo, terroir, protoindustria alimentare)
fondatrici di una croissance econonomico-culturale autoctona rimasta
confinata nel mercato locale e, per questo motivo, destinata all’inevitabile
declino.
![]() |
[Fig. 13: Gaetano De Luca (1890-1953)] |
Ho
discusso del prima. L’oggi mi sfugge. Figuriamoci del poi.
Per quel po’ che mi è dato di capire, Scapece allo zafferano di Vasto e carpəsèllə
(magari con aceto di vino bianco da uva S. Francesco) potrebbero costituire
un momento fondamentale per la ricostruzione di una topicità. Potrebbero
… . Ma, per quanto si voglia, la semplice coniugazione al condizionale non ha
mai prodotto effetti.